lunedì 20 maggio 2019

LA CINEMATOGRAFIA ITALIANA DI GUERRA, 1940-1943. Di Alberto Rosselli.


Amedeo Nazzari


LA CINEMATOGRAFIA ITALIANA DI GUERRA
1940-1943

di Alberto Rosselli

Tra il 10 giugno 1940 e l’8 settembre 1943, la cinematografia italiana, al pari di quelle degli altre nazioni in guerra, iniziò ad occuparsi del conflitto in atto con una serie di produzioni che, tuttavia, risultarono numericamente inferiori rispetto ad altri generi. Come conferma il critico e storico del cinema Paola Olivetti, “nel periodo bellico non si può certo dire che i film di guerra facciano la parte del leone (…) al contrario ne costituiscono una piccolissima parcella, pressappoco il due o il tre per cento”. Comunque sia, la produzione ebbe modo di caratterizzarsi grazie ad un suo preciso equilibrio di scelte e di interventi, utile per ‘coprire’ tutti, o quasi, i teatri di guerra. Abbiamo, infatti, vicende ambientate  sul fronte africano settentrionale (vedi Bengasi e Giarabub), su quello greco-albanese (Un pilota ritorna, I trecento della settima e Quelli della montagna) e su quello russo (L’uomo dalla croce). Nel contempo esse focalizzano il ruolo svolto da tutte e tre le Armi: La Regia Marina (MAS, Alfa Tau e Uomini sul fondo), la Regia Aeronautica (Un pilota ritorna e I tre aquilotti), il Regio Esercito (Bengasi, Giarabub, L’uomo dalla croce, I trecento della Settima e Quelli della montagna).
         Contestualmente, alcuni registi optano per narrazioni ambientate su un teatro ormai chiuso, quello spagnolo (la Guerra Civile Spagnola terminò il 1° aprile 1939 con la vittoria franchista), proponendo soggetti, non di rado interessanti, su questa sanguinosa, drammatica e lunga disputa bellica. Iniziamo con Carmen fra i rossi (1939) di Edgar Neville, vicenda di una giovane falangista che, in una Madrid ancora in mano rapubblicana, trasmette via radio informazioni agli assedianti, tra i quali si trova il suo fidanzato. Per poi passare al più riuscito e famoso L’assedio dell’Alcazar (1940) di Augusto Genina e al modesto Redenzione (1942) che Roberto Algani sviluppò da un soggetto del gerarca Roberto Farinacci.
         Al di là di alcuni accenti retorici, L’assedio dell’Alcazar  si rivela un buon film di guerra che ricalca abbastanza fedelmente una storia vera, cioè le vicissitudini dell’isolata guarnigione franchista di Toledo, comandata dal colonnello José Moscardò Ituarte che, dal 20 luglio al 28 settembre del 1936, riuscì a resistere agli attacchi condotti di preponderanti forze repubblicane, venendo infine liberata dalle truppe falangiste. Nella ricostruzione degli avvenimenti, l’opera ripropone lo svolgersi dei fatti attraverso belle scene di guerra e mediate una narrazione epica, ma anche calibrata sotto il profilo del pathos. Per il critico Antonio Costa, L’assedio dell’Alcazar “rappresenta un caso particolare nell’ambito del cinema del periodo fascista. Il fatto che storici e critici che si sono occupati negli ultimi decenni di questo periodo lo abbiano conosciuto nella riedizione del ‘56, depurata dai riferimenti più vistosamente propagandistici, ha probabilmente contribuito ad un giudizio più attento alle sue qualità cinematografiche e spettacolari. A questo si può aggiungere che la lunga carriera di Genina, che si è svolta lungo un arco di tempo che va dagli anni Dieci agli anni Cinquanta, ha garantito alla sua opera, indipendentemente dai giudizi sulla sua compromissione con il regime fascista, attenzione e rispetto da parte di studiosi e cinefili”. Nel settembre del 1940, L’assedio dell’Alcazar venne presentato alla Mostra di Venezia, dove venne acclamato, anche dalla critica internazionale, come il film bellico tecnicamente meglio riuscito di quel decennio. L’Assedio dell’Alcazar è un film che ci ha sbalorditi; un’opera grandiosa, senza alcun spunto di propaganda e di politica di partito” (Paul Marteaux, Nouveau Journal, Parigi, 7/10/1940). “Raramente nella mia lunga carriera di critico ho visto un film così obiettivamente apprezzabile come L’Alcazar” (Laslo Csakyi, Magyarorzag, Budapest, 18/10/1940). E ancora: “Un film potente, verosimile, antiretorico, L’Alcazar segna una tappa fondamentale per il futuro del cinema europeo” (Fritz Lampe, Berliner Illustrierte, Berlino, 3/9/1940). Non per nulla la pellicola vinse la Coppa Mussolini come migliore film italiano, dando a Genina la soddisfazione di bissare il successo ottenuto nel 1936 con Squadrone bianco. Il giovane ferrarese Michelangelo Antonioni, che a quel tempo scriveva su ‘Cinema’, definì L’assedio dell’Alcazar “un film scabro, robusto, con scene da non dimenticare”, come ad esempio quella relativa al drammatico (e realmente accaduto) colloquio telefonico tra il colonnello Moscardò e suo figlio catturato dai repubblicani e poi fucilato, o quella (probabilmente inventata) del matrimonio in articulo mortis tra la giovinetta Conchita e il soldato falangista Francisco. Curiosamente, le uniche critiche (politiche, non tecniche) alla pellicola di Genina furono formulate dal patron del cinema italiano, cioè da Luigi Freddi. “Siamo proprio sicuri – si domandò Freddi - che gli spagnoli abbiano interesse a tornare con la memoria su episodi (così cruenti e divisori) della Guerra Civile?”.
