sabato 23 marzo 2024


 

Eventi culturali. Convegno ‘Nazione Europa?’ (Genova, 22 Marzo 2024). Alcuni scatti.

 
Da sinistra: Diego Pistacchi, Alberto Rosselli, Vincenzo Sofo, Fabrizio Fratus.





mercoledì 20 dicembre 2023

Articoli vari.

 


 

LO SCHIAVISMO NEI PAESI ISLAMICI

Nel mondo mussulmano il consenso divino alla pratica della schiavitù rappresenta una norma codificata e regolata al suo interno da una serie di specifiche “indicazioni” relative ai rapporti tra proprietario e servo e ai loro diritti e doveri.

 

di Alberto Rosselli

Come è noto, il Corano non soltanto ammette l’esistenza della schiavitù come un fatto permanente di vita, ma addirittura detta le regole per la sua stessa pratica. D’altra parte, l’antica legge islamica riconosce di fatto l’ineguaglianza fondamentale tra gli uomini appartenenti a diverse religioni e, di conseguenza, quella tra padrone e schiavo (Corano, 16:71; 30:28). In pratica, il Corano assicura da secoli ai suoi fedeli il diritto, teorico e sostanziale, di possedere servi (per essere più precisi: di “possedere i loro colli”) sia attraverso la libera contrattazione di mercato, sia come bottino di guerra (58:3). Non a caso, lo stesso Maometto ebbe dozzine di schiavi, sia maschi che femmine, che era solito utilizzare per certe mansioni o vendere. “L’acquisizione dei servi è regolata dalla legge…ed è possibile per il mussulmano uccidere un infedele o metterlo in catene, assicurandosi in questo caso anche la proprietà legale dei suoi discendenti nati in cattività” (trascrizione dall’opera prima del teologo Ibn Timiyya, Vol. 32, p. 89).

Al contrario, nessun mussulmano potrà mai detenere schiavi della sua stessa religione, “poiché quella islamica è la più nobile e superiore delle razze” (Ibn Timiyya, Vol. 31, p. 380). Nel corso dei secoli il presupposto di matrice cristiana e occidentale di libertà personale quale condizione naturale e inalienabile dell’essere umano non è mai entrato a fare parte del bagaglio culturale e religioso dell’Islam: dottrina religiosa impermeabile agli influssi del Diritto Naturale. Nel mondo mussulmano, infatti, il consenso divino alla pratica della schiavitù rappresenta una norma codificata e regolata al suo interno da una serie di specifiche indicazioni relative ai rapporti tra proprietario e servo e ai loro diritti e doveri. Anche se a ben vedere, per lo schiavo il diritto corrisponde a soli doveri, assolti i quali per costui è possibile fruire della “compassione” del padrone.. La disobbedienza di un servo nei confronti del proprietario può infatti comportare gravi sanzioni e la sospensione della suddetta “compassione”: Secondo l’Islam, “esistono due esseri umani le cui preghiere non saranno mai accettate, né i loro meriti riconosciuti nell’altra vita: lo schiavo che fugge e la donna che non fa felice il proprio marito” (Miskat al-Masabih Libro I, Hadith, 74). Va detto che in origine il Corano prescriveva un avvicinamento umanitario allo schiavismo, suggerendo perfino trattamenti di riguardo nei confronti degli infedeli di un paese conquistato. Questi potevano infatti vivere all’interno della comunità mussulmana come un individuo (dhimmis), almeno finché erano in grado di pagare particolari tasse chiamate kharaj e jizya. Ciononostante, con l’espandersi del dominio islamico (VIII secolo d.C.), i dettami del Corano in materia di schiavismo iniziarono ad essere interpretati in maniera sempre più restrittiva e severa, sia nei confronti delle popolazioni africane animiste, sia verso i cristiani, gli ortodossi, gli induisti e i buddisti.

Già a partire dalla seconda metà del VIII secolo d.C, i mercanti mussulmani avviarono nell’Africa sahariana e sub-equatoriale un intenso traffico di schiavi neri prelevandoli soprattutto dalle regioni corrispondenti agli attuali Mali, Senegal, Niger, Chad meridionale, Nigeria, Camerun, Kenya e Tanzania. Strappati alle loro terre, milioni di individui vennero trasferiti con la forza verso i grandi mercati del Marocco, della Tunisia, dell’Egitto e della penisola araba per essere venduti o scambiati. Pratica che andò a vanti per secoli. Fino al XVII secolo, ogni anno il regno nubiano (Sudan) era obbligato ad inviare al governatore musulmano del Cairo a titolo di tributo un grosso quantitativo di schiavi neri. I nubiani e gli etiopi, con i loro fisici snelli e i loro nasi sottili, venivano solitamente preferiti ai più robusti e meno aggraziati bantu o mandingo dell’Africa centrale e occidentale, utilizzati per i lavori più duri e per le pratiche di guerra.

Contrariamente allo schiavismo cristiano-occidentale, che durò poco più di 300 anni (più o meno dalla metà del XVI a poco oltre la metà del XIX secolo) e che comportò la tratta di circa 12 milioni di individui africani trasferiti nelle Americhe, quello di matrice islamica andò avanti per ben 1.400 anni (dal VIII al XX secolo) diventando una dell’attività commerciali più remunerative gestite dai mercanti mussulmani, soprattutto quelli della penisola araba (Gedda fu uno dei mercati più importanti). Si calcola che nell’arco di 14 secoli i mercanti mussulmani abbiano messo in catene oltre 100 milioni di soggetti negroidi. Contrariamente a quanto accadde nel Nord America anglosassone dove, a partire dalla seconda metà del 1700, agli schiavi neri africani, impiegati soprattutto in agricoltura, era concesso mettere su famiglia, vivere in proprie case, coltivare piccoli appezzamenti e praticare un commercio minimo, nel mondo mussulmano non accadde mai nulla di simile. I servi erano, infatti, costretti a separarsi dalle famiglie, a vivere in recinti o in tuguri e ad essere sottoposti ad umiliazioni dolorose, come ad esempio l’infibulazione per le ragazze e la castrazione per i maschi. Sebbene la legge islamica richiedesse ai proprietari di trattare umanamente i propri schiavi e a fornirgli cibo e perfino cure, i mercanti e i padroni mussulmani si comportarono quasi sempre con estrema durezza. Secondo alcune consuetudini in vigore per secoli in Mauritania, in Sudan e nella penisola arabica, i servi non avevano diritto ad alcuna proprietà e potevano sposarsi soltanto con il permesso del loro proprietario, al quale spettava tra l’altro ogni diritto sulla prole. Per la cultura islamica lo schiavo rappresentava insomma una sorta di bene mobile e da riproduzione da trattare ed utilizzare nei modi più convenienti. E’ interessante ricordare che la conversione dello schiavo all’Islam spesso non sortiva di fatto alcun beneficio all’individuo. Nella massa, soltanto pochi servi neri convertiti, e dotati di particolari requisiti intellettivi o fisici, potevano ambire, dopo una lunga prigionia, ad un regime di semilibertà accettando di diventare soldati, eunuchi, governanti di casa e di harem o, nel caso delle donne, amanti o prostitute.

Il primo massiccio utilizzo di schiavi neri da parte di un regno mussulmano si verificò quando nel IX secolo il califfo di Baghdad ne acquistò diverse migliaia da mercanti africani da impiegare in agricoltura. Una violenta ribellione mise tuttavia fine a questo esperimento, inducendo gli arabi ad evitare il concentramento in un solo luogo di un numero troppo elevato di servi. Successivamente, i califfi iniziarono ad utilizzare i neri principalmente come domestici, o, nel caso di donne o fanciulli, per i propri piaceri sessuali.

Dopo il declino arabo, la pratica della schiavitù venne mutuata dai turchi che la esercitarono ampiamente nei Balcani, in Russia meridionale e in certe zone del Caucaso (soprattutto nell’Armenia cristiana). Le tribù tartare della Crimea, che godevano della protezione dall’impero ottomano, si specializzarono nella caccia agli schiavi cristiani che poi rivendevano sul mercato di Istanbul e di altre città anatoliche. Un’altra importante fonte di schiavi “bianchi” e cristiani fu la pirateria mediterranea, esercitata soprattutto dagli algerini che per secoli terrorizzarono le popolazioni costiere italiane.

Il traffico degli schiavi da parte dei mercanti mussulmani andò avanti per secoli e bisognò attendere il 1962 per vedere l’Arabia Saudita abolire ufficialmente questa pratica, seguita nel 1982 dalla Mauritania. Anche se va comunque detto che attualmente in Arabia Saudita lavorano ancora 250.000 schiavi de facto, cioè cristiani africani e cristiani filippini che in cambio di vitto, alloggio e bassa paga, vivono in una condizione di costrizione e mancanza di libertà pressoché totale. Ricordiamo anche che, sempre in Arabia Saudita, numerosi schiavi bambini importati dall’Africa vengono diffusamente impiegati – dato il loro trascurabile peso – come fantini negli ippodromi e, soprattutto, nelle gare di corsa dei dromedari e dei cammelli. Sempre ai giorni nostri, in Mauritania e in Sudan la schiavitù viene egualmente tollerata dai locali regimi islamici sostenitori, tra l’altro, di idee palesemente razziste, in senso antropologico, nei confronti dei neri. Nulla di strano in quanto – contrariamente a quanto si possa pensare – molti dotti islamici del passato, ma anche del presente, hanno sempre appoggiato con vigore tali teorie sostenendo che “un mussulmano non potrà mai costringere la sua bella e giovane serva ad unirsi ad un orrendo schiavo nero, se non in caso di estrema necessità” (Ibn Hazm, Vol. 6,Part 9, p. 469).

 


 

 

I libri di Alberto Rosselli.