mercoledì 26 dicembre 2018

Dino Segre, in arte Pitigrilli.





Dino Segre, in arte Pitigrilli

 di Alberto Rosselli

Ad oltre trent’anni dalla sua scomparsa, la controversa figura di Pitigrilli, al secolo Dino Segre, rimane ancora sepolta nel vasto e ben curato cimitero della disinformazione e del pregiudizio e, salvo alcune meritorie e coraggiose opere di rivalutazione (vedi gli scritti e le memorie di Fabio Andriola, Sergio Andreoli, Enzo Magri e Maurizio Bonfiglio e il saggio di Umberto Eco), pochi fino ad oggi sono stati i critici che si sono cimentati nella riscoperta di questo importante giornalista e romanziere.
Scrittore brillante e disincantato, attento osservatore della società italiana, dei suoi costumi e delle sue debolezze, Pitigrilli è stato oltre che un autore di indubbio talento anche e soprattutto un notevole ed atipico talento giornalistico. Un cronista che, complici il suo stile provocatorio, paradossale e anticonformista riuscì – nobile impresa – ad attirare su di sé l’antipatia e persino l’odio di gran parte degli intellettuali e dei potenti d’ogni schieramento e colore.

Dino Segre nacque a Torino nel 1893 da una famiglia borghese («Avrei voluto nascere a Torino al principio del secolo scorso [...] invece vi nacqui cent’anni dopo [...] Mia madre discende da una famiglia di farmacisti piemontesi, mio padre era ufficiale dell’esercito»). A ventidue anni si laurea in Giurisprudenza, ma non intraprende la carriera forense, preferendo dedicarsi subito alla letteratura, allo studio delle lingue moderne e antiche e al giornalismo. E a neanche ventitré anni inizia a scrivere per importanti testate, tra cui «L’Epoca», evidenziando in poco tempo straordinarie capacità come inviato in Turchia e in altri Paesi. Fondamentalmente scettico circa le possibilità di riscatto di un’umanità perennemente alla ricerca di facili soluzioni alla morte, all’ingiustizia sociale o al dolore mentale; decisamente dubbioso circa le capacità intellettive dell’uomo medio («Ammetto il bacio al lebbroso ma non concepisco la stretta di mano al cretino»), Pitigrilli, nel corso della sua lunga carriera, ha prodotto un numero esorbitante di articoli, servizi ed elzeviri, trovando il tempo per dare alle stampe parecchi romanzi cosiddetti «leggeri», parte dei quali, in realtà, molto profondi ed acuti: ricchi di annotazioni ed osservazioni sulla psicologia del singolo e delle masse, e quasi tutti gradevoli (anche se ad un’analisi attuale, un po’ «datati») sotto il profilo stilistico.
Pitigrilli fu anche un abile e conteso conferenziere, al punto che tra il 1929 e il 1930 egli venne invitato dalle più importanti Università europee, tra cui la Sorbona, a diversi simposi internazionali per disquisire su temi piuttosto complessi ed interessanti: come i concetti di «assurdo» e di «ipocrisia» («Nel collegio dei Barnabiti – scrisse nel suo romanzo Cocaina – aveva imparato il latino, a servire messa e a giurare il falso. Tre cose di cui si può aver bisogno da un momento all’altro. Ma uscendo dal collegio le dimenticò tutte e tre») e quello della «decadenza del paradosso» in letteratura.
L’abilità e la colpa di Dino Segre, in arte Pitigrilli (oltre a questo pseudonimo, utilizzò talvolta anche quello di Mathesis) consistettero nel sapere coniugare l’abilità professionale al gusto estetico e a quello del profitto: un’attitudine piuttosto rara che gli procurò fama, denaro, ma anche molti guai. Contrariamente alla prassi, Pitigrilli utilizzò sempre il suo fiuto giornalistico, letterario e commerciale facendo a meno di assimilarlo e adoperarlo per praticare uno dei più frequenti esercizi di molti intellettuali e giornalisti italiani: la piaggeria nei confronti dei politici e dei potenti di turno. Contrariamente a quanto è stato più volte scritto dai suoi detrattori, di Pitigrilli tutto si può dire tranne che abbia fatto o capito qualcosa di politica, scienza che ben di rado gli rubò il sonno la notte, pur stimolandogli gli insaziabili appetiti della polemica.
D’altra parte, l’intera storia di Segre fu caratterizzata da un costante e determinato esercizio nei confronti di uno studiato e raffinato «disimpegno»: conflitto che il giornalista torinese ingaggiò a colpi di articoli e di romanzi – come si direbbe oggi – «politicamente scorretti». Ma se i suoi numerosi scritti, che la quasi totalità dei critici (cattolici, marxisti e fascisti) hanno sempre condannato o snobbato giudicandoli superficiali, qualunquisti, vacui e addirittura pornografici, furono forse i suoi articoli (quelli meno noti) a procuragli i più grossi grattacapi. Non a caso, all’inizio del 1919, il grande D’Annunzio, infastidito dalle dolorose punzecchiature inflittegli dal giovane cronista del quotidiano romano «L’Epoca», arrivò addirittura a sfidarlo a duello. In effetti, Pitigrilli – al contrario della quasi totalità dei prudenti ed untuosi cronisti italiani del periodo – non aveva pensato due volte a sputtanare il Vate impegnato nella «grottesca» conquista di Fiume del novembre 1918 («Una nave da guerra mi portò a Fiume, della cui italianità Gabriele D’Annunzio si era appena accorto […] E con l’entusiasmo tipico dei poeti-guerrieri, egli trovò facile scovare qualche migliaio di individui disposti a corrergli dietro»). Incaricato dal direttore della testata di scrivere un servizio sull’impresa dannunziana, Pitigrilli ci era andato dentro con la zappa, infischiandosene altamente della sacralità dell’Eroe del Volo su Vienna e smitizzando le ragioni storiche e i fini politici su cui poggiava la spedizione militare di Fiume. «Giunto nella città, trovai della gente che parlava una strana lingua. Non uno che sapesse l’italiano. Qualche rudere qua e là, qualche impronta lasciata nei secoli dalle nostre repubbliche marinare; qualche leone di San Marco. Non vidi molta italianità ma percepii il colore dell’Oriente: mercanti di tappeti levantini, sigaraie da strada, profumo di cocomeri e di uva moscata, venditori di belzuino, di mirra e di incenso… Mi sedetti sulla banchina del porto e scrissi di getto un articolo intitolato: “Fiume, città asiatica”». Come dire: che c’entra l’Italia e la sbandierata italianità con questo posto? Manco a dirlo la totalità degli intellettuali si scagliò contro il giovane cronista che nel suo polemico pezzo tutto aveva riportato, tranne la menzogna. Il questore di Roma, «che molto probabilmente fino al giorno prima non avrebbe saputo trovare Fiume sulla carta geografica» arrivò addirittura a sequestrare la testata («L’Epoca») sulla quale era comparso l’articolo. Questo episodio la dice lunga sulla spavalda propensione alla libertà che Dino Segre sempre evidenziò nel corso della sua lunga carriera. Sì, perché egli non solo si rivelò una penna vivace ed insubordinata, ma fu anche in grado di «resocontare» con lucidità e coraggio un qualsiasi avvenimento, trasformandolo in dettagliata analisi.
Ma come si è detto, Pitigrilli è stato anche un buon imprenditore, oltre che di se stesso, anche di testate. Basti pensare all’enorme successo ottenuto dal suo periodico «Le Grandi Firme», tirato e venduto in decine di migliaia di copie, o agli allori conseguiti nel 1948 quando – essendo dovuto emigrare nel dopoguerra in Argentina per schivare le accuse (per altro mai provate) di collaborazionismo con i servizi segreti fascisti – egli riuscì a fare raddoppiare le vendite del quotidiano «La Razon» (che arrivò a quasi cinquecentomila copie al giorno) con la sua rubrichetta settimanale «Peperoni dolci». Fatti, questi, decisamente straordinari, soprattutto se si considera che Pitigrilli non ebbe mai del giornalismo quella sacrale concezione che sta alla base dell’atteggiamento serioso e spesso spocchioso di molti sedicenti maestri della penna. «La servitù del giornalismo – annoterà lo scrittore torinese alla fine degli anni Quaranta – consiste nell’arrivare alle nove del mattino in un paese sconosciuto, e a mezzogiorno spedire il primo articolo, dopo avere scambiato quattro chiacchiere col primo venuto, e avere visto della città il tratto che va dalla stazione all’albergo». È proprio per sopperire alla noia e alla sostanziale frustrazione che, a parer suo, contraddistinguerebbero il mestiere del giornalista, che Pitigrilli interpretò quest’ultimo sempre a suo modo, con quella incredibile verve surrealista che gli procurò grandi successi, ma anche grandi dolori ed infine l’esilio. «Un giorno il direttore dell’“Epoca” mi disse: “Vada al Lyceum femminile. Il senatore Morello tiene una conferenza sulle bellezze di Roma. Mi raccomando, prenda una carrozzella e faccia presto” – aggiunse. Io presi la carrozzella e, invece di farmi portare al Lyceum femminile, feci una passeggiata di un’ora al Foro, al Gianicolo e al Pincio. Rientrato in redazione feci il racconto della conferenza, passando in rivista tutte le bellezze di Roma che avevo viste e di cui probabilmente quel signore doveva aver fatto l’elenco. Ci vuole una bella impudenza, io pensavo, per parlare a Roma delle bellezze di Roma. Però non lo scrissi. Scrissi invece una pagina di elogi al fine conferenziere, e diedi il nome delle signore intellettuali che erano fra il pubblico. La cosa non mi fu difficile, perché erano sempre le stesse. L’articolo ebbe un successo sbalorditivo, anche perché all’ultimo momento il conferenziere si sentì male e la conferenza venne rinviata di un mese».
Nonostante la sua spiccata propensione all’invenzione scanzonata e al folle rischio (più di una volta fu sul punto di essere linciato dai suoi superiori), Pitigrilli non ebbe mai problemi a dimostrare di essere un preciso e corretto inviato, a tal punto che gli vennero affidati, fin dai suoi esordi, servizi di notevole spessore. Nell’autunno del 1919, Pitigrilli fu a Napoli per seguire l’andamento delle prime elezioni politiche a suffragio universale che si tennero in Italia. E come da copione dalla sua penna ne uscì un saggio godibilissimo e puntuale. «Partii per Napoli e vi rimasi un mese. Scrissi, Dio sa come, trenta articoli stracarichi di colore come dei Van Gogh. “L’Epoca”, di cui prima si vendevano a Napoli tre o quattro copie, salì a centomila. Fu un vero trionfo».
Con il passare del tempo il suo impegno giornalistico iniziò a lasciare sempre più spazio alla narrativa. Ad appena ventisette anni, egli venne inviato quale corrispondente nientemeno che a Parigi, che per un giornalista rampante di oggi sarebbe un po’ come andare a fare un servizio su una delle lune di Giove. Nella viziosa, colta, debosciata e fantasmagorica capitale francese, il giovane scrittore torinese ebbe modo di assaporare tutte quelle trasgressive ed in buona parte fantasiose esperienze che troveremo in seguito nel suo primo e più celebre libro, Cocaina (1920). Romanzo in cui Tito Arnaudi, il protagonista di questa ardita e sensuale fiaba surreale, è proprio un giornalista come lui: atipico, contraddittorio, indagatore e al tempo stesso rassegnato. «Ci si rifugia nel giornalismo come ci si rifugia nel teatro dopo aver fatto i mestieri più disparati e disperati: il prete, il dentista, l’agente di assicurazione». E ancora: «Quanti servi che non parlano ci sono nel giornalismo! Noi non siamo esseri che vivono nella vita. Noi siamo sul margine della vita; dobbiamo sostenere un’opinione che non abbiamo, e imporla al pubblico; trattare questioni che non conosciamo, e volgarizzarle per la platea; noi non possiamo avere un’idea nostra; dobbiamo avere quella del direttore del giornale: ma nemmeno il direttore del massimo giornale ha il diritto di pensare col suo cervello, perché quando è chiamato dal consiglio d’amministrazione deve soffocare la sua opinione, quando ce l’ha, e sostenere quella degli azionisti».
Ma torniamo a parlare della professionalità di Pitigrilli, di quella sorta di innata capacità di coniugare la più assoluta libertà d’espressione al successo di pubblico: una dote che lo rese inviso allo stesso regime fascista. Ridicola, a questo proposito, la vulgata popolare che nell’immediato secondo dopoguerra volle fare di Pitigrilli uno spietato e cinico collaborazionista del regime. A questo proposito giova ricordare che, tra il dicembre del ’26 e il marzo del ’27 due temibili testate – «Il Popolo d’Italia» e «Il Regime Fascista» – avviarono contro il giornalista e scrittore torinese di origine ebraica un’isterica e grottesca campagna denigratoria, accusandolo di essere un anti-italiano, un maniaco sessuale e un cocainomane pederasta. Nel 1938, in seguito all’emanazione delle leggi razziali, il cosiddetto «collaborazionista del regime» Pitigrilli venne perseguitato e costretto ad interrompere la sua attività. E il 10 giugno 1940 fu addirittura mandato al confino di polizia, in un paesino della riviera ligure. Temendo il peggio, Pitigrilli cercò allora di defilarsi, pur continuando a scrivere e a pubblicare i suoi romanzi. Ma anche così facendo proseguì nel procurarsi rinnovati attacchi da parte di tutti gli esponenti di un’Italia che, al di là delle indubbie colpe del regime, evidenziava però i limiti di una vecchia cultura sessuofobica e bigotta.
L’ostentata ammirazione manifestata da Pitigrilli nei confronti della frizzante e cosmopolita cultura francese, oltre che ad irritare gli alfieri di un fascismo proteso alla rivalutazione della romanità, provocò anche forti pruriti moralistici in non pochi intellettuali cattolici e di Sinistra. Ma fu soprattutto il grande, immenso successo commerciale ottenuto dai suoi romanzi e dalle «Grandi Firme» a rendere Pitigrilli, il re dei best-seller piccanti, detestabile tout court. D’altra parte, in una nazione dove sia la cultura social-fascista che quella clericale continuavano bene o male a convivere, impedendo il sorgere di stili letterari affrancati dagli sciatti e provinciali stilemi allora in voga nella cosiddetta narrativa «leggera», non c’era da attendersi nulla di diverso. Ciò che i tromboni della critica proprio non sopportavano di Pitigrilli era il disinvolto anticonformismo stilistico con il quale egli inumidiva la punta della sua penna e, come si è detto, lo strepitoso successo commerciale delle sue iniziative editoriali e dei suoi romanzi. Certo è che a Pitigrilli – uomo gaudente fortemente incline alle spese – il successo e il denaro interessavano parecchio, come pure il consenso dei lettori: «Questo fascicolo ha la pretesa di conquistare il grande pubblico – reciterà l’editoriale del primo numero di «Grandi Firme» –. Per riuscirci userà un solo mezzo: essere divertente. Presenterà novelle dei massimi scrittori, non per lusso e non per feticismo, ma perché essi offrono meno degli altri probabilità di narcosi […] Non miriamo a rigenerare gli uomini, fustigare i tempi, segnare nuovi indirizzi alla civiltà, per mezzo di racconti morali. La letteratura non ha funzione depuratrice, e noi non siamo missionari chiamati a convertire il traviato lettore, né trappisti che ogni quarto d’ora lo riconducano a meditare sulla morte inevitabile. Escluderemo tutto ciò che può avere anche un vago sapore politico. I letterati che fanno della politica sono uggiosi e incompetenti come i politici che fanno della letteratura».
Non stupisce quindi che sia gli intellettuali in orbace che quelli in doppiopetto non potessero nutrire alcuna stima nei confronti del creatore di una simile testata. Manifestando un coraggio che non di rado sconfinava nella temerarietà, Pitigrilli usò «Grandi Firme» come sua privata tribuna dalla quale canzonò gerarchi e critici. Rischiò sempre di persona e di suo (anche dal punto di vista finanziario) per avviare e sostenere le sue spericolate imprese editoriali. Fondò diverse testate, alcune fortunate, altre meno. E senza tema di smentita si può dire che molto raramente nel panorama e nella storia dell’editoria italiana sia possibile annoverare esempi analoghi. Alla creatività e all’intensa produttività di Pitigrilli si deve «Il Dramma» (testata nata negli anni Venti e sopravvissuta, anche dopo il disastro della guerra, fino agli anni Settanta). Curiosamente, di questa creatura del giornalista torinese l’Enciclopedia del Teatro riporta soltanto il nome del suo direttore, Lucio Ridenti, che fu messo al timone della rivista proprio da Segre. Caduti nell’oblio sono anche altri suoi prodotti dai contenuti veramente interessanti, come «Le Grandi Novelle», «La Vispa Teresa» e «Crimen», il primo periodico italiano interamente dedicato al racconto giallo. Meno fortuna ebbe invece «I Vivi», prodotto anticipatore del moderno rotocalco.
Ce n’è abbastanza per sostenere che Pitigrilli, grazie alla sua istintiva vocazione alla comunicazione, seppe rivolgersi ed offrire ad un vasto pubblico non tanto un messaggio o una lezione, ma la suggestione di uno stile di vita sostanzialmente critico e libertario. E tutto ciò in un’epoca caratterizzata da una drammatica e tetra uniformità di pensiero. Dino Segre fu uno dei pionieri della cosiddetta «letteratura popolare», mettendosi in luce come stimolatore di idee e come scopritore di talenti. Parecchi dei quali nel tempo gli sono sopravvissuti, rinnegandolo.
Per sfuggire alla caccia alle streghe del secondo dopoguerra, Pitigrilli visse il tramonto della sua carriera e della sua vita in assoluta solitudine, emarginato dagli stessi pregiudizi che lo avevano perseguitato da giovane e bollato dei più infamanti delitti. Dopo l’epurazione politica del 1945, Dino Segre continuò a lavorare a modo suo, sfornando rubriche ed elzeviri: specialità per la quale riteneva di avere una particolare attitudine: «Se c’è un campo in cui credo di aver scoperto il segreto del successo – confiderà in una delle ultime interviste – è quello della corrispondenza con i lettori. Ecco, io penso di sapere che cosa la gente del popolo si aspetta da queste rubriche. Ho una tecnica per arrivare diritto al cuore di chi legge. E se le lettere che arrivano sono sciocche, non importa, si possono sempre inventare, e saranno proprio le lettere che la maggioranza dei lettori avrebbero voluto avere scritto».
Ma questo suo ultimo impegno non gli fu certo agevole. Convertitosi al Cattolicesimo nel 1948 (con La piscina di Siloe e con Gusto per un mistero Pitigrilli dichiarò pubblicamente questa sua scelta, confermata nella sua autobiografia Pitigrilli parla di Pitigrilli; fondamentali risultano a questo proposito i suoi successivi incontri con Padre Pio da Pietrelcina, Eva Lavallière e con grandi medium dell’epoca) rientra in Europa nel 1957 accompagnato da una nuova raffica di critiche per questa sua scelta.
Nell’Italia del dopoguerra Dino Segre visse come un profugo appestato. Costretto a tirare avanti ai margini di un’editoria libera da vincoli di regime, ma non per questo scevra di pregiudizi. Ormai anziano, Pitigrilli cercò allora di proporsi presso le testate più «politicamente scorrette» del Paese, ma invano. Il sospetto che ch’egli avesse potuto svolgere (come sempre sostennero i suoi detrattori) il fantomatico ruolo di informatore dell’OVRA indusse anche personaggi come Guareschi e perfino Giorgio Almirante a rifiutargli la collaborazione al «Candido» e al «Secolo d’Italia». Obbligato a campare soltanto di piccole collaborazioni, alla fine degli anni Cinquanta egli poté prestare il suo genio e il suo stile, ormai corretti e resi più saggi dal dono della vecchiaia e della fede, al microscopico «Messaggero di Sant’Antonio»: un destino piuttosto curioso (ma forse non troppo) per un intellettuale ribelle che dedicò tutta la sua esistenza al paradosso.
Morirà solo e quasi completamente dimenticato nella sua Torino, l’8 maggio 1975, nella casa di Via Principe Amedeo.

Nota

Parte dell’articolo è tratto dalla relazione di Fabio Andriola tenuta l’11 agosto 1999 a Madesimo (Sondrio) in occasione del convegno «Stampa e potere – Idee, firme e denaro nel regno dell’informazione».

Opere di Pitigrilli

Il Natale di Lucillo e Saturnino, Sonzogno, Milano, 1915. Le vicende guerresche di Purillo Purilli bocciato in storia, S. Lattes e C., Torino, 1915. Mammiferi di Lusso, Sonzogno, Milano, 1920. Ingannami bene, Casa Editrice Italia, Milano, 1920. La cintura di castità, Sonzogno, Milano, 1921. Cocaina, Sonzogno, Milano, 1921. Oltraggio al pudore, Sonzogno, Milano, 1922. La Vergine a diciotto carati, Sonzogno, Milano, 1924. In tribunale col pittore Adolfo Magrini, il Dottor Aristide Raimondi ed altri, imputati di oltraggio al pudore a mezzo della stampa, G.G. Rocco Napoli, 1926. L’esperimento di Pott, Sonzogno, Milano, 1929. I vegetariani dell’amore, Sonzogno, Milano, 1929. Le amanti. La decadenza del paradosso, Torino, Edit. Associati-Tip. Salussolia, 1938. Mathesis, Il lotto come si gioca e come si vince, Torino, Ars, s.d. (1930?). La meravigliosa avventura, Sonzogno, Milano, 1948, contiene anche I cani abbaiano, La carovana passa. Lettera a Mario Mariani e a personaggi minori, Saturno, Sonzogno, Milano, 1948. La piscina di Siloe, Sonzogno, Milano, 1948. Mosè e il cavalier Levi, Sonzogno, Milano, 1948. Il farmacista a cavallo, Sonzogno, Milano, 1948. Lezioni d’amore, Sonzogno, Milano, 1948. Confidenze (conferenza), Monza, Tipografia sociale, 1949. Pitigrilli parla di Pitigrilli, Sonzogno, Milano, 1949. Apollinaria. Poemetto. Seguito da cinque novelle, Sonzogno, Milano, 1950. Adamo (Peperoni dolci), Sonzogno, Milano, 1951. Peperoni dolci, Sonzogno, Milano, 1951. Il sesso degli angioli (Peperoni dolci), Sonzogno, Milano, 1952. Dizionario antiballistico, Sonzogno, Milano, 1953. La moglie di Putifarre, Sonzogno, Milano, 1953. Gusto per il mistero, Sonzogno, Milano, 1954. Come quando fuori piove, Sonzogno, Milano, 1954. La danza degli scimpanzé (Peperoni dolci), Sonzogno, Milano, 1955. L’«affaire Susanna» (Short stories e storie in shorts), Sonzogno, Milano, 1955. L’amore ha i giorni contati, Sonzogno, Milano, 1956. Il pollo non si mangia con le mani. Galateo moderno, Sonzogno, Milano, 1957. I figli deformano il ventre (Peperoni dolci), Sonzogno, Milano, 1957. L’amore con la O maiuscola, Sonzogno, Milano, 1958. La Maledizione, Napoli, Rocco, 1958. Sacrosanto diritto di fregarsene, Sonzogno, Milano, 1959. Amore a prezzo fesso (Short stories e storie in shorts), Sonzogno, Milano, 1963. I pubblicani e le meretrici, Sonzogno, Milano, 1963. Lo specchio e l’enigma, Padova, EMP, 1964. I Kukukuku, Sonzogno, Milano, 1964. Odor di femmina, Sonzogno, Milano, 1964. Il dito nel ventilatore, Sonzogno, Milano, 1965. La donna di trenta, quaranta, cinquanta, sessant’anni. (Una croce sull’età), Sonzogno, Milano, 1967. La bella e i curculionidi, Sonzogno, Milano, 1967. Queste, coteste e quelle, Sonzogno, Milano, 1968. Amori express, Sonzogno, Milano, 1970. Sette delitti, Sonzogno, Milano, 1971. Nostra signora di Miss Tiff, Napoli, Marotta, 1974.

Riedizioni

Pitigrilli, Dolicocefala bionda. L’esperimento di Pott (saggio introduttivo di Umberto Eco), Milano, Sonzogno, 1976. Pitigrilli, Cocaina (introduzione di Giorgio De Rienzo), Milano, Mondadori, 1981. Pitigrilli, La piscina di Siloe (prefazione di Elio D’Aurora), Torino, A&C, 1991. Pitigrilli, La piscina di Siloe (prefazione di Vittorio Messori con un saggio di Agostino Gemelli), Milano, Bompiani, maggio 1999. Pitigrilli, Cocaina (con un saggio di Umberto Eco – 1976), Milano, Bompiani, maggio 1999. Pitigrilli, L’esperimento di Pott, Milano, Bompiani, febbraio 2000. Pitigrilli, Mammiferi di lusso, Milano, Bompiani, febbraio 2000.
(anno 2005)

Scagionato dalle accuse di collaborazionismo il leader cetnico Draza Mihailovich, fatto impiccare da Tito nel 1946. Le menzogne del leader comunista.





L’OPERAZIONE “HALYARD”, OVVERO LA PROVA DELLA LEALTA’ DEL LEADER CETNICO DRAZA MIHAILOVICH NEI CONFRONTI DEGLI ALLEATI

di Alberto Rosselli


Nel 1964, Richard I. Felman, maggiore a riposo delle Forze Aeree statunitensi, diede alle stampe un piccolo, ma importante libro di 46 pagine intitolato “Mihailovich ed io. Testimonianze di Richard L. Felman sulla Missione Halyard”. Il testo non ebbe alcun successo di pubblico, anche perché affidato ad una modesta casa editrice, ma ebbe il merito di fare riaprire un capitolo tra i più interessanti, complicati e meno noti della guerra partigiana in Iugoslavia tra il 1941 e il 1945. Nella fattispecie, il libro di Felman svelò i retroscena di una missione di salvataggio – l’Operazione Halyard –  di alcune centinaia di piloti alleati precipitati in Serbia, portata a brillantemente a compimento nel 1944 grazie al contributo del leader nazionalista cetnico Dragoljub-Draža Mihailovich che nel dopo guerra la storiografia ufficiale ha frettolosamente relegato nel ghetto dei “dannati” in quanto ritenuto colpevole di “collaborazionismo” nei confronti delle forze di occupazione tedesche (1). Per molti anni, l’Operazione Halyard, che come si vedrà rappresenta invece la prova inconfutabile della lealtà del capo cetnico nei confronti degli anglo-americani e alla quale Felman prese parte – è stata volutamente insabbiata dai servizi segreti d’oltre Oceano, desiderosi di non compromettere i rapporti con uno dei più importanti stati “non allineati”, la Iugoslavia di Josip Broz detto Tito. Il fatto che gli americani avessero potuto usufruire a proprio vantaggio dell’appoggio disinteressato di Mihailovich (nemico giurato di Tito) dopo averlo rinnegato nel 1943 come alleato dietro pressioni di Stalin, avrebbe infatti potuto incrinare le relazioni tra Washington e Belgrado i cui rapporti con Mosca nel 1948 deteriorarono al punto di cessare completamente. Ma non è tutto. Dal resoconto della Missione redatto da Felman emersero anche alcune verità che avrebbero potuto compromettere gravemente l’immagine del leader comunista iugoslavo, ritenuto dalla stragrande maggioranza degli storici il vero e unico artefice della guerra di liberazione iugoslava dalla tirannia nazista. Il breve, ma ben documentato testo di Felman risulta infatti denso di implicazioni di carattere politico e riconsegna alla storia una porzione di verità tradita. Una malversazione dei fatti che permise nel 1946 a Tito di mandare sul patibolo, tra il plauso generale della disinformata opinione pubblica occidentale, il suo più pericoloso avversario, cioè il generale Mihailovich. Vittima della damnatio memoriae comminata da Tito, Mihailovich viene però da Felman ampiamente e giustamente rivalutato. Non soltanto l’autore (la cui opinione è stata poi supportata, come vedremo, da altre qualificate ed attendibili testimonianze) è stato in grado di provare la paternità del successo di un’operazione (la Halyard) che consentì il salvataggio e il rimpatrio di 513 aviatori statunitensi e 83 soldati anglo-americani rimasti isolati in Serbia in seguito all’abbattimento dei propri velivoli da parte dei tedeschi, ma ha potuto anche provare che il presunto tradimento di Mihailovich nei confronti della causa alleata altro non fu che una menzogna “costruita” con notevole abilità da agenti dei servizi segreti sovietici infiltratisi nel SIS britannico con il preciso scopo di screditare agli occhi degli inglesi e degli americani l’immagine del generale cetnico,  e consentendo a Tito di assurgere al ruolo di unico Liberatore della Patria: ruolo che a partire dalla metà del 1943 permise a questi di beneficiare degli aiuti economici e militari anglo-americani precedentemente accordati al leader serbo. Nel dopo guerra, Felman, che grazie all’intervento di Mihailovich ebbe salva la vita, si dedicò anima e corpo per ridare dignità al personaggio e in generale al movimento nazionalista cetnico, incontrando però l’ostracismo della storiografia ufficiale. Va notato, a questo proposito, che quando nelle librerie statunitensi uscì il suo testo, l’ex sotto tenente pilota Felman – che nel frattempo si era guadagnato una certa notorietà per le innumerevoli decorazioni acquisite nel corso della sua carriera e per essere diventato il rappresentante dell’Associazione Piloti Militari statunitensi in congedo – venne fatto oggetto di una violente campagna denigratoria (l’Intelligence Usa lo accusò di essersi inventato l’intera storia) e di una serie di esplicite minacce da parte del governo di Belgrado che oltre a negare categoricamente il contenuto del libro, arrivò addirittura a bollare l’autore (che era di origine ebraica) di tendenze filo-naziste.

Richard I. Felman nacque nel Bronx (New York City) il 29 maggio 1921 da famiglia israelita. Suo padre David era statutinense, mentre sua madre Dora era emigrata dalla Polonia orientale in America negli anni Trenta. Il 24 luglio 1942, Felman si arruolò nel Corpo dell’Aviazione dell’Esercito degli Stati Uniti ottenendo in breve tempo il grado di sottotenente pilota di bombardiere. Ai comandi di un quadrimotore Boeing B-24 “Liberator”, Felman venne assegnato con il suo equipaggio al 98° Gruppo da del 15° US Army di base a Lecce, in Italia, dove giunse nell’autunno del 1943. Felman partecipò a 22 missioni contro obiettivi ubicati in Romania, Ungheria e altri paesi occupati dai tedeschi. E nel 1944, con il suo B24, battezzato “Mai un momento di noia”, Felman prese parte ad una delle più famose operazioni di bombardamento della Seconda Guerra Mondiale: quella contro i campi petroliferi romeni di Ploesti che a quel tempo fornivano l’80% del petrolio necessario alla Germania per sostenere lo sforzo bellico. Prima della partenza per la missione, i superiori di Felman avevano parlato a lungo agli equipaggi circa l’importanza degli obiettivi da colpire e le manovre di disimpegno da applicare in caso di necessità. Nella fattispecie, ai piloti venne sconsigliato di sorvolare il territorio serbo, per non correre il rischio di cadere nelle mani dei tedeschi e dei reparti cetnici del generale Draza Mihailovich. Questi ultimi, in quanto alleati dei tedeschi, “erano infatti soliti tagliare le orecchie agli aviatori alleati precipitati sul loro territorio, per poi consegnarle ai nazisti come pegno di fedeltà”. Sempre nel corso del briefing, un ufficiale dell’Intelligence Usa raccomandò a tutti i piloti, in caso di atterraggio di fortuna o lancio con paracadute, di mettersi subito in contatto con i partigiani comunisti di Tito che cooperavano con gli Alleati. Il suggerimento – come annotò nel suo libro Felman, lasciò tutti noi abbastanza perplessi. In più di un’occasione, infatti, aviatori alleati precipitati in Iugoslavia e poi rientrati alle basi avevano raccontato di essere stati aiutati delle bande cetniche, mentre parte di quelli che si erano messi in contatto con i gruppi comunisti avevano riscontrato non pochi problemi di “convivenza”. Senza considerare che sia Felman che i suoi colleghi ben si ricordavano del patto di alleanza esistente tra cetnici e anglo-americani. Felman rammentò anche che la copertina del numero (quello del 25 maggio 1942) della nota rivista Time Magazine era stata interamente dedicata al comandante serbo con un vistoso sottotitolo: “Mihailovich: l’Eroe della Resistenza iugoslava”. Va inoltre ricordato che, sempre nel 1942, la testata americana aveva incluso il leader serbo tra i primi cinque papabili al tradizionale concorso di “personaggio dell’anno”, gara che nel 1942 venne tuttavia vinta da Stalin dietro pressioni del gabinetto Roosevelt. Comunque sia, fino alla metà del 1943, Mihailovich ricevette favorevoli attenzioni da parte di tutti i media statunitensi, mentre sulla figura e l’attività del leader comunista iugoslavo Tito non venne scritto o detto praticamente nulla Nel 1943, la Twentieth Century Fox produsse addirittura un film, diretto da Louis King, sull’”Eroe della resistenza iugoslava” Draza Mihailovich. Ma la pellicola non uscì mai nelle sale e verso la fine del 1943 venne ritirata e completamente stravolta nei contenuti. Dietro indicazioni della Casa Bianca, Mihailovich divenne improvvisamente “un eroe finito: inaffidabile e traditore”. La ragione di questo cambiamento era da ricercare nel fatto che nel frattempo sia Washington che Londra, pressate da Stalin, avevano accettato di staccarsi da Mihailovich per abbracciare la causa comunista iugoslava. E pensare che nella primavera del 1941, dopo la sconfitta dell’esercito iugoslavo (il 12 aprile, il Comando di Belgrado si arrese al generale Paul Ludwig Ewald von Kleist von Kleist), il colonnello Mihailovich era stato il primo e l’unico alto ufficiale dell’esercito a rifugiarsi sulle montagne con i suoi fedeli e ad intraprendere immediatamente la lotta armata partigiana contro gli invasori tedeschi. Mentre dal canto loro, le forze comuniste di Tito non mossero un dito contro i tedeschi fino al 22 giugno 1941, cioè quando la Wehrmacht invase la Russia. Come prima base operativa, Mihailovich aveva scelto Ravna Gora dove si insediò l’8 maggio 1941. Contrariamente a quanto è stato scritto e riportato dai suoi detrattori e dalla pubblicistica, Mihailovich, che il 17 giugno 1942 venne nominato generale, non diede mai tregua ai nazisti né alle forze italiane e bulgare presenti sul territorio. Tanto che, all’inizio del 1942, il generale Heinrich Dankelmann Governatore Militare della Serbia, dovette chiedere rinforzi a Berlino. Non essendo riuscito ad ottenerli (in quel periodo la Wehrmacht era troppo impegnata sul fronte russo), il generale tedesco tentò quindi la via diplomatica, offrendo a Mihailovich una sorta di armistizio che tuttavia il leader cetnico respinse: “Non possiamo trattare…Fino a quando un solo soldato tedesco calpesterà il suolo della nostra Patria, noi continueremo a batterci”. Dopodiché dispose la sua armata nel modo più conveniente, cioè frammentandola in unità autonome e bene comandate in una vasta area in modo da costringere tedeschi, italiani, bulgari e croati a disperdere le proprie forze. Reparti cetnici costituirono i loro “santuari” nelle montagne della Serbia, della Bosnia e in quelle del Montenegro, tendendo frequenti imboscate alle colonne nemiche ed effettuando, soprattutto tra il 1941 e il 1942, improvvisi e devastanti attacchi diretti contro capisaldi e villaggi presidiati dalle truppe dell’Asse. Il 19 gennaio 1943, il generale Paul Bader, comandante militare della Serbia riferì a Berlino che “l’ex colonnello Draza Mihailovich” continuava “a rappresentare un grave problema per il Reich”.
Il 20 luglio 1943, la stampa controllata dall’Asse pubblicò un proclama che offriva una ricompensa di 100.000 marchi d’oro per la cattura di Mihailovich, vivo o morto. Ma nonostante le continue minacce e la carenza di armi e munizioni, il generale continuò egualmente a resistere, ricevendo ringraziamenti e congratulazioni da parte alte personalità militari alleate, tra cui il generale Eisenhower, del generale Auchinleck, il maresciallo dell’aria Tedder, l’ammiraglio Harwood e il generale De Grulle. Attestati che non lo salvarono dalla messa al bando. Fu all’indomani della Conferenza di Teheran  (28 novembre – 1° dicembre 1943) che Roseevelt e Churchill decisero infatti di scaricarlo. Privato dei rifornimenti e continuamente attaccato dalle bande comuniste, nell’estate del 1944 Mihailovich fu giocoforza costretto a smobilitare gran parte delle sue forze e a ridurre la sua attività sul territorio. Va comunque notato che nel settembre 1944, i servizi secreti americani, che temevano per la sua vita, gli offrirono nascostamente di fuggire dal paese, ma Mihailovich declinò l’offerta. “Vi ringrazio. Ma il mio unico desidero è quello di rimanere, comunque vadano le cose, a fianco del mio popolo. La mia forza è nel popolo serbo

Nel dopoguerra, lo storico canadese David Martin raccolse nuove importanti prove a sua volta riprese da Felman. Nel corso di lunghe indagini, Martin scoprì che il capitano James Klugman del British Special Operations Executive (SOE), con base prima al Cairo e poi a Bari, era stato in realtà una talpa comunista al servizio di Stalin e di Tito, impegnata in un’opera di sistematica disinformazione circa l’attività dei movimenti partigiani iugoslavi, esaltando le presunte gesta di quelle comuniste e criticando quelle compiute dai cetnici.
Stando a Martin, Klugman modificò e falsificò tutte le informazioni raccolte dagli agenti inglesi paracadutati tra il 1942 e il 1943 in Iugoslavia per stornare il sostegno anglo-americano da Mihailovich a Tito. Disgraziatamente, Klugman godeva di un notevole ascendente sul primo ministro Winston Churchill e molte importanti amicizie all’interno del SIS (nel quale agivano da tempo diverse spie sovietiche), del Foreign Office e della BBC. Il capolavoro di manomissione della verità attuato da Klugman fu però quello di redigere un rapporto segreto (poi passato al ministero della Difesa inglese) dal quale emerse che nel corso del 1942, le sole forze partigiane del maresciallo Tito avevano avuto il merito di “immobilizzare e neutralizzare” in territorio iugoslavo qualcosa come 24 divisioni tedesche di primo ordine e 10 italiane. Cosa naturalmente del tutto falsa. Infatti, nel dopoguerra, si venne infatti a sapere che nel 1942, la Wehrmach aveva schierate in Iugoslavia soltanto otto divisioni a ranghi ridotti, rinforzate da formazioni di supporto formate da elementi volontari croati, bulgari, bosniaci musulmani e albanesi. Gli italiani dal canto loro disponevano in Montenegro e Albania di una mezza dozzina di divisioni, abbastanza folte ma di limitato potenziale bellico. Klugman riferì inoltre ai Comandi Alleati di violente e vittoriose offensive condotte da forze partigiane “comuniste” contro Wehrmacht e le forze italiane e croate, mettendo in evidenza il ruolo marginale e soprattutto l’atteggiamento ambiguo dei raggruppamenti cetnici, inclini, a parere suo, a patteggiare con gli occupanti nazisti. Insomma, la spia di Mosca esaltò a tale punto la combattività, il patriottismo e la lealtà delle forze titine da indurre nel 1943 lo stesso Churchill (che certamente non simpatizzava per i comunisti) ad assumere un atteggiamento decisamente ostile nei confronti di Mihailovich che, in realtà, non soltanto stava combattendo contro i tedeschi, ma doveva anche guardarsi oltre che dai comunisti anche  dagli ustascia croati e dagli italiani..
Ancora nell’autunno del 1944, Klugman riferì che Tito era riuscito a liberare da solo i due terzi della Iugoslavia e a dare un contributo essenziale alla conquista della capitale Belgrado che, come è noto, venne occupata il 21 ottobre del ’44 dalle forze sovietiche del maresciallo Tolbukin (controllare) con il marginale contributo di unità titine. Ciò che Klugman omise fu che fino all’aprile del 1945 gli ormai scarni reparti della Wehrmacht appoggiati da male armate unità croate, respinsero e batterono ripetutamente le armate partigiane titine, nonostante queste godessero del massiccio appoggio aereo anglo-americano e sovietico. Ma il documento più interessante ritrovato negli archivi dell’Intelligence britannica fu una lettera top secret inviata nel marzo del 1943 da Tito al responsabile del Comando tedesco di Sarajevo. In questa sconcertante missiva, opportunamente occultata per anni da Klugman, il leader partigiano comunista offriva ai nazisti un patto di alleanza per combattere insieme il suo nemico personale, cioè Draza Mihailovich, “elemento monarchico legato strettamente agli anglo-americani”. Oltre a ciò, Tito promise ai tedeschi di fornire il suo appoggio per respingere qualsiasi eventuale tentativo di sbarco alleato lungo il litorale croato o dalmata, in cambio dell’ottenimento della sua giurisdizione sulla Bosnia Erzegovina Richieste, queste, che il Comando di Sarajevo, istruito dal ministro degli Esteri Joachim von Ribbentrop, respinse. Copia di tale “esplosivo” documento venne rintracciata dai Servizi inglesi nel 1945, negli archivi di Berlino, e successivamente trasferita in quelli del SIS britannico.

Ma torniamo all’avventura e alle memorie di Felman, alle 05:13, il B-24 Liberator di Felman decollò dalla base statunitense di Foggia per la sua missione sui campi petroliferi romeni di Ploesti. L’aereo faceva parte di una formazione composta da circa 250 bombardieri  B-24 e Boeing B-17. Gli aerei alleati, scortati da caccia Mustang P-51, attraversarono il Mar Adriatico fino in Jugoslavia dove cambiarono rotta per evitare la contraerea tedesca. Giunta sulla direttrice di Ploesti, la formazione venne accolta dal tiro rabbioso dei 325 pezzi da 88 e da 105 mm. della FLAK posti a difesa dell’obiettivo. Oltre a ciò, uno stormo di caccia Messerschmitt ME-109 G tedeschi attaccò dall’alto la formazione americana. L’aereo di Felman sganciò le sue bombe sui pozzi petroliferi e quindi lasciò immediatamente l’area, dirigendosi verso sud ovest. Giunto sui cieli della Serbia, l’apparecchio venne però intercettato da alcuni ME-109 G che lo danneggiarono gravemente. Il bombardiere venne colpito ai serbatoi, ad un alettone e al timone. Felman e l’equipaggio furono quindi costretti ad abbandonare l’apparecchio, saltando a un’altitudine di 18.000 piedi ed atterrando in un vasto campo coltivato. Felman, che era stato ferito alla gamba sinistra, venne soccorso da un gruppo di “uomini barbuti e cordiali che poi seppi essere partigiani cetnici”. Il sottotenente fu poi condotto in una casupola dove gli vennero offerti frutta, fiori e “slivovitz”. Gli procurarono anche una stampella, dopodiché lo accompagnarono in una chiesa ortodossa dove venne accolto da un anziano prelato. “Ci inginocchiamo tutti in preghiera e ringraziammo Dio per il pericolo scampato”. Poi Felman venne portato dal colonnello Dragisha Vasich, comandante della regione di Pranzane. Vasich gli riferì che i cetnici continuavano, nonostante il loro abbandono da parte degli Alleati, a considerarsi amici degli americani.. Vasich spiegò a Felman che Mihailovich non aveva mai smesso di aiutare i piloti statunitensi e inglesi abbattuti sul territorio iugoslavo e ad occuparsi personalmente dei cosiddetti Missing In Action (MIA), cercando di riferire via radio al Comando del Cairo la loro sorte. Nel frattempo anche gli altri 10 superstiti del B24 di Felman erano stati soccorsi dai cetnici e sistemati in abitazioni messe a disposizione dai civili serbi che per questo rischiavano di essere fucilati dai tedeschi. Felman descrisse il suo rapporto con questa gente di fede monarchica. “Parlavano del nostro paese con profondo rispetto. Un misto di soggezione e ammirazione…Dopo tre giorni, il comandante tedesco della zona emise un proclama indirizzato alla popolazione affinché consegnasse i piloti americani. In caso contrario i  nazisti minacciavano di bruciare un intero villaggio serbo, fucilando tutti gli abitanti” Felman voleva arrendersi per evitare ai serbi tale rappresaglia, ma Mihailovich e Vasich, tuttavia, decisero di non accettare il ricatto. Pochi giorni più tardi, i nazisti incendiarono un vicino paese, massacrando duecento civili. Nel suo libro, Felman spiegò poi perché le forze di Mihailovich avevano sempre cercato di evitare attacchi diretti contro i soldati tedeschi. All’inizio del conflitto, la guerriglia serba aveva impegnato le forze tedesche direttamente ed aveva inflitto ad esse gravi perdite. Ma i nazisti avevano risposto con feroci rappresaglie contro la popolazione civile. Per ogni soldato tedesco ucciso in combattimento, i tedeschi erano soliti eliminare 100 serbi. Nell’ottobre 1941, circa 8.000 civili, tra cui molti bambini della città di Kragujevac, vennero fucilati per rappresaglia per l’uccisione di alcune centinaia di soldati tedeschi. Questa strage indusse Mihailovich ad ordinare ai suoi reparti di ridurre l’attività bellica contro il nemico, ripiegando su atti di sabotaggio a linee ferroviarie, strade e ponti.

Una volta guariti, Felman ed altri membri dell’equipaggio iniziarono a programmare la loro evacuazione dal campo base  di Pranjane che si era nel frattempo trasformato in un centro di raccolta anche per aviatori francesi, inglesi, canadesi, italiani, e russi fuggiti da campi di prigionia tedeschi. La difficoltà stava nello stabilire un contatto con la base statunitense di Bari, quartiere generale del comando del 15° US Air Force. Mihailovich era infatti considerato un reietto. Dopo averlo abbandonato, gli anglo-americani avevano provveduto a cambiare  la frequenza e i codici di trasmissione radio, impedendo di fatto ai cetnici qualsiasi collegamento con l’Occidente. I marconisti di Mihailovich cercarono allora di contattare Bari attraverso l’invio alla cieca di messaggi. Ma per diversi giorni questo espediente non diede alcun risultato pratico. Infatti dagli americani non giunse alcuna conferma di ricezione o risposta. A quel punto, venne deciso di utilizzare uno speciale codice che utilizzava frasi convenzionali utilizzate in passato. “Mihailovich fece di tutto per salvarci dai tedeschi. Era un grande uomo, anche se semplice e timido… Fu il più grande capo”. Finalmente, da Bari giunse una risposta. Una volta al corrente della situazione, gli anglo-americani accettarono di inviare con un aereo in avanscoperta un gruppo di ufficiali per scoprire se Mihailovich aveva detto il vero circa il fatto che a Pranjane – in procinto di essere accerchiata da forze tedesche – si trovavano 513 tra aviatori e soldati alleati. I cetnici allestirono in pochi giorni una pista di fortuna lunga 1.900 piedi e larga 100 piedi. E il 2 agosto,  un apparecchio britannico da trasporto atterrò. Dall’aereo scesero tre ufficiali dell’Intelligence statunitense: il tenente Gorge Musulin, dell’Organizzazione dei Servizi Strategici (OSS), guidato da Bill Donovan, sergente capo Michael Rajacich, uno specialista di intelligence, ed Arthur Jibilian, uno specialista radio della US Navy. Tra il 1941 e il 1942, Musulin aveva ricoperto l’incarico di ufficiale di collegamento statunitense presso il Comando di Mihailovich. Venne stabilito di comune accordo che tutti i piloti e i soldati alleati salvati dai cetnici sarebbero stati evacuati da aerei da trasporto statunitensi Douglas C-47, per i quali tuttavia occorreva una pista più lunga di circa 300 piedi. Degli 8.000 soldati cetnici che presidiavano la zona, centinaia vennero precettati per questo lavoro che venne portato a compimento a tempo di record: appena cinque giorni. Venne inoltre stabilito che ogni aereo avrebbe preso a bordo 12 uomini, rispettando la priorità per feriti e malati.
L’8 agosto, tre bombardieri in picchiata tedeschi Ju 87D Stukas sorvolarono da quota abbastanza elevata la rudimentale pista, ma non si accorsero di nulla, rientrando poi alla loro base. Finalmente, il 9 agosto, una squadriglia di C-47, scortata da un centinaio di caccia P-51 Mustang e P-38 Lightning, giunse a Pranjane, evacuando e trasferendo a Bari 243 aviatori statunitensi e 20 tra russi, francesi, canadesi, italiani, inglesi e serbi. Felman annotò che prima di caricare gli uomini, gli aerei statunitensi avevano sganciato armi alle forze partigiane di Tito, che le avrebbero usate contro i loro soccorritori, cioè le forze cetniche Al loro arrivo nelle Puglie, il maggiore generale Nathan Twining, comandante del 15° US Air Force, accolse gli uomini In tutto, 513 aviatori americani furono soccorsi insieme ad altri 83 soldati alleati. La Halyard Mission fu una delle più riuscite operazioni di soccorso della storia dell’aeronautica statunitense. Ma rimase censurata e tenuta segreta per evitare che l’opinione pubblica venisse a sapere della perdurante fedeltà del leader Mihailovich alla causa alleata. Anche se non tutti i militari statunitensi vollero voltare le spalle al capo dei cetnici. Tra questi, il colonnello dell’esercito statunitense Robert H. McDowell (già docente di Storia Moderna dei Balcani presso la University of Michigan), che nel 1942 e 1943 aveva soggiornato in qualità di ufficiale di collegamento presso il comando di Draza Mihailovich. Nel dopo guerra, McDowell prese coraggiosamente le difese del leader cetnico, sottolineando il grande sforzo compiuto dai cetnici per il trionfo della causa alleata e soprattutto dichiarando nel corso di alcune interviste “di non essere è mai venuto a conoscenza di notizie o semplici indizi che inducano a supporre che il generale Mihailovich abbia collaborato con le forze tedesche”. D’altra parte, il 29 marzo 1948, dietro pressioni del generale Dwight D. Eisenhower, il presidente Harry Truman, nel corso di una cerimonia segreta, concesse alla memoria di Draza Mihailovich la più alta decorazione dell’Esercito statunitense, riconoscendo il contributo fornito dal leader cetnico alla vittoria sui nazisti. La curiosa prassi di conferimento dell’onorificenza venne imposta dal potente Dipartimento di Stato statunitense che dai servizi segreti americani che a quel tempo erano impegnati nel tentativo di sfruttare il clamoroso distacco di Tito da Mosca,  trasformando la Iugoslavia in una specie di frangiflutti anti sovietico.
  
NOTA DELL’AUTORE. La realizzazione di questo servizio è stata resa in gran parte possibile grazie alle preziose ricerche condotte dallo storico, politologo e giornalista Carl K. Savich
   
BIBLIOGRAFIA:
Churchill’s Yugoslav Blunder by David Martin. San Diego and New York: Harcourt, Brace, Jovanovich, 1990.
Tito, Mihailovic and the Allies, 1941-1945, by Walter R. Roberts
Published in Paperback by Duke Univ Pr (Txt) (June, 1987)
 Britain, Mihailovic and the Chetniks, 1941-42 by Simon C. Trew, Edition Hardcover
Axis Forces in Yugoslavia 1941-5 (Men-At-Arms, No 282) by  N. Thomas , K. Mikulan , D. Pavelic, 1995 Paperback
 The Living Spirit of Ravna Gora. General Draza Mihailovich, by Aleksandra Rebic

NOTE:
 (1) Draza Mihailovich nacque nel 1893, nella cittadina di Ivanitza vicino a Chachak, dove suo padre era insegnante. Nel 1910, il giovane Draza entrò all’Accademia Militare, ma nel 1912 i suoi studi furono interrotti dallo scoppio della Prima Guerra Balcanica alla quale prese parte con il grado di allievo caporale. Decorato due volte per atti di coraggio, fu promosso allievo sergente e nel 1913, durante la breve Guerra Serbo-Bulgara, sottotenente. Quando nel 1914 scoppiò la prima guerra mondiale, Draza Mihailovich ebbe modo di fare valere nuovamente il suo valore, venendo decorato diverse volte. Nel settembre 1918, egli si distinse particolarmente in un’azione di guerra nei pressi di Shtip che gli fruttò il grado di tenente e la decorazione dell’Aquila Bianca. Dopo l’armistizio, Mihailovich riprese i suoi studi militari e nel 1929 venne inviato in Francia dove frequentò un corso di specializzazione di sei mesi presso un reparto dell’esercito transalpino. Promosso ufficiale di Stato Maggiore e successivamente docente di Tattica presso l’Accademia Militare, egli svolse il compito di addetto militare prima a Sofia e poi a Praga. Alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, Mihailovich presentò allo Stato Maggiore jugoslavo un suo dettagliato rapporto nel quale egli prevedeva un’invasione da parte delle forze tedesche, italiane e ungheresi (esattamente ciò che accadde nell’aprile 1941). Egli era dell’opinione che una difesa delle frontiere settentrionali da un attacco tedesco era praticamente impossibile e che quindi sarebbe stato necessario concentrare tutte le forze nelle regioni montagnose centrali del paese. In quel periodo pubblicò anche un importante testo sulla guerriglia. Il giorno dell’invasione tedesca, il colonnello Mihailovich si trovava in Bosnia, a Doboy, presso lo Stato Maggiore di una divisione motorizzata. E quando il suo superiore generale Simovich ordinò la capitolazione dal senza l’approvazione del governo jugoslavo, egli si rifiutò di ubbidire, tentando con i suoi reparti di aprirsi un varco in direzione della Bosnia orientale e della Serbia, dove sperava di ricongiungersi con ciò che rimaneva dell’esercito. La marcia fu contrassegnata da duri scontri con unità blindate germaniche e Mihailovich fu alla fine costretto a ritirarsi sulle colline. All’inizio di maggio, raggiunto dall’ultimatum tedesco che imponeva la resa a tutti i reparti iugoslavi ancora in armi, Mihailovich rispose: “Capitolazione? Non so di che cosa si tratti. Ho servito nell’esercito per molti anni, ma non ho mai udito questa parola.”
La prima preoccupazione di Mihailovich fu quella di resistere agli invasori e nel contempo proteggere la popolazione serba dagli ustascia croati di Ante Pavelic decisi a massacrarli. Esperto di guerriglia, Mihailovich fece di questa forma di guerra un’arte, organizzando nel contempo azioni militari di vasto respiro ideate per appoggiare lo sforzo bellico degli Alleati. Nella prima metà del 1941, l’armata cetnica fu l’unica a scendere in campo contro i tedeschi e i loro alleati, sia in Serbia che in Bosnia e Montenegro. Quando tra l’agosto e il dicembre del 1942, i britannici vennero duramente impegnati in Africa Settentrionale dalle forze italo-tedesche, Mihailovich scatenò una serie di riusciti attacchi contro la strategica linea ferroviaria Belgrado-Salonicco, causando alle armate tedesche nei Balcani notevoli danni, come del resto ebbe a sottolineare Antony Eden e molti alti gradi dell’Esercito anglo-americano. Dopo il crollo dell’Italia, nel settembre 1943, Mihailovich mise sotto controllo una vasta area del Montenegro. E fino alla fine del 1944, le sue forze continuarono ad effettuare attività di sabotaggio, distruzione di treni nemici e attacchi ad importanti centri tenuti dai tedeschi, contribuendo in maniera determinante alla tenuta dell’esercito comunista titino. Ai primi di maggio del 1945, il generale Mihailovich, assieme ad alcune centinaia di fedeli, si rifugiò nelle montagne della Bosnia, resistendo per quasi un anno alla caccia spietata delle forze speciali titine. Circondato, venne catturato il 13 marzo 1946 e condotto in carcere. Il suo processo davanti ad una corte militare comunista iniziò il 10 giugno 1946 e si concluse il successivo 15 luglio. Durante il dibattimento, Mihailovich – che ben sapeva quale sorte lo attendeva – tenne un atteggiamento estremamente calmo e dignitoso, pronunciando infine un lungo e dettagliato rapporto sulla sua attività di patriota. La registrazione del testo di questo intervento, denso di imbarazzanti accuse al leader Tito, venne fatto sparire dalla magistratura comunista. E la Tipografia di Stato a Belgrado, che l’anno seguente pubblicò un libro di 556 pagine sul processo a Mihailovich, si limitò a riassumerlo, distorcendone il significato, in poche righe. Il 17 luglio 1946, il leader cetnico, vestito con una logora divisa da soldato semplice priva di alcuna decorazione, venne impiccato e il suo corpo fatto sparire. Va ricordato che, prima dell’inizio del processo, il 3 giugno 1946, il Times di Londra pubblicò a tutta pagina un appello firmato da molte personalità, tra cui il cardinale Griffin George Cicestr, e il Maresciallo dell’Aria John McKenzie. Senza dimenticare che, il 19 maggio 1946, forse in preda al rimorso, Winston Churchill dichiarò pubblicamente di non nutrire “alcuna simpatia nei confronti del nuovo regime comunista titino deciso a negare al Generale Mihailovich un equo processo. Mihailovich fu colui il quale nel 1941 condusse per primo la rivolta anti-nazista, ritardando in questo modo l’attacco tedesco alla Russia e rendendo così  un grande servigio agli Alleati”.

La guerriglia anticomunista in Croazia e Slovenia (1945-1948), di Alberto Rosselli (Fonte: 'Storia Verità').




 

LA GUERRIGLIA ANTICOMUNISTA IN CROAZIA E SLOVENIA 1945-1948


di Alberto Rosselli


Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, in Croazia, come in Slovenia, si sviluppò un movimento di resistenza anticomunista che trovò in alcune formazioni politiche e militari regionali, come quella dei Krizari (Crociati) – composta per lo più da elementi ex-ustascia ed ex-domobrani della Guardia Nazionale – il suo zoccolo più duro. Dopo le stragi del maggio-giugno 1945 perpetrate dai titini ai danni dell’esercito croato rifugiatosi in Austria, alcune centinaia di ufficiali e soldati ex-ustascia sfuggiti alle esecuzioni di massa decisero di proseguire la loro lotta contro il nuovo regime instauratosi a Belgrado. Ma nonostante l’appoggio fornito loro dal SIS britannico e, almeno così sembra, dal Vaticano e dal governo italiano, i loro sforzi – come vedremo - non condurranno che a parziali o totali insuccessi.
Ma a questo punto occorre però fare un passo indietro. Poco più di un mese dopo la conclusione del conflitto, il 25 giugno 1945, alcuni esponenti ustascia rifugiatisi a Salisburgo (nella parte di Austria controllata dagli alleati occidentali) si misero in contatto con l’arcivescovo Andreas Rohracher, al quale chiesero (almeno così sostengono due giornalisti, lo statunitense Mark Aarons e l’australiano John Loftus, autori di Ratlines, un testo interessante ma molto discusso sulle presunte collusioni post-belliche fra movimento ustascia e Vaticano) se fosse stato possibile ottenere dalla Santa Sede un appoggio politico per la creazione di uno nuovo stato croato-cattolico indipendente o, in alternativa, per la realizzazione di una (non ben definita) “unione adriatico-danubiana in cui il popolo croato potesse ritagliare un proprio spazio”. Ciò che appare certo è che, nell’estate del 1945, esponenti ustascia, che durante la guerra avevano fatto parte delle formazioni di Pavelic e che successivamente erano fuggiti in Occidente, si siano effettivamente messi in contatto con esponenti della Chiesa, ma soprattutto dei servizi segreti britannici per cercare di “ricostruire” il movimento croato e per tentare colpi di mano ai danni del nuovo regime iugoslavo. Nei primi mesi del 1946, a Trieste, alcuni leader krizari in esilio vennero infatti convocati nella sede del locale distaccamento del CIC (Coordination Information Center) e tra le due parti vennero effettivamente presi accordi in tal senso. Nella fattispecie, i britannici garantirono il proprio sostegno al movimento krizaro i cui volontari, presenti in Occidente e in Italia, sarebbero stati selezionati da un’apposita commissione tecnica per poi essere sottoposti ad un ciclo di addestramento militare. Lo scopo era infatti quello di creare un primo nucleo di commando da inviare successivamente in Iugoslavia con compiti di intelligence e sabotaggio. Nell’arco di alcuni mesi, presso un campo militare britannico situato non lontano da Udine, vennero radunate alcune decine di ustascia ai quali gli ufficiali del SIS  insegnarono tutte le tecniche necessarie per operare in territorio nemico (i volontari prescelti furono addestrati al lancio con il paracadute, all’uso di armi e di apparecchiature radio). Alla fine del corso, gli istruttori inglesi fornirono ai volontari krizari uniformi dell’esercito americano e una paga giornaliera di 700 lire. Dopodiché, a bordo di camion, trasferirono i commando (assieme ad un carico di armi e materiali di fabbricazione anglo-americana) in Austria, nella zona di Klagenfurt, dove gli stessi servizi britannici avevano installato un paio di piccoli campi base per le missioni da effettuare in Iugoslavia. A sovrintendere l’attività del gruppo krizaro pare fosse un prelato destinato a diventare famoso, almeno negli ambienti dell’intelligence internazionale, padre Krunoslav Draganovic che, tra il 1946 e il 1947, cioè durante il periodo di cooperazione anglo-ustascia, ebbe come principale interlocutore il colonnello Lewis Perry facente parte dello staff del CIC di Trieste. (1)
Stando alle affermazioni di Aarons e Loftus (ma anche sulla base di alcuni carteggi del CIC), pare che in questa fase il Vaticano abbia in qualche modo facilitato, attraverso i suoi canali diplomatici e i suoi contatti con l’Austria e la Croazia, l’attività dei krizari. Sempre secondo le testimonianze dei due giornalisti, parte dei finanziamenti necessari per l’addestramento degli ustascia e per la realizzazione delle operazioni da effettuare in Iugoslavia, sembra provenisse da un misterioso tesoro accumulato durate la guerra dagli uomini di Pavelic: tesoro costituito da gioielli e denaro sottratti ad ebrei croati e serbi catturati ed eliminati dagli ustascia tra il 1943 e il 1945. Sembra, infine, che nel 1946 anche la Santa Sede abbia fornito ai krizari un certo quantitativo di denaro. A questo proposito, il responsabile dell’amministrazione di tali beni pare che fosse (ma su questo sussistono dubbi) il colonnello krizaro Drago Marinkovic e non un responsabile del SIS. Sempre secondo il resoconto di Aarons e Loftus, Marinkovic poteva disporre di un ampio potere decisionale e di una notevole libertà di movimento (egli infatti soggiornò parecchi mesi in Italia, tra Trieste, Venezia e Roma, facendo anche alcune visite in Vaticano). Ma non è tutto, i due cronisti arrivano poi a sostenere che parte del traffico - tra l’Italia e l’Austria - delle armi necessarie per equipaggiare i reparti krizari si svolse addirittura con la connivenza della Croce Rossa Italiana. Ipotesi avvalorata – secondo loro - dal fatto che, nel dicembre 1945, in Iugoslavia, padre Ivan Condric e altri quattro preti in contatto con la Croce Rossa vennero arrestati dalla polizia politica con l’accusa di sostenere l’organizzazione sovversiva krizara, venendo successivamente processati e condannati (2). Spiegazione che, tuttavia, non sembra risultare sufficiente a stabilire con certezza una diretta connessione tra Croce Rossa e movimento krizaro. Ciò che risulta vero ed accertato è che fino dall’inizio del 1946, i servizi segreti titini erano effettivamente al corrente delle iniziative britanniche e ustascia ed anche dei voli di ricognizione segreti effettuati periodicamente sul territorio iugoslavo (e albanese) da velivoli anglo-americani. Fonti iugoslave riferiscono, infatti, che nell’agosto del 1946 un paio di misteriosi bimotori da trasporto (decollati probabilmente da un aeroporto austriaco) lanciarono su alcune zone della Slovenia e della Croazia una considerevole quantità di opuscoli anticomunisti, firmati da Ante Pavelic, inneggianti alle gesta dei krizari. E che, tra il 1946 e nel 1947, alcuni reparti di commando krizari provenienti dall’Austria riuscirono ad infiltrarsi (come vedremo più avanti) in Croazia per unirsi a “bande ribelli” già in loco e per compiere con esse atti di sabotaggi o attacchi contro strutture militari titine.

L’operazione Gvardijan

All’inizio del 1947, il Comitato Nazionale Croato, (formato nel 1946 per iniziativa degli ex-ufficiali ustascia Bozidar Kavran e Lovro Susic), si accordò con i britannici per fare passare dall’Austria in Iugoslavia un gruppo di ufficiali addestrati ed equipaggiati con armi leggere ed impianti radio, con lo scopo di stabilire un contatto diretto con i capi di alcune bande krizare che si supponeva fossero operative nelle zone montuose della Croazia settentrionale. Notizia, quest’ultima destinata a rivelarsi però falsa in quanto creata e diffusa ad arte dagli agenti del controspionaggio titino, fermamente decisi a catturare ed eliminare i commando ustascia addestrati in Italia e Austria dai britannici.
Nella fattispecie, questa trappola (chiamata in codice Operazione Gvardijan) venne ideata ed approntata da Ivan Krajacic, un ufficiale comunista croato che durante la Seconda Guerra Mondiale aveva avuto modo di distinguersi per coraggio ed intelligenza. Lo scopo dell’operazione era quello di attirare in Iugoslavia gli alti gradi del Comitato Nazionale Croato e catturarli. Abboccando all’inganno, nel luglio 1947, il maggiore ustascia Bojnik Milos e i sottufficiali Rojnik e Grgic rientrarono segretamente in Croazia attraversando il confine austriaco. Dopo essersi riunito ad un piccolo reparto ribelle realmente esistente ed operante sulle montagne Papuk (vicino a Slavonska Pozega) il gruppo avrebbe dovuto ricongiungersi con una seconda squadra krizara. Tuttavia, nella località prescelta per l’appuntamento il commando non incontrò alcun partigiano, bensì una robusta compagnia della UDB (Unutrasnja Drzavna Bezbednost, le unità della Sicurezza Interna iugoslave) già allertata dal controspionaggio di Belgrado. Milos e un compagno furono subito disarmati ed arrestati, mentre Grgic, che tentò di resistere, venne ucciso. In seguito, utilizzando l’apparecchiatura radio e i cifrari del commando, gli agenti della UDB contattarono la base austriaca dalla quale era partito il gruppo, dando assicurazioni circa la buona riuscita dell’operazione e chiedendo l’invio in Iugoslavia di altri guerriglieri. Alla fine di agosto del 1948, quando l’Operazione Gvardijan ebbe termine, la polizia segreta titina era riuscita ad arrestare ben 96 tra commando e basisti croati, tra cui Bozidar Kavran. Successivamente, tutti i prigionieri furono trasferiti a Zagabria, nel carcere di Savska Ulica, ed infine sottoposti ad un processo che venne celebrato nel 1948 nella stessa città e che si concluse con la condanna di 43 partigiani. Venti di essi (tra cui Ljubo Milos, Ante Vrban, Bozidar Kavran, Mime Rosandic) furono impiccati e altri 23 fucilati; due ebbero l’ergastolo e nove pene detentive dai 15 ai 20 anni.
Nel secondo dopoguerra anche un gruppo abbastanza folto di sloveni anticomunisti costituì all’estero un proprio movimento: iniziativa che venne promossa sotto la leadership militare di Franjo Lipovec  e quella spirituale del vescovo di Lubiana Gregory Rozman, rifugiatosi nel 1945 a Klagenfurt (3). Nel 1945, a Trieste, Lipovec era stato arrestato dagli agenti del SIS e, dopo lunghe trattative, convinto a collaborare con il servizio segreto britannico. Nell’agosto 1946, sembra che Lipovec abbia avuto un incontro con alcuni alti ufficiali del servizio segreto militare italiano (collegato al SIS) che gli proposero anch’essi una sorta di cooperazione. Lipovec accettò e, pare in cambio della consegna di un pacco di documenti riservati, ottenne la protezione e un finanziamento da parte dell’intelligence italiana. Successivamente, forte dell’appoggio britannico e italiano, Lipovec fu lasciato libero di contattare e cooptare diversi esuli sloveni presenti a Trieste, selezionandone alcuni che vennero poi tradotti in un campo militare britannico e sottoposti dagli esperti del SIS ad un ciclo di addestramento militare. Secondo alcune fonti sembra (ma la notizia non è stata mai confermata) che, tra il febbraio e il marzo del 1947, in una imprecisata località dell’Italia nord-orientale, Lipovec e i suoi uomini abbiamo ricevuto in consegna “otto ingombranti carichi, comprendenti 500 armi automatiche, circa 4.000 granate a mano, 100 pistole e più di 30 bombe a orologeria, forniti dai servizi segreti italiani”. E che tale ingente carico sia stato poi trasferito da Trieste in Austria con mezzi britannici. Secondo la documentazione raccolta da Aarons e Loftus, pare inoltre che a Trieste, il professor Ivan Protulipac (un uomo di padre Draganovic) fungesse da collegamento tra i partigiani sloveni e i gruppi sloveni krizari presenti in Italia (verso la fine del 1946, Protulipac verrà assassinato a Trieste da agenti titini).
Secondo i due autori di Ratlines, fu proprio grazie a questa organizzazione che nel 1946 i commando sloveni riuscirono ad effettuare alcune missioni segrete in Slovenia per unirsi con i locali (ma in realtà inesistenti) gruppi partigiani anticomunisti. Ma a questo riguardo, stando ai documenti del SIS, la verità sembra però un’altra. Soprattutto per quanto concerne l’esistenza o meno di gruppi partigiani sloveni attivi in territorio iugoslavo. Fonti britanniche riportano, infatti, con dovizia di particolari che a partire dal luglio del 1945, in alcune zone montuose della Slovenia, si formarono effettivamente diverse bande di combattenti, composte soprattutto da ex-ufficiali e soldati delle formazioni “bianche” scampati ai massacri perpetrati nel maggio-giugno 1945 dalle milizie comuniste titine. Si trattava, in verità, di piccoli manipoli composti ciascuno da non più di una quindicina di uomini, per una forza complessiva di circa 650 elementi.
Il primo inverno di lotta, quello tra il 1945 e il 1946, vide questi nuclei, abbastanza male organizzati ed equipaggiati, compiere alcuni, riusciti colpi di mano contro piccoli presidi della polizia politica iugoslava: gesta queste che fruttarono comunque ai partigiani sloveni una certa notorietà tra la popolazione locale, suscitando anche molta apprensione nel controspionaggio di Belgrado. La segreta speranza che animava questi uomini era che i governi di Londra e di Washington entrassero, prima o poi, in rotta di collisione con il governo comunista di Belgrado: ipotesi che, nell’estate del 1946, venne avvalorata da alcune iniziative segrete condotte dall’aviazione anglo-americana nei Balcani.
Nella primavera del 1946, un paio di squadriglie speciali dell’USAF e della RAF, di base in Austria, Germania Occidentale e - forse - Italia, effettuarono una missione sui cieli della Slovenia (oltre che della Croazia e della Bosnia), paracadutando anche alcuni agenti aventi il preciso compito di contattare i locali gruppi ribelli sloveni (ma anche cetnici) e di valutarne la reale consistenza e le capacità combattive. Poco si sa circa gli effettivi risultati di queste operazioni di intruding. Anche se, nell’agosto del 1946, fu la stessa stampa iugoslava a darne notizia, citando il presunto abbattimento nel cielo di Bosnia da parte della caccia di Belgrado di un bimotore da trasporto Douglas C47 Dakota privo di insegne. Secondo forti inglesi e iugoslave, sembra che nel settembre del 1946, unità di fuoriusciti sloveni rientrarono clandestinamente in Iugoslavia per unirsi alle bande anticomuniste operanti nella regione di Gorenjska, nel nord-ovest del paese, proprio dove nel 1942 la Gestapo aveva creato un reparto (l’Oberkrainer Selbstschutz) composto da elementi locali e adibito alla difesa territoriale. Nel luglio 1946 alcuni ex-appartenenti (circa un centinaio) a questa formazione collaborazionista sarebbero risultati ancora attivi attorno alla città di Kranj; mentre un altro contingente di 200 uomini, al comando dell’ex-ufficiale delle SS Andrei Noc, avrebbe agito nelle foreste della zona montagnosa della Mezakla, proprio a ridosso del confine austriaco. Fonti serbe posteriori al 1995 riferiscono che più a sud, lungo la catena Pokluka, un reparto di circa 60 ex-membri della Guardia Nazionale Slovena (un’altra nota compagine collaborazionista) abbia effettuato alcuni attacchi contro isolate caserme iugoslave, costringendo la polizia e le forze speciali titine ad intervenire. Stando alle informazioni raccolte nell’autunno 1946 dallo spionaggio statunitense e britannico, pare inoltre che un altro gruppo di circa 40 ribelli sloveni sia rimasto per molte settimane annidato lungo il confine austriaco con il compito di mantenere legami con i fuoriusciti intenzionati a rientrare in patria per combattere il nuovo regime. Questo raggruppamento operò nei pressi del fiume Sava, attorno alla città di Radovljica, in sintonia con un secondo contingente di 50 uomini accampato nei boschi che circondano la città di Kranj. A dimostrazione della determinazione che animava questi nuclei combattenti della Iugoslavia del nord, basti pensare che nell’agosto del ‘46, nei pressi di Trzic, località a nord di Kranj, un contingente di 70-80 partigiani armati di fucili, mitragliatori e bombe a mano diede battaglia ad un reparto di 80 soldati regolari iugoslavi appartenenti alle Forze di Sicurezza, costringendolo alla fuga.
Nonostante i (limitati) successi riportati, a partire dal settembre 1946 i ribelli sloveni subirono una serie di duri colpi da parte delle forze speciali e dell’esercito iugoslavi che, verso la fine dell’estate avevano dispiegato non meno di 50.000 tra soldati e agenti di polizia per venire a capo della questione. Secondo rapporti ufficiali dell’Armata iugoslava, tra l’agosto del 1945 e il settembre del 1946, vennero catturati o eliminati circa 2.900 sloveni, più alcune altre migliaia di guerriglieri cetnici e appartenenti ad altre minoranze (4). Pressati dalle forze governative, nel dicembre 1946 gli ultimi gruppi di ribelli sloveni (ridotti a poche centinaia di uomini in tutto) dovettero arrendersi, venendo poi processati ed in gran parte condannati alla pena capitale.

Note a Croazia e Slovenia:

(1) Tra il 1941 e il 1945, padre Draganovic parteggiò per il governo di Ante Pavelic. Nel dopoguerra questo discusso prelato si adoperò sia per favorire la fuga all’estero di molti ustascia sia per appoggiare il movimento dei krizari.

(2)     Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, le autorità di Belgrado condannarono a morte 255 preti cattolici accusati di avere collaborato con gli ustascia. Queste sentenze furono pubblicamente denunciate (assieme ad altre nefandezze compiute dal regime titino, come la chiusura di molte chiese e l’abolizione di qualsiasi libertà individuale) dall’arcivescovo di Zagabria Luigi Stepinac che in passato non aveva avuto problemi nel criticare aspramente l’operato delle forze di occupazione naziste, fasciste e quelle del leader croato Ante Pavelic. Il 18 settembre 1946, Stepinac fu incarcerato e sottoposto ad un processo scandaloso al termine del quale, l’11 ottobre 1946, venne condannato a 16 anni di prigione. Stepinac fu spedito al carcere di Lepoglava dove, fino al 1951, rimase segregato in una cella di quattro metri quadrati. In seguito alle ripetute proteste del Vaticano e di alcuni leader del mondo occidentale, Tito si venne a trovare in serio imbarazzo, decidendo infine di offrire al prelato la libertà in cambio del riconoscimento delle sue presunte colpe. Ma Stepinac rifiutò, preferendo rimanere in carcere. Il 12 gennaio 1953, Pio XII lo nominò cardinale, ma poco tempo dopo Stepinac si ammalò gravemente. Dopo lunghe sofferenze fisiche e morali (durante il carcere la famiglia di Stepinac fu perseguitata e isolata) il 10 febbraio 1960 il cardinale si spense. E nonostante i mille ostacoli posti dal regime comunista, al suo funerale, svoltosi a Zagabria, parteciparono migliaia di persone.

(3)     Durante la seconda guerra mondiale, in assenza del vescovo di Lubiana Miha Krek, Gregory Rozman si era assunto la responsabilità del Partito Clericale Sloveno, stabilendo contatti sia con i fascisti italiani sia con le forze naziste.

(4)     Fino alla fine di aprile del 1945, le forze cetniche agli ordini del generale Draza Mihailovic continuarono la loro lotta. Ma in seguito alla resa tedesca (8 maggio 1945), il leader fu costretto a ritirarsi con i suoi ultimi reparti nelle zone più montagnose del paese per tentare un’ultima disperata resistenza che si protrasse ancora per diversi mesi. Secondo fonti di Belgrado, nell’ottobre 1945, circa 12.000 “ribelli” anticomunisti (tra cui sloveni, croati, ballisti albanesi, cetnici ed appartenenti ad altre minoranze), risultavano ancora operativi in diverse zone del paese. Nel marzo 1946, grazie ad uno stratagemma, le forze speciali dell’OZNA (il servizio di controspionaggio creato da Tito nell’aprile 1943) riuscirono a catturare il capo cetnico che nel luglio dello stesso anno fu condannato a morte: evento che tuttavia non impedì ai ribelli di continuare la guerriglia contro il regime di Tito.
Nel 1946, il maggiore Racic liberò da elementi comunisti la regione di Ljubovoja, sottoponendola al suo controllo fino al 1947, mentre nell’area di Banja Luka altri gruppi cetnici combatterono per tutto il 1947 (il leader Lazar Tesanovic venne ucciso proprio in questa zona). In Erzegovina, un altro nucleo armato rimase attivo fino al 1948. E sulle montagne Velebit, sul confine fra Lika e Dalmazia, il comandante Odbrad Bijanko resistette con il suo gruppo fino al 1950, anno in cui scoppiò in Macedonia una rivolta cetnica che ingenti forze titine dovettero soffocare nel sangue onde evitare che essa si propagasse ad altre regioni.

Bibliografia Croazia e Slovenia:

-       Mark Aarons e John Loftus, Ratlines, Newton Compton, 1993
-       La Campagna di Iugoslavia - Aprile 1941-Settembre 1943. Collana Immagini di Storia. Testo di Francesco Fatutta, Italia Editrice, 1996
-       CIA File: Organization of the Ustase Abroad October 1946: Krunoslav Draganovic mentioned as one of the chief Ustase operatives in post-war Europe
-       US Army File: CIC Memorandum from Agent Gowen, January 22, 1947: Investigation of Ante Pavelic’s Vatican Sanctuary; First Appearance of Draganovic by name in the Army dossier
-       US Army File: Rome Area Allied Command to CIC
-       US Army File August 8, 1945: Mention of “San Gerolamo” as a Haven for Ustase in Rome Just a Few Months After VE-Day.
-       Robert M. Kennedy, German Anti-Guerrilla Operations in the Balkans, Washington DC, 1954
-       David Martin: Patriot or Traitor: The Case of General Mihailovich, Stanford, CA, 1978
-       Mark Aarons, Sanctuary: Nazi Fugitives in Austria, Melbourne, 1989