         Nel 1943, il teatro spagnolo servirà ancora da spunto per un ultimo film: Inviati speciali di Romolo Marcellini (sceneggiatura di Ennio Flaiano), interpretato da Otello Toso e Maurizio D’Ancora. La trama in breve. Durante la Guerra civile, un gruppo di giornalisti italiani è sul posto. Uno di essi si innamora di una fanciulla che egli crede una collega. Fatto prigioniero dai miliziani comunisti, l’italiano viene salvato dalla donna che nel frattempo si è però rivelata una spia. Dopo la vittoria delle forze franchiste, sarà il giornalista, ormai libero, a salvare la ragazza che tuttavia, per una sorta di catarsi, andrà incontro ad una  tragica morte.
         Sempre nel 1943, in piena battaglia difensiva di Tunisia e  mentre l’Ottava Armata italiana in Russia si dissolve in seguito alla lunga ritirata d’inverno, il sardo Mario Bàffico dirige I trecento della Settima, un film di guerra interpretato da attori non professionisti reclutati dal 1° e 2° reggimento alpini. La storia è ambientata in Albania e narra le vicende di una compagnia di alpini alla quale viene affidato il compito di conquistare e tenere un valico: operazione che riesce, ma che comporta la morte del comandante italiano. I trecento della Settima non riscuote grande successo né di pubblico né di critica, in quanto il regista non sembra essere stato in grado di dirigere e sfruttare al meglio il materiale umano a disposizione. Anche se Bàffico va comunque lodato per una sincera e apprezzabile ricerca di autenticità e per il tono sobrio utilizzato nel narrare la vicenda. E il che non è poco, trattandosi di un film di guerra a sfondo propagandistico.
         Nel suo complesso, tra il 1940 e il 1943, Cinecittà riuscì a sfornare dignitosi se non buoni film storici e bellici, come 1860 di Blasetti e Uomini sul fondo (1941), la prima pellicola di Francesco De Robertis, ufficiale di marina ‘prestato’ al cinema. Girato esclusivamente in interni e senza attori professionisti, Uomini sul fondo narra senza enfasi retorica, ma con realismo, l’avventura dell’equipaggio di un sommergibile italiano, l’A-103 (sigla di fantasia), arenatosi ad 80 metri di profondità durante un’esercitazione. La pellicola, di taglio documentaristico, è caratterizzata da un linguaggio secco e corale. Secondo il parere di alcuni critici, Uomini sul fondo racchiuderebbe sia sotto il profilo della scrittura che della narrazione scenica alcune peculiarità neorealiste, anche se al riguardo per taluni studiosi come Giuseppe Rausa sussisterebbero non pochi dubbi.
         Uomini sul fondo risulta in ogni caso un film che ha come scopo quello a mettere in risalto la compattezza morale dei marinai delle unità italiane impegnati in una guerra dagli esiti alterni e spesso assai poco felici: da ricordare il devastante attacco aereo inglese contro la base navale di Taranto della notte tra l’11 e il 12 novembre 1940, il bombardamento navale, sempre britannico, di Genova dell’11 febbraio del 1941, e la sconfitta subita dalla nostra flotta a Capo Matapan il 27 marzo dello stesso anno. La vicenda del sommergibile narra soprattutto un’atmosfera, quella della serena collaborazione di tutti i marinai e dell’intera popolazione (…) De Robertis dipinge una comunione di un popolo pronto alle sfide più alte; e lo fa con accenti sobri, mostrando il volto di gente comune, felice di essere coinvolta in una sacra missione. L’ambiguità del cinema è qui tutta presente: esso mente, sotto le spoglie del rigoroso documentario. E in tal senso Uomini sul fondo anticipa tutta la poetica neorealista, nella quale l’accurata verosiglianza nasconde l’ideologia”  (Rausa).
         Sempre di De Robertis è un’altra epopea marinaresca, Alfa Tau, pellicola anch’essa documentaristica prodotta dal Centro Cinematografico del Ministero della Marina. L’opera, proiettata alla Mostra di Venezia nel settembre del 1942, rispecchia con sorprendente sincerità la reale situazione bellica e sociale del paese. “Mentre il mondo culturale comincia a prendere le distanze dal regime – annota sempre Rausa - De Robertis firma un film fascista e patriottico di assoluta lealtà”, serio nei contenuti e forse tecnicamente migliore di Uomini sul fondo. Ciononostante, nel dopoguerra, a causa del suo taglio ideologico, Alfa Tau verrà - al contrario di Uomini sul fondo – volutamente dimenticato dalla critica. La trama del film. Il sottomarino italiano Toti rientra alla base e dopo una breve sosta riparte per una nuova missione nel corso della quale il battello affronta combattimenti aerei e navi nemiche. Dopo alterne e ben descritte vicende, il sommergibile tricolore riesce a silurare e a colare a picco un’analoga unità britannica, facendo poi ritorno in patria.
         Chiude la rassegna dedicata alla Regia Marina Italiana impegnata nella Seconda Guerra Mondiale, MAS (1942) di Romolo Marcellini (con Andrea Checchi e Luigi Pavese), dedicato alle gesta degli equipaggi dei famosi mezzi siluranti veloci.
         Con 1860, Blasetti compie invece un lungo viaggio a ritroso nel tempo, