martedì 30 luglio 2019

Centro Culturale Averroé (Roma). Di Alberto Rosselli.



Centro Culturale Averroé (Roma). 

Il Centro Culturale Averroè nasce come progetto voluto dall’ associazione ACMID-DONNA ONLUS, con l’obiettivo di creare un punto di incontro per tutti coloro che desiderino approfondire tematiche legate alla cultura Maghrebina e ad aspetti politici e sociali del mondo Arabo. Il nostro lavoro è orientato a diffondere e far comprendere la necessità dell’affermazione di una cultura araba moderata, oggi elemento da cui non si può prescindere se si intende concorrere al sano sviluppo di un dialogo interculturale entro cui le diverse culture possono incontrarsi, parlarsi e comprendersi.
Per questo la proposta culturale del Centro sostiene e promuove, sotto le più forme, i valori del libero pensiero, l’idea di un Islam moderato, liberale, rispettoso della sacralità della vita, dei diritti delle donne e dei diritti umani in generale, contro gli estremismi di qualsiasi natura. Le attività del Centro spaziano dall’organizzazione di incontri ed eventi, alla presentazione di libri di narrativa e saggistica; dalle manifestazioni culturali alle conferenze; dalle proiezioni di video e filmati, alle anteprime di documentari.
Il Centro ha ospitato nomi rinomati della cultura araba moderata e, più in generale, esponenti della cultura, del giornalismo e del mondo accademico italiano ed internazionale. All’interno della nostra sede è presente una biblioteca multimediale in arabo, italiano e francese che raccoglie testi di filosofia, religione, antropologia, sociologia, storia, tradizioni popolari, che trattano i temi sopra esposti con particolare riguardo ai temi del multiculturalismo, dell’immigrazione, dei diritti umani, delle pari opportunità e della tutela delle donne.

IL COMITATO SCIENTIFICO DI CENTRO STUDI AVERROE’
Il comitato scientifico del Centro Studi Averroè svolge funzioni di rappresentanza finalizzate sia alla valorizzazione dell’immagine del Centro in ambito nazionale ed internazionale sia alla diffusione dei risultati conseguiti nelle attività di ricerca, monitoraggio e divulgazione di iniziative nei settori di interesse. Svolge funzioni di consulenza, indirizzo e valutazion, partecipa alle scelte relative agli indirizzi delle linee di ricerca nonché alla verifica dei risultati.

On. Souad Sbai (Presidente)

Adriano Segatori
Paolo Cioni
Stefano Amodio
Alberto Rosselli
Giampiero Spinelli
Silvana Campisi
Alessandro Denti
Francesca Musacchio
Filippo Adriano Costi
Vincenzo Cotroneo

sabato 27 luglio 2019

Civili polacchi deportati dai sovietici in Iran (1941)

'Piccoli eroi' loro malgrado. L'epopea dei bambini polacchi deportati da Stalin in Iran (1941). Di Cristina Cattaneo (*).


Dalla Polonia alla Siberia, Dalla Siberia all’Asia Centrale, Dall’Asia Centrale all’Iran (e, coincidenza, le conferme)
Leggo sulla Gds la recensione al libro "Storie Segrete" di Alberto Rosselli scritta Da Roberto Roggero.
Davvero una coincidenza che anch'io, nella mia ricerca per l'articolo che allego, mi sia imbattuta in uno scritto dello stesso Alberto Rosselli sui profughi polacchi a Teheran. La mia ricerca andava in una direzione leggermente diversa, perché incentrata proprio sui "Bambini di Teheran", ma fa sempre piacere trovare conferme reciproche.
Cristina
L’incredibile Odissea di tanti profughi polacchi, cristiani ed ebrei, iniziata fin prima dello scoppio della seconda guerra mondiale.
In particolare voglio raccontare qui la storia di un gruppo di bambini ebrei, passati poi alla storia proprio come i Bambini di Teheran. Le storie di questi piccoli eroi, loro malgrado, sono diventate soggetto di libri e di film, purtroppo non tradotti in italiano.
Una volta ho sentito il regista polacco Christoff Zanussi affermare che in alta montagna e in tempo di guerra si possono compiere gesti di grande eroismo e solidarietà come non capita quasi mai in condizioni normali. Certo, questo è vero per tutte le situazioni di estremo pericolo e di estremo rischio. E, aggiungerei, se certi fatti si possono ricordare è proprio perché si è verificato uno di questi episodi, che non solo leniscono la memoria di una storia tragica ma confermano anche che i semi secchi e abbandonati possono germogliare e dare frutti.
Ed è proprio un episodio della seconda guerra mondiale che voglio qui ricordare.
A volte ci dimentichiamo questa parola “mondiale” e tendiamo a ricordare episodi e storia a noi più vicini. Invece bisognerebbe avere sempre presente l’ampiezza del conflitto e considerare le conseguenze di questa enormità sulle singole persone.
Quando ho scritto l’articolo sugli “Ebrei di Buchara” avevo trovato un passaggio che parlava dei “Bambini di Teheran”. Si parlava di profughi, di ebrei, di guerra. Così ho cercato di saperne di più. Ed ho scoperto una storia commovente ed avvincente. Una storia lunga e dolorosa, con troppe ombre, ma, se si può raccontare, anche con alcune luci. E trovo che sia importante raccontarla adesso, nonostante i toni minacciosi del leader iraniano, nonostante i rigurgiti antisemiti e le tentazioni negazioniste dell’attuale regime di Teheran.
Perché non è stato sempre così. Anzi.
Chi sono i “Bambini di Teheran”? Cerchiamo di andare con ordine.
Nel Settembre 1939, Hitler e Stalin, forti dell’intesa precedentemente raggiunta nel mese di agosto con il Patto Ribbentrop-Molotov, si avventarono sulla Polonia, smembrandola. Completata l’occupazione e la spartizione della Polonia, l’Unione Sovietica, che, come è noto, si era annessa la parte orientale del paese, disarmò l’esercito polacco ivi presente (formato da circa 250.000 uomini). All’inizio del 1940 le autorità sovietiche iniziarono la deportazione in massa di centinaia di migliaia di cittadini polacchi, fra cui molti ebrei, verso i gulag in Siberia. Dopo parecchie settimane di viaggio in condizioni disumane in carri bestiame i deportati cominciarono la loro nuova vita, in condizioni difficilissime. Il tasso di mortalità era altissimo, molti bambini morirono o diventarono orfani.
Il 22 giugno 1941, la Germania nazista attaccò l’Unione Sovietica nonostante il reciproco patto di non aggressione, e fu allora che cominciò una nuova avventura per i profughi polacchi, cristiani ed ebrei . In seguito ad un amnistia generale i profughi furono dichiarati liberi e cominciarono a spostarsi in massa verso le repubbliche dell’ Asia Centrale, Uzbekistan, Tagjikistan, Kirgisistan, Kazakistan, e Turkmenistan. Secondo i documenti degli archivi moscoviti, nell’estate del 1941, da tutti i campi di concentramento dell’Unione Sovietica (tra cui Vorkuta, Kolyma e Novosibirsk) defluirono in direzione della Persia decine di migliaia di polacchi fino a pochi giorni prima utilizzati nei campi, nelle foreste e nelle miniere. Una moltitudine di derelitti, affamati e malati vestiti di stracci , invase le città di Tashkent, Samarcanda ed altre. Molti bambini avevano perso i genitori e molti morirono di fame e malattie durante i soggiorni nei campi e i trasferimenti forzati.
Nello stesso tempo il Generale Wladyslaw Anders già prigioniero a Mosca, venne liberato dai sovietici e poté fondare l’esercito Polacco in Esilio. Verso la fine del 1941, Sikorski, il primo ministro polacco in esilio, riuscì a convincere Stalin ad inviare circa 25.000 soldati polacchi dell’esercito di Anders in Iran per riarmarsi e per portare rinforzi all’armata britannica nel Medio Oriente. L’Iran durante la seconda guerra mondiale era neutrale ma, per una serie motivi, il 25 agosto 1941 era stato invaso dagli inglesi e dai sovietici. Partirono 33.000 soldati e con loro 11,000 profughi civili, compresi 3.000 bambini, di cui circa 1,000 erano orfani ebrei..
Anche se le cifre sono molto discordi a prova di questo massiccio e sconosciuto esodo non sono rimasti soltanto i documenti, tenuti accuratamente nascosti dalle autorità di Mosca per diversi decenni, ma addirittura una dozzina di testimoni ancora in vita e residenti alla periferia di Teheran e molti di quelli poi soprannominati “Bambini di Teheran” che furono trasferiti in Palestina e che ancora vivono in Israele.
I circa 3000 “Bambini Di Teheran”, di cui un migliaio erano ebrei, partirono in treno da Samarcanda per Krasnovodosk e poi, attraverso il mar Caspio e sempre in condizioni terribili, raggiunsero Pahlevi, un porto iraniano sulla costa orientale del Caspio. Da qui furono infine portati a Teheran.
I bambini ebrei giunti a Teheran avevano dovuto tenere nascosta la loro appartenenza. Molti avevano perso i genitori , altri erano stati fatti scappare dalla Polonia di nascosto dai loro genitori e affidati ancora in patria ad orfanotrofi o altre istituzioni religiose. Quando arrivarono in Iran, i bambini ebrei furono assistiti dalla comunità ebraica locale che apprese, proprio da loro, ciò che Hitler stava facendo. Storicamente, gli iraniani furono quindi tra i primi a venire a conoscenza della Shoah. Anche lì però le condizioni di vita erano molto dure e i bambini dovettero sopportare ancora tante privazioni. Finalmente nel gennaio 1943, dopo aver ottenuto i permessi dalle autorità britanniche, i piccoli profughi poterono raggiungere Karachi per mare. Da lì proseguirono per Suez e il 18 febbraio 1943 raggiunsero la Palestina in treno. Finiva così per loro una odissea iniziata quattro anni prima e lunga tredicimila chilometri.
Il poeta israeliano Natan N. Alterman, ha scritto una poesia sui bambini di Teheran "che anche dopo che saranno diventati vecchi rimarranno sempre “I bambini di Teheran”... “Sì, la guerra degli anziani di Teheran, dieci anni, e la guerra degli anziani di Kazakistan, sei anni, tutti gli anziani delle battaglie fra la Siberia e la Polesia, i piccoli anziani perseguitati dal fuoco...”
Infine a proposito di Teheran e dell’Iran vorrei ricordare che la comunità ebraica iraniana è vecchia di duemilacinquecento anni. Fu proprio in virtù di ciò che il governo iraniano del tempo riuscì a convincere i nazisti che gli ebrei locali erano cittadini iraniani a tutti gli effetti. Non solo, il governo iraniano non chiese mai ad Israele nulla in cambio per aver salvato la loro vita.
Un altro edificante episodio è raccontato nelle sue memorie, scritte in persiano, da Moir Ezry, già responsabile per il trasferimento dei profughi ebrei in Iran, poi ambasciatore israeliano a Teheran, . Racconda di un giovane funzionario dell’ambasciata iraniana a Parigi, di fede musulmana, Abdol Hossein Sardari che durante la guerra salvò centinaia di ebrei europei dando loro il passaporto iraniano. Tornato in Iran, Sardari fece 30 giorni di carcere per aver distribuito passaporti a chi, sulla carta, non ne avrebbe avuto diritto. Ma fu presto scarcerato dallo scià, che gli fece complimenti per avere salvato tante vite. Abdol Hossein Sardari è morto nel 1981.
Per saperne di più:
Henryk Grynberg, Children of Zion (Northwestern University Press, 1998). Il libro si basa sulle73 testimonianze - "Protocolli" – dei bambini subito dopo il loro arrivo in Palestina.
Dorit Bader Whiteman, Escape via Siberia, A Jewish Child's Odyssey of Survival (Holmes and Meier, 1999). La storia di Lonek, un bambino di Teheran, sopravvissuto alla fuga dalla Polonia, ai campi di lavoro in Siberia, al viaggio prima verso Tashkent e Teheran e infine verso Israele. Un’odissea lunga quattro anni e tredicimila chilometri.
“Teheran Children” è anche il soggetto di un documentario televisivo attualmente in lavorazione in Israele diretto da Yehuda Kaveh ("Avidanium 2005," "Letters from Lebanon"). Il film riporta le interviste a ex -Bambini di Teheran che hanno ormai superato la mezz’età per sapere come hanno affrontato e vissuto i loro ricordi o mancanza di ricordi della loro rocambolesca avventura.

(*) Cristina Cattaneo

venerdì 26 luglio 2019

Racconti semiseri di Alberto Rosselli: 'L'ornitologo poeta'.





Racconti semiseri

 

L‘ornitologo poeta

 

di Alberto Rosselli


Essendo stato incaricato dal mio giornale di indagare su un’imminente invasione della nostra città da parte di un grosso stormo di pappagalli, decisi per prima cosa di documentarmi sulle caratteristiche e sulle abitudini di questi noti pennuti.
Varcai la soglia dell’Istituto di Ornitologia dell’Università in un gelido pomeriggio d’inverno. Fu quindi con grande piacere che mi inoltrai in quei corridoi che odoravano di cacciagione e di formaldeide, arredati da lunghe disposizioni di vetrine contenenti uova e uccelli imbalsamati. Le sale adiacenti erano quasi tutte vuote e solo in fondo al corridoio principale vidi una luce filtrare da una porta socchiusa. Era la biblioteca.
Entrai. La grande sala era quasi vuota e solo un paio di giovani studenti occupavano con libri e cappotti i banchi centrali. Alzarono entrambi la testa e mi guardarono: erano ventenni o poco più, ma sembravano già vecchi. Uno dei due aveva una folta barba nera, l’altro, portava i capelli lunghi sulle spalle. Il suo volto era cosparso di brufoli, molti dei quali trafitti da radi peli. Tutti e due indossavano anonime giacche di lana e camicie dai colori tenui, senza cravatta, abbottonate fino al gozzo come i carcerati.
Mi diressi verso lo stanzino del bibliotecario, un buco dal quale proveniva un forte odore di muffa e di detersivo per pavimenti. Un piccolo uomo di mezza età, in divisa grigia, mi bloccò sull’uscio.
“Desidera?”
“Vorrei consultare un testo sui pappagalli” dissi.
“Ce ne sono almeno trenta. Quali razze deve esaminare?”
“Mah! Non saprei... Mi serve un buon libro sui pappagalli in generale” risposi un po’ troppo vagamente.
“Lei non è uno studente, vero?” mi interrogò con aria sospetta il piccolo bibliotecario.
“No. Vorrei solo saperne qualcosa di più sui pappagalli”.
“Beh, un buon testo è quello del Tesei. Mi segua. Compili una di quelle schede che sono sulla cattedra. Io intanto le cerco il libro”.
Riempii un modulo e mi sedetti ad un banco. I due studenti avevano il capo sui loro appunti. Uno, quello con i capelli lunghi, si stava nettando una narice con una matita, mentre l’altro sottolineava con un righello delle fotocopie.
“Ecco a lei il testo del Tesei.” rimò il bibliotecario nel porgermi un poderoso volume.
“Grazie”.
“Guardi che chiudiamo fra un’ora, alle diciassette”, mi comunicò allontanandosi.
Aprendo quel grosso testo, piuttosto vecchio e, a giudicare dalle pagine, non molto consultato, non potevo ancora immaginare quale sorprendente scoperta ero destinato a compiere quel giorno.
Essendo a quel tempo ancora giovane, privo di fede, e quindi animato ancora dalla puerile ambizione di voler tutto spiegare a me stesso, amavo dibattermi per risolvere con la ragione svariati enigmi, compresi quelli di natura geografico-ambientale.
“Perché - mi domandavo - non è possibile per l’uomo godere simultaneamente delle bellezze naturali che il buon Dio ha creato? Perché ad un individuo è preclusa l’opportunità di piantare nel proprio giardino un bambù a fianco di un ginepro, o di allevare una foca ed un cammello nel medesimo habitat, cioè in un ambiente favorevole per entrambe queste creature che, come si sa, abbisognano di climi tanto differenti?
Pur rendendomi perfettamente conto della apparente insensatezza, la lettura del testo del Tesei mi diede però la conferma che, talvolta, anche la più strampalata intuizione mentale talvolta porta con sé il germe della verità.
Si trattava infatti di uno scritto a dire poco illuminante, nel quale potei individuare l’elaborazione esatta e completa d’una mia modesta intuizione. Dimostrazione lampante di quanto la scienza, se giustamente indirizzata, possa tramutarsi non solo in conoscenza ma in sommo inno alla libertà dell’uomo.

Ho sempre creduto nell’esistenza di una terra situata a mezza strada tra le giungle equatoriali e le conifere scandinave. Ho sempre creduto all’esistenza di una regione in cui potessero convivere ed intrecciarsi armoniosamente le peculiarità morfologiche, vegetali ed animali di aree tanto distanti fra loro. Ho sempre immaginato un posto sovrastato da un cielo e da un’atmosfera tanto giusta e perfetta da soddisfare le esigenze di ecosistemi dissimili: il punto geografico e geo cosmico ideale alla crescita e sviluppo di un uomo nuovo, universale, capace di convivere simultaneamente con gli estremi della natura e in totale armonia con essi.
Fino dalla più tenera età, ho progettato villaggi, elaborato leggi e ipotizzato sistemi socioeconomici adatti alla creazione di un insediamento umano ideale ubicato a mezza via tra l’Ovest e l’Est, il Nord e il Sud, l’orizzontale e il verticale: un insediamento che potesse poggiare le sue fondamenta sul punto d’origine di un sistema di assi cartesiane, atto a rappresentare graficamente una funzione a molteplici variabili indipendenti, operazione per la quale, come è noto, occorre uno spazio a più dimensioni.
Affannose e sterili sono risultate le consultazioni degli antichi testi. Puerile è stata la mia insistenza, giacché da Erodoto in poi, il geografo, il cartografo e l’astronomo si sono sempre impegnati nel conferire latitudine, longitudine e punti di riferimento stellari a ciò che è noto, tralasciando invece ciò che è ignoto.
Sull’ipotesi di dare forma ad un progetto di cooperazione scientifica internazionale per la messa a punto di un nuovo e completo atlante dell’ignoto mi sono sufficientemente dilungato nel corso della mia ultima conferenza di Lucerna sul tema: “Topografia aerea e Cosmologia dell’Immaginazione”.
Quel che invece mi preme affermare in questa sede, considerazioni accademiche a parte, è l’urgenza di un titanico e coordinato sforzo collettivo per individuare, nel più breve tempo possibile, oltre la linea dei comuni orizzonti ormai noti, una teoria non necessariamente uguale, ma almeno simile a quella che da diversi anni tormenta e galvanizza la mia mente.
Chiedo, quindi, a scienziati e poeti di seguirmi in quella che i posteri potranno ricordare con orgoglio come una delle più significative conquiste del genere umano.
Non avevo che sette anni quando, sfruttando l’esperienza di una gita familiare sul Monte Bignone (modesta ma interessante cima delle Alpi Marittime), guardando il profilo seghettato di un’alta catena, mi accorsi dell’incompletezza e della sostanziale banalità di un siffatto panorama.
Oddio, rimasi ben impressionato dalla disposizione esteticamente gradevole di alcuni contrafforti e dall’imponenza di quelle lontane vette, ma non potei fare a meno di constatare l’estrema ripetitività di taluni elementi appartenenti alla fauna, alla flora e al mondo minerale.
Soggetti alla ferrea legge della latitudine e quindi del clima, i fiori, le piante e gli animali (compresi gli uccelli, tengo a precisare, in quanto oggetto di miei specifici studi) non possono incrociare le proprie virtù, se non in un certo habitat. Fino ad oggi, infatti, l’incompatibilità di climi e latitudini ha impedito all’uomo e a tutti gli altri esseri di godere simultaneamente delle svariate opportunità che il Creato ci offre. Quale terribile punizione Dio inflisse a Adamo ed Eva cacciandoli dal Paradiso Terrestre, dall’unico luogo nel quale l’essere umano poté gioire liberamente alla vista di una sensuale mangrovia senegalese intenta a cingere con i suoi sinuosi e umidi rami il manto profumato e liscio di un serio abete valdostano.
Sulla scorta di quella mia prima esperienza, la mia attenzione, non disgiunta da un certo rigore morale, mi spinse nell’unica direzione percorribile. Non potendo rimanere indifferente al cospetto delle gravi sofferenze e menomazioni inflitte al genere umano e alle specie animali e vegetali dalla differenziazione latitudinale, lanciai dunque la mia sfida.
Dopo essermi dimesso dall’Università, decisi di intraprendere la rotta dell’ignoto, buttando a mare le comode ma ingombranti zavorre dei pregiudizi.
A che serve soffermarsi su ciò che già sappiamo e farcene un vanto quando l’Oceano misterioso ed increspato dagli innumerevoli prodigi che vi si celano sotto si spalanca davanti allo sguardo innocente, ma acuto di un giovane studioso alla ricerca della Verità? A che serve industriarsi nella progettazione e nella confezione di perfezionati impianti di riscaldamento e refrigerazione atti ad abbattere le diseguaglianze climatiche, quando il sole e la luna continuano da millenni a svolgere le loro immutabili mansioni sia sulla perpendicolare di Oslo che su quella di Orano?
Oltre le lontane vette scrutate da un bimbo ancora incontaminato da un sapere ben lungi dall’essere esatto, mi domando e vi chiedo: è possibile l’esistenza di un luogo di rinnovata speranza? E ancora. Sufficientemente forte e preparato si dimostrerebbe il nuovo Ulisse alla vista di una nuova realtà fatta di palmizi innevati, leoni bianchi, orsi sahariani, scimmie bavaresi, mucche polari ed altre magnifiche stranezze?
Odo il microscopico tarlo del dubbio rodere le vostre menti. Sento vacillare in voi ogni volontà immortale, miei cari colleghi. Temete di dover affrontare la realtà rappresentata da ciò che in un tempo biblico fu e che potrebbe all’improvviso di nuovo rivelarsi in qualche quadrante perduto, poiché volutamente dimenticato da una fragile memoria collettiva dilaniata dai sensi di colpa?
Vi difendete forse giudicando pindariche e addirittura malsane le mie ipotesi e gli interrogativi che sono solito pormi dall’alto del mio osservatorio?
Seduto come sono su questo remoto sperone di roccia dominante dirupi coraggiosi, vallate erotiche, sedentarie colline e dormienti pianure, punto il mio sguardo a trecentosessanta gradi per ritrovare un qualcosa da noi tutti smarrito. Dall’alto di questa fredda e ventilata postazione, comprendo ora l’esatto significato della missione di Pitea, il greco di Marsiglia, alla ricerca dell’ultima Thule.
Solo, circondato da spazi azzurri, sordo al richiamo del senso comune, vivo l’estrema mia ultima ricerca. E scrutando l’infinità del nulla talvolta mi pare davvero di intravedere il profilo d’una terra senza tempo e gradi”.

Provai un tuffo al cuore, chiusi il libro, andai alla finestra e mi misi a guardare il cielo.

La resistenza dei 'basmachi islamici' al potere comunista sovietico. Di Alberto Rosselli.

Guerriero basmaco (anni Venti).



La resistenza dei 'basmachi islamici' al potere comunista sovietico.

di Alberto Rosselli

Contrariamente a quanto sostenuto dalla pubblicistica marxista, i moti rivoluzionari bolscevichi del 1917 non suscitarono mai un completo fascino sui popoli mussulmani dell’Asia centrale facenti parte del vecchio impero zarista. D’altra parte, già molti anni prima dello scoppio della Rivoluzione d’Ottobre, i rapporti tra le varie etnie asiatico-mussulmane e il governo di San Pietroburgo si erano contraddistinti per un’accesa conflittualità riconducibile in buona misura alla non accettazione da parte di queste molteplici ‘minoranze’ del dominio politico-culturale slavo. Per essere più chiari, turkmeni, kazaki, uzbeki, kirghisi e tagiki consideravano i russi - che verso la metà del XIX secolo, dopo lunghe campagne, erano riusciti ad occupare e colonizzare queste vaste regioni - alla stregua di veri e propri invasori, apportatori, tra l’altro, di costumi e di metodi di governo lontani anni luce dalla realtà di gran parte delle comunità centroasiatiche.
Dopo la caduta dello zar Nicola II ed in seguito ai moti rivoluzionari bolscevichi, Lenin si affrettò a dichiarare che il nuovo regime marxista si sarebbe fatto garante della “libertà ed autonomia” dei popoli mussulmani facenti parte della nuova variegata entità politica, rinunciando a qualsiasi pretesa egemonica. Promessa che spinse, almeno in un primo momento, i mullah e gran parte della popolazione a schierarsi a fianco delle forze ‘rosse’ a quel tempo in lotta contro gli eserciti controrivoluzionari ‘bianchi’. Pur prendendo per buona la parola di Lenin, nel 1917 i rappresentanti kazaki insistettero, però, per un’immediata proclamazione della Repubblica Autonoma Kazaka, destando le preoccupazioni del leader bolscevico in realtà per nulla intenzionato a concedere la completa libertà ai popoli asiatici. Ciononostante, dalla fine del 1918 a quasi tutto il 1919, le promesse di Lenin favorirono in Asia Centrale la nascita di alcune istituzioni governative mussulmane sostanzialmente filobolsceviche, come ad esempio il Comitato del Governo Provvisorio e il Soviet dei Deputati dei Lavoratori e Contadini di Taskent (Uzbekistan). Quando, però, il 22 dicembre, a Kokand - i leader locali si apprestarono a fondare un primo Governo Provvisorio Musulmano del Turkestan Autonomo conforme alla legge islamica, auspicando nel contempo la reintroduzione del libero commercio e del diritto a possedere appezzamenti terrieri, pascoli e armenti, Lenin impose a tutte le neonate autorità locali kazake, uzbeke, turkmene e tagike di attenersi alle disposizioni rivoluzionarie in materia sociale ed economica e di accettare di esercitare il potere in seno ad esecutivi (soviet) misti russo-asiatici, ma di fatto controllati da Mosca. Proposta, questa, che venne respinta da molti mullah decisi a proseguire nella costituzione di stati islamici federati ma sostanzialmente indipendenti. Obiettivo che essi avrebbero conseguito con tutti i mezzi: proclamando, se necessario, la guerra santa contro i bolscevichi e chiedendo aiuto alle armate ‘bianche’ e alla Gran Bretagna, i cui agenti, nel frattempo, erano giunti dalla Persia per fiancheggiare le forze controrivoluzionarie. Temendo il peggio, Lenin inviò in Turkestan un forte contingente dell’Armata Rossa agli ordini del generale Mikhail Frunze che, approfittando della sostanziale disorganizzazione delle bande armate mussulmane, conquistò rapidamente la grande oasi di Khiva e molti altri centri, eliminando centinaia di capi islamici e ripristinando il potere bolscevico attraverso i soviet. Dopodiché le autorità comuniste avviarono la collettivizzazione di tutte le proprietà, costringendo circa 900.000 tra agricoltori e pastori ad abbandonare le loro tradizionali attività. Fino a quando, nell’aprile del 1919, uno dei leader della milizia mussulmana di Kokand, tale Irgash, organizzò segretamente un grande piano di rivolta. Nonostante le antiche rivalità che dividevano le tribù mussulmane asiatiche, Irgash riuscì a trovare un’intesa di massima con buona parte dei mullah, dando vita al cosiddetto Movimento Indipendentista Basmaco che, verso la fine del ’19, scatenò un’insurrezione armata destinata a durare quasi 15 anni.
Per parare il colpo, Lenin diede disposizioni affinché l’apparato propagandistico bolscevico si mettesse in moto ancor prima dell’Armata Rossa, attraverso una massiccia campagna tesa a discreditare e di minimizzare la portata della Rivolta Basmaca. Il Movimento dei Basmachi – nel quale, nel frattempo, erano confluiti molti volontari islamici provenienti dalla Persia, dall’Afghanistan e dalla Turchia e perfino elementi delle locali comunità russe cristiano-ortodosse, menscevichi, monarchici, socialisti e anarchici perseguitati dai ‘rossi’ - venne dipinto alla stregua di un esercito di malfattori sanguinari e reazionari (basmaco, o bäsmä´chē, significa in lingua uzbeka più o meno brigante) dediti a rapinare i pacifici dehkan (contadini) filo-comunisti delle repubbliche asiatiche. Ciononostante, agli inizi del 1920, il Movimento prese ad ingrossare le sue file, accogliendo anche ex-prigionieri cechi, ungheresi e polacchi fuggiti - in seguito al crollo zarista - dai campi di concentramento russi e, addirittura, alcune centinaia di volontari cinesi mussulmani del Sinkiang. Il Movimento Basmaco si rivelò, quindi, un fenomeno per nulla monocorde, ma al contrario politicamente trasversale, multilingue, multietnico e multireligioso.
Nonostante il pesante intervento da parte dell’Armata Rossa del generale Frunze, il mobile, anche se indisciplinato, esercito basmaco, composto da circa 30.000 guerriglieri a cavallo, riuscì a controbattere con successo le prime offensive bolsceviche, mantenendo il controllo della regione del Fergana occidentale e del Bukhara Orientale: area corrispondente grosso modo all’odierno Tagikistan. Ma nell’autunno del 1920, eliminate in Crimea le ultime sacche di resistenza ‘bianca’ del generale Pyotr Nikolayevich Wrangel, Mosca poté stornare in Asia Centrale un quantitativo di truppe ancora maggiore, costringendo le formazioni ribelli ad abbandonare i centri abitati e le pianure e a rifugiarsi nelle zone montagnose del Tagikistan. Nelle regioni riconquistate, le autorità del Cremlino concessero alle popolazioni locali – almeno fino a tutto il 1920 - una moderata autonomia, assicurando un minimo afflusso di coloni slavi: promesse che, tuttavia, sul finire del 1920, Lenin si rimangiò.
Tale era la situazione in Asia Centrale quando apparve sulla scena Enver Pascià (1881 -1922), un uomo proveniente da lontano che, per qualche tempo, sarebbe stato capace di ridare speranza alle popolazioni mussulmane. Ex-leader del Partito dei Giovani Turchi, nel novembre del 1918, dopo la resa dell’Impero Ottomano, Enver era stato costretto a fuggire a Berlino per scampare alla condanna a morte inflittagli da una corte di Costantinopoli quale corresponsabile della disastrosa guerra combattuta a fianco degli Imperi Centrali. Alla fine del 1919, Enver preferì tuttavia trasferirsi a Mosca, dietro invito di Lenin, che gli promise di aiutarlo a tornare in patria e a riprendere il potere a condizione che si impegnasse  ad appoggiarlo nella difficile opera di “pacificazione” delle regioni centro-asiatiche. Pur detestando sia il bolscevismo ateo sia la Russia, tradizionale avversario della Turchia, Enver fece finta di accettare di buon grado la proposta. E nel 1921, Lenin lo inviò in Uzbekistan, a Bukhara, per cercare di trovare un primo accordo con i locali mullah. Ma fu proprio qui che Enver riuscì a contattare segretamente alcuni esponenti del Movimento Basmaco ai quali offrì un’intesa del tutto diversa, cioè la creazione di una federazione autonoma di stati mussulmani facenti riferimento ad un governo centrale turkmeno a forte componente etnica turca. Enver voleva infatti rilanciare l’idea di un movimento ‘panturanista’ che, utilizzando il collante islamico, avrebbe consentito la creazione di un vasto stato comprendente non soltanto le regioni cento-asiatiche, ma anche quelle caucasiche e la penisola anatolica. Non senza difficoltà, egli riuscì nel suo intento, grazie soprattutto al suo forte carisma e alla sua eloquenza, ma poco tempo dopo la polizia bolscevica scoprì le sue manovre sotterranee, costringendolo a fuggire. Raggiunte le regioni orientali uzbeke, Enver prese in breve tempo le redini della rivolta basmaca, ottenendo dai mullah la nomina di “rappresentante in terra del profeta Maometto” e comandante in campo delle forze basmache facenti riferimento all’ideale panturanico.
Il 14 febbraio 1922, Enver, alla testa di poche centinaia di cavalleggeri si lanciò alla conquista della città di Dushanbe (l’attuale capitale del Tagikistan), riuscendo ad occuparla e inducendo in tal modo i mullah a proclamare la ‘guerra santa’ contro i bolscevichi. Tra il febbraio e il maggio del ‘22, il condottiero ‘panturanista’ riuscì ad ingrossare le file della sua armata che arrivò a contare circa 50.000 uomini e con tale forza, nella tarda primavera del ’22, pose sotto il suo controllo la maggior parte della regione di Bukhara. Preoccupati per un possibile dilagare della rivolta ad altre regioni, i generali bolscevichi offrirono ad Enver una tregua che questi rigettò. Lenin ordinò allora l’invio in Asia Centrale di un imponente corpo di spedizione, agli ordini del generale Nikolai Kakurin: armata rinforzata da reparti di artiglieria e aviazione dotati di micidiali proiettili e ordigni all’iprite e al fosgene. Nel giugno 1922, Enver subì una pesante sconfitta che indusse poche settimane più tardi molti capi mussulmani ad abbandonare il loro capo che, nel frattempo, assieme a poche centinaia di fedeli, era stato costretto a passare nel Tagikistan orientale e a dirigersi verso l’Afghanistan. La speranza di Enver era quella di trovare ospitalità in questo paese sul quale regnava il sovrano Amanullah che, in precedenza, aveva fornito ai basmachi armi e volontari. Ma Amanullah, che non voleva inimicarsi troppo Mosca, respinse la richiesta di asilo di Enver che, il 4 agosto 1922, assieme ad appena 50 fedelissimi, si era accampato tra i villaggi di Obidaryo ed Ab-i Dara,  nei pressi della frontiera tagiko-afghana. Circondato dai reparti a cavallo bolscevichi del colonnello Kulikov, Enver rifiutò di arrendersi e in sella al suo destriero grigio Dervish si lanciò contro il nemico che lo fulminò con una scarica di fucileria. Kulikov fece denudare il cadavere di Enver che venne gettato in un’anonima fossa. Poi il reparto bolscevico abbandonò la zona. Dopo alcuni giorni di ricerche, il mullah di Obidaryo riuscì però a trovare e riesumare il cadavere del leader turco che, nel corso di una solenne cerimonia, fu seppellito sotto un albero di noci, nei pressi dell’abitato di Obidaryo. In seguito alla morte di Enver, Lenin si impegnò a porre fine alla persecuzione antimussulmana in Tagikistan e nelle altre regioni limitrofe, convincendo buona parte dei guerriglieri basmachi fuggiti in Afghanistan e nel Sinkiang a rientrare alle loro terre. Ma la pace durò poco. Nel dicembre del 1927, Stalin riprese improvvisamente le persecuzioni contro i mussulmani delle Repubbliche asiatiche e, tra il 1928 e il 1933, dopo avere eliminato fisicamente 10.000 capitribù, abolì il nomadismo, costringendo decine di migliaia di pastori ed allevatori (circa il 67% dell’intera popolazione delle Repubbliche asiatiche) a lavorare in comuni agricole gestite da funzionari russi. Per allontanare definitivamente il pericolo di un ritorno al nomadismo, Stalin fece abbattere qualcosa come 350.000 cavalli e decine di migliaia di cammelli: iniziativa che mise in ginocchio l’economia locale, spingendo molti tagiki, kirghisi e kazaki a fuggire oltre il confine cinese, nella regione del Tarim.
Nonostante la repressione, nella prima metà degli anni Trenta, in Uzbekistan, alcune sopravvissute bande basmache continuarono a dare battaglia ai ‘rossi’, effettuando ancora 160 tra attacchi ed attentati contro colonne militari e caserme russe. Durante la Seconda Guerra Mondiale, il Movimento Basmaco sembrò ad un tratto risorgere dalle ceneri. Tra il 1939 e il 1944, circa 90 bande, per un totale di 2.000-2.500 combattenti, seguitarono a molestare le più isolate guarnigioni sovietiche del Tagikistan, venendo però completamente annientate dall’Armata Rossa tra il 1945 e il 1947.

BLIBLIOGRAFIA:

Hopkirk Peter, Il grande gioco. I servizi segreti in Asia centrale, Edizioni Adelphi, 2004
Becker, Seymour. Russia's Protectorates in Central Asia Bukhara and Khiva, 1865-1924. Harvard University Press , Cambridge 1968
Wheeler, Geoffrey. The Modern History of Soviet Central Asia, Weidenfelf and Nicolson, London 1964
Brinton, William M.. An Abridged History of Central Asia. Disponibile in Internet su: http://www.asian-history.com/the_frame.html, 1998
Jawad, Nassim and Tadjbakhsh, Shahrbanou. Tajikistan: A Forgotten Civil War. Minority Rights Group, 1995
Khaidarov and Inomov. Tajikistan: Tragedy and Anguish of the Nation., Tajikistan, 1993
Mustafa Chokay, The Basmachi Movement in Turkestan, ‘The Asiatic Review’, Vol. XXIV 1928

sabato 20 luglio 2019

Racconti semiseri di Alberto Rosselli. 'Il monaco Tobor: ovvero come combattere l'accidia 'culonica' e finire la propria vita da martire".




I racconti semiseri di Alberto Rosselli.


Il monaco Tobor


Non si cela forse tra le pieghe di un grosso e tiepido fondoschiena l’ultima traccia d’una prodigiosa intuizione e di un eroico pensiero di lotta perduti? Non lievita forse in un deretano, pingue di noia e di volontà inespressa, il vero e chiaro sintomo dell’arrendevolezza umana, come sostenne un tempo ormai lontano il monaco Tobor, profeta fiammeggiante d’una teoria brillante ma per lui sventurata e tale da rivoltargli contro l’odio dei suoi simili?
Correva l’anno 1490, quando dalle piazze di Firenze s’alzò alto ed acuto un nuovo verbo di speranza.
Allora io vi dico, amati fratelli miei, che lo più mortale peccato sta nel far lievitare l’accidia al fondo de la schiena. Poiché la volontà, lo giusto ardimento ed ogni lecita passione germogliare debbono fora dalle membra umane e giammai depositarsi fra le basse carni, per la sola incapacità di realizzare ogni più nobile desìo. Diffidate, dunque, de li culi d’homini abbondanti e tiepidi che si scarrocciano, boriosi e supponenti, per gli antri del Potere e del Saper dotto. Essi, infatti, tra le loro pieghe celano incapacità d’agire e di pensare con coraggio, mollezza d’animo e malcelata inclinazione ad accettare sconfitte e a soggiacere passivi al vento della vita”.
Si trattava, come è facile intendere, di una vera e propria predica del demonio, che pioveva sulle masse disorientate e che turbava nobili e notabili di tonde ed agiate dimensioni. Queste parole, taglienti come lame, uscivano dalla sottile bocca di un uomo in verità onesto e pio, vestito dell’umile saio di frate pannone.
Durante la sua vita, Tobor aveva studiato e viaggiato molto, prendendo accuratamente nota di tutti gli innumerevoli vizi che affliggono i discendenti di Adamo. Aveva anche peccato, come d’altra parte ogni saggio o santo deve ben fare per meglio comprendere le debolezze dell’umana specie. Cresciuto nelle brumose lande magiare, Tobor aveva sempre desiderato, fin da novizio, di ridare la speranza ad ogni mortale animato da volontà e coraggio sinceri. Egli temeva Dio, ma non certo quegli uomini che, all’ombra di Dio, in virtù di fragili poteri o per codarda scelta, imponevano o subivano ogni sorta di pessimi costumi.
Tobor predicava ovunque, a dorso di mulo o dall’alto di pulpiti improvvisati. E le sue parole, chiare e sincere, avevano l’effetto di scudisciate. “Sia lapidato lo culone impaludato, sia esso villico, mercante o principe. Non fidatevi de li grossi e flaccidi sederi che vi impongono d’imitar lor stessi. Essi vi ingannano, per trasformavi in pecore atte solo al macello e non al giusto pascolo!”.
Ce n’era abbastanza per farsi impalare dai seguaci d’ogni fede.
Smascherate lo gran viso, posteriore e basso, de l’homo sanza ardore, e misurate in nodi lo suo sedentario vizio”, gridava Tobor slacciandosi la corda della tunica marrone e rincorrendo taluni passanti che egli afferrava e rivoltava come sacchi scoprendo e strizzando loro le terga con la cinta segmentata di nodi, onde valutare se queste ultime appartenessero o meno alla categoria ch’egli aborriva.
A poche settimane dalla sua prima apparizione a Firenze, il misterioso monaco venuto dall’Est era già diventato un pericoloso mito, temuto delle autorità civili ed ecclesiastiche locali. Tobor aveva iniziato, infatti, a fare proseliti e le sue prediche erano seguite da masse sempre più vaste ed assetate di nuova verità.
Invitato ad esporre le sue teorie in una disputa al cospetto del principe e del vescovo, il monaco Tobor non si sottrasse al periglioso dibattito.
Dopo ore ed ore di serrato e lucido monologo, ricco di dotte citazioni e di precisi riferimenti scientifici e filosofici, le teorie di Tobor vennero confutate dalle violente argomentazioni della commissione che, intravedendo in quel monaco ruggente una reale insidia al Potere, lo esortarono senza mezzi termini a rivedere le sue idee e soprattutto ad interrompere immediatamente le sue prediche in pubblico, minacciandolo di pena di morte.
Tobor cercò di difendersi strenuamente, assicurando circa le sue buone intenzioni. Sulle prime si rifiutò di abiurare, ma alla fine, Frà Gelasio Minniti, il superiore dell’Ordine al quale apparteneva Tobor - uomo che in cuor suo stimava il coraggioso monaco - riuscì a convincerlo ad accettare un solitario ma temporaneo esilio in Oriente, affinché questi potesse redimersi e mettere a frutto tutto il suo innegabile ingegno per una più giusta causa.
Va tra gli infedeli a predicare semplicemente fede e virtù, e dimentica le tue assurde e superbe teorie”, gli raccomandò l’alto prelato. E Tobor, dando prova di umiltà, si inchinò al suo superiore abbandonando Firenze; non prima però di aver abbracciato i suoi fedeli. “Li tempi, forse, non sono ancora maturi per lo nostro predicare. Obbedite alli Comandamenti e attendete fiduciosi il mio ritorno” si raccomandò ad essi in un breve ma commovente discorso di commiato.

Da quel momento, la vita e il destino del monaco pannone si fusero in una miriade di strane leggende e frammentarie cronache.
Giunto, dopo un lungo viaggio via mare e a dorso di quadrupede, a Tabriz, in Persia, il monaco Tobor, assolse per qualche tempo e con zelo gli incarichi affidatigli, utilizzando però parte del suo tempo per sviluppare ulteriormente e in modo sistematico la teoria circa la possibilità di decifrare, attraverso le forme del deretano, l’armonia o disarmonia dell’anima.
In un suo scritto segreto, egli espose il concetto di “epifania dell’anima incorporea nella materialità del deretano”, enunciando una grammatica utile alla “lettura” dello stesso, servendosi di apposite tavole anatomiche disegnate con scrupolo scientifico.
Il deretano venne suddiviso da Tobor secondo una mappa le cui direttrici andavano ad indicare sia i “vizi capitali” che le “virtù cardinali”. In questo modo, una attaccatura ben alta del gluteo verso la regione lombare stava ad indicare la forza interiore, mentre l’incavo, che forma il gluteo sul lato esterno del deretano, segnalava un adesione concreta alla realtà. La mappa consentiva in questo modo di evidenziare e diagnosticare gravi difetti dell’animo umano attraverso la disposizione dell’adiposità. Il grasso accumulato poteva infatti ragguagliare circa i più torbidi nascosti vizi “de lo peccatore”. Un accumulo verso l’esterno della natica ne manifestava la superbia, mentre se il lardo tendeva a cascare verso il basso lo studioso poteva dirsi certo di trovarsi di fronte ad una spiccata tendenza alla viltà del soggetto analizzato.
Il monaco pannone non si limitò, tuttavia, a stilare semplici, anche se precisi, appunti sui suoi studi, ma buttò giù un vero e proprio trattato sull’argomento: opera che si diffuse rapidamente giungendo per vie traverse perfino in Occidente dove produsse un vero e proprio sconquasso. Soprattutto perché lo scritto correva sul filo d’una logica ferrea e brillante, riflessa dalla tempra lucida e pura del religioso. I riferimenti scientifici in esso contenuti apparivano infatti inconfutabili perfino ai più scettici. Senza considerare che un numero troppo elevato di potenti si riconoscevano, loro malgrado, nelle tipologie viziose descritte dal monaco. Le femmine poi, nell’ombra discreta dei confessionali, iniziarono a giustificare con motivazioni etiche l’interesse estetico da esse sempre nascosto per le solide ed alte natiche del maschio.
Si cercò allora di correre ai ripari e a Pavia un selezionato Consiglio di Dottori, formato da ecclesiastici, sviscerò nel volgere di un mese tutta la materia dello scandaloso studio, elaborando anche un documento di confutazione dell’opera, privo però di reale efficacia. Il nocciolo della teoria toboriana risultava infatti troppo solido per essere subissato da una lunga sequenza di eruditi pretesti.
Ma non sarebbe stata certo una pretestuosa polemica ad incrinare un siffatto pensiero bensì, come spesso accade, soltanto il destino, che è un po’ l’intestino della Storia, a sancirne la fine e la messa in disgrazia.
Negli ultimi due capitoli dell’opera del Tobor si nascondeva infatti l’anello debole dell’intera teoria. Queste pagine, nate come semplice appendice, erano state in seguito trattate da sprovveduti copisti ed inglobati erroneamente nel corpo del trattato. In questa parte dello scritto, il monaco si interrogava per capire quali potessero essere i rimedi immediati per prevenire con purghe, salassi e clisteri adatti la sindrome culonica lieve e per debellare con la lama le forme più gravi o recidive. A questo proposito, il frate individuava senza indugi nella chirurgia la tecnica più efficace per ridurre o demolire i deretani più ingombranti.
Al fine di elaborare le giuste ricette e gli interventi più adatti, Tobor dovette compiere un’indagine empirica sugli alimenti e sulla loro influenza sul fisico e sul temperamento umano, non tralasciando analisi anatomiche dal vivo. E tutto ciò lo portò a curiosare non tanto nei borghi ma nelle campagne, nelle radure e nei boschi, dove venivano coltivati i prodotti della terra ed allevato il bestiame. L’ultimo capitolo del trattato conteneva però una riflessione, postuma alla prima stesura. Con essa, il pannone metteva in guardia i suoi lettori da facili e pericolosi fraintendimenti. Era vero, precisava quel saggio, che un deretano ben formato e asciutto, come quello di un atletico fanciullo, andava studiato in quanto poteva rivelarsi il riflesso di un’anima armonica e linda, ma era anche altrettanto vero quanto queste delicate analisi potessero accendere in taluni scellerati un certo appetito sessuale, fuoco che nel monaco si era ormai spento da molto tempo.
Ciononostante fu proprio in quest’ultimo capitolo dell’opera che i potenti detrattori di Tobor trovarono gli appigli necessari per accusare il monaco del più orrendo dei delitti. Volle infatti il caso che, dovendo frequentare per motivi di ricerca l’ambiente dei cacciatori di frodo, Tobor narrasse di avere incontrato sul suo cammino uno di essi: un giovane, forte e coraggioso, dotato di un deretano di tali perfette dimensioni da influenzare in seguito il genio del Buonarroti.
Dando prova di indubbia sincerità, ma anche di notevole imprudenza, l’incauto Tobor riferì di essersi sentito inevitabilmente attratto dalle sembianze posteriori di quel giovinetto che meglio di ogni altra cosa rappresentavano la dimostrazione vivente e palese del suo ardito teorema.
Poco tempo dopo, a quasi duemila leghe di distanza, il tonfo sordo e profondo di un volume chiuso di colpo rimbombò nella sala del magistero di Pavia. E Joaquim del Tortellada, il padre inquisitore incaricato dallo stesso Papa di indagare sull’operato del monaco pannone, non ebbe più dubbi circa la colpevolezza dell’inquisito. “Il nostro povero fratello Tobor ha imboccato la via senza ritorno della perdizione. Egli non solo ha peccato d’orgoglio e di superbia, ma si è pure macchiato di evidenti quanto innominabili crimini sessuali. Che sia egli ricercato e condotto davanti al cospetto del Tribunale ecclesiastico”.
Questo è quanto accadde in Italia e a completa insaputa del monaco che, nel frattempo, aveva ripreso a predicare con successo in terra d’Oriente. Tobor era infatti un uomo che sapeva farsi apprezzare anche all’estero. Accattivatosi le simpatie di Mohamed Becciahz, il Pascià di Tabriz, egli venne ben presto nominato medico di corte. Ma poco dopo la malasorte cominciò a perseguitarlo. Somministrata ad un notabile una banale pozione contro la gotta, il paziente presto peggiorò, rischiando la morte. Del fatto ne approfittò subito un perfido medico siriaco che accusò il monaco cristiano di veneficio. Il Pascià, sebbene incerto circa la colpevolezza di Tobor, si fece condizionare, condannando il taumaturgo alla dolorosissima pena della bastonatura delle piante dei piedi.
Rimessosi dall’ingiusta punizione, Tobor viene esiliato per un anno. Costretto a  riparare a Barzhani, nella montuosa regione del Droghestan, dove trovò ospitalità nel remoto monastero ortodosso di Melchiorre Cerotti, un abile speziale che nutriva molta stima nei confronti del perseguitato monaco pannone, Tobor passò molti mesi in meditazione ed in attesa della sua riabilitazione. Egli voleva infatti rientrare a Tabriz e proseguire nei suoi studi. Ricevette infine il perdono dal Pascià, ma quando il monaco fece rientro in città venne a sapere che questi era nel frattempo deceduto per aver ingerito una pozione al mercurio preparata dall’incompetente medico siriaco. Tuttavia, Tobor venne accolto con tutti gli onori dal successore di Becciazh, che si chiamava Gennaro. Il nuovo sovrano si rivelò essere un uomo saggio, ospitale e di larghe vedute. Aveva provveduto egli stesso a fare avvelenare il suo predecessore dal medico orientale, decapitando poi anche quest’ultimo.
Gennaro si affidò a Tobor, ma il monaco, per prudenza, si limitò a curargli soltanto lievi malesseri. Il Pascià gli concesse la cattedra di chirurgia della locale scuola di medicina, e gli consentì perfino di approfondire e predicare - entro certi limiti - la sua dottrina e le sue teorie. Tobor ottenne infatti una scorta armata, un assistente e una tunica con un cordone nodato per effettuare, su tutto il territorio posto sotto la giurisdizione di Gennaro, misurazioni dei fondoschiena degli appartenenti alla comunità ebraica.
Ma la gloria durò poco. Un crudele quanto ostinato destino attendeva al varco il monaco pannone.
Il Patriarca d’Oriente, cui erano giunte le conclusioni dei dottori cattolici, con i quali non intendeva entrare in rotta di collisione, aiutò il prelato francese Henri-Marie Pollion - braccio destro di Tortellada - a mettersi sulle tracce di Tobor per ricondurre questi in Occidente. Il Pollion - che nel frattempo era riuscito a corrompere con una forte somma di denaro il Pascià Gennaro - si presentò al cospetto del monaco pannone. Lo scontro tra i due fu inevitabile. Con la complicità di alcuni notabili orientali, invidiosi del frate magiaro, il Pollion, dopo avere accusato Tobor di sodomia, gli ingiunse di rientrare in Europa. Con uno stratagemma e con il segreto aiuto del suo fedele assistente, Tobor riuscì però a fuggire.

Dopo avere trascorso un altro anno in meditazione in una grotta del Droghestan, il monaco, ormai stanco delle continue persecuzioni, decise di far fronte al proprio destino e di fare ritorno in Europa per liberarsi da quelle assurde calunnie. Scrisse quindi a Budapest e a Pavia chiedendo ai suoi superiori e alle più alte cariche ecclesiastiche di potersi discolpare davanti ad uno speciale tribunale della fede.
Si imbarcò a Sindone per Venezia, ma giunto nella città lagunare venne a sapere che il suo Ordine, pressato dal Tribunale dell’Inquisizione, lo aveva abbandonato e che de Tortellada e Pollion stavano organizzando per lui una trappola senza scampo. Infuriato, il monaco ritrovò allora l’ardore che sembrava averlo abbandonato. Sorretto da una rinnovata, ferrea volontà e dai discreti aiuti di frate Girolamo Stoppani - un pio ed illuminato predicatore che egli aveva conosciuto e curato per una dolora fistola anale durante il suo travagliato soggiorno in Oriente - Tobor decise di raggiungere egualmente Budapest, travestito da mercante veneto. Dopo mille peripezie, il monaco riuscì a farsi ricevere da Frà Sebastiano Molnar, un colonnello del suo Ordine che un tempo gli era amico e, dopo un drammatico colloquio, ottenne da questi la promessa del perdono, in cambio della sua rinuncia definitiva ad ogni ulteriore ricerca o predica non conformi all’ortodossia.
Il monaco accettò pure di essere assegnato alla biblioteca del convento di Budapest, situato a pochi passi dal Danubio.
Per i primi tempi Tobor si mantenne quieto. Poi, un giorno, fece domanda per essere secolarizzato e per intraprendere la professione di chirurgo. La richiesta viene respinta dal Molnar. Il monaco chiese allora di essere inquadrato nel laboratorio degli speziali dell’Ordine, ma anche questo suo desiderio non venne esaudito. Gli concessero tuttavia di trasferirsi da Budapest a Gulash, per mettersi a disposizione di frate Antonello da Garza, noto taumaturgo ligio all’ortodossia. A fianco di questi, Tobor lavorò alacremente alla stesura di un brillante trattato di foruncolosi gluteale, non ottenendo però alcun riconoscimento da parte dei superiori e della locale Facoltà di Medicina. Il mondo dei dotti lo aveva completamente isolato. Avvilito, il monaco chiese nuovamente ai suoi superiori di Budapest, e persino a Roma, di essere sciolto dai voti, ma ovviamente la sua richiesta venne respinta. In preda ad una violenta crisi depressiva, Tobor compì infine il folle gesto atteso da tutti i suoi nemici. In una fredda notte di inverno fuggì dal convento travestito da suora. E sotto queste mentite spoglie compì un lungo viaggio. Toccò Vienna Basilea, Lione, Livorno Napoli dove, tra l’altro, fece amicizia con i Voiello ai quali consegnò una sua nuova formula per la fabbricazione della pasta integrale anticellulitica. Poi si imbarcò su una caracca di contrabbandieri amalfitani alla volta di Trebisonda, sul Mar Nero.
Qui, l’ex monaco pannone si trasformò in profeta mago. Indossato uno strano abito di foggia turca, strabiliò le masse anatoliche maneggiando tizzoni e monete ardenti e cavando chiodi aguzzi dalle orecchie e dai nasi di notabili e pirati. Frantumò macigni con la sola forza del pensiero, disegnò e confezionò indumenti intimi maschili in legno atti al contenimento forzato delle adiposità del fondoschiena, e divulgò per una seconda volta il poderoso trattato “Lo Vizio Posteriore”, ormai introvabile.
Sebbene perseguitato, il monaco ottenne vasti consensi da parte delle masse affamate e degli asceti.
E radunata una minuta ma fidata schiera di seguaci appartenenti a tutte le razze e religioni, Tobor organizzò una pazzesca spedizione per liberare il mondo occidentale dall’“accidia culonica”.
Questa Specie di crociata, ignorata da quasi tutti i testi, non ricevette ovviamente alcun appoggio o finanziamento da parte di alcun potente.
La piccola, pacifica ma compatta schiera lasciò Sinope a bordo di un malandato veliero genovese preso in nolo e fece rotta verso l’Italia.
Sbarcato a Follonica, tra le ali di una folla di pescatori curiosi, Tobor riordinò i suoi ranghi e si mise in marcia verso Firenze seguito - secondo le cronache dello Scortecci - da “novanta ardimentosi e folli morituri con in pugno stendardi inneggianti all’homo novo e numerosi cordoni annodati atti alla misurazione delli deretani”.
Lungo la via del Chianti, il monaco fiammeggiante cercò inutilmente di far proseliti, poiché il popolo, già sobillato dai nobili e dai vescovi, lo prese subito per folle, apostrofandolo con calunniosi insulti, il più frequente dei quali fu “bucaiolo!”. Giunse infine alle porte di Firenze, ormai mobilitata per respingere e la pericolosa eresia.
Sceso di groppa dal suo mulo, Tobor lesse un proclama alla cittadinanza. Era solo sotto le alte mura, poiché aveva dato ordine ai suoi fedeli di stare indietro, in duplice fila longobarda, per non allarmare i fratelli toscani.
Il monaco pronunciò un nobile discorso all’insegna dell’amore. Spiegò le ragioni della sua lotta, perdonò i suoi persecutori e chiese alle autorità che gli venisse concesso di fondare il pacifico “Ordine della Corda”. Ma i nobili e gli ecclesiastici respinsero sprezzanti ogni tentativo di conciliazione, dando mano libera alle loro truppe.

Le potenti schiere della città compirono una sortita e travolsero con estrema facilità l’esigua e disarmata schiera toboriana, annientandola e non facendo prigionieri. Nessuno rimase in vita. E soltanto il monaco ribelle venne risparmiato e catturato. Incatenato come un animale feroce, Tobor fu condotto nelle orribili segrete di una prigione e costretto con atroci torture ad abiurare. Il monaco, seppure stremato, rifiutò di abdicare alla sua coscienza, preferendo salire sul patibolo. L’eroico pannone morì così sul rogo il primo febbraio del 1510. E le sue ceneri, raccolte in un sacco di iuta, vennero sparse nelle acque dell’Arno.
All’indomani dell’esecuzione, le autorità civili ed ecclesiastiche emanarono un editto con il quale veniva inflitta la ruota e poi il rogo a chiunque fosse stato trovato in possesso del trattato del monaco. E quindi nel volgere di pochi anni non si trovò più traccia dell’importante manoscritto.

Oggi, a distanza di secoli, nulla infatti è rimasto della geniale intuizione del martire. Lo scintillìo di quel cristallo puro di rocca che doveva sciogliere nodi filosofici e morali sui quali molti scienziati continuano ad interrogarsi venne distrutto precocemente perché smettesse di brillare e fare luce sulla verità. Ma forse fu un bene perché già dai primi anni della predicazione del monaco stava purtroppo diffondendosi, come spesso accade, da parte di praticoni e maghi, una bieca contraffazione di quella giusta dottrina, dando l’opportunità ai disonesti e ai lussuriosi di farsi promotori di analoghe ricerche e sperimentazioni sulle terga umane: giammai in buona fede e meno che mai per scelta etica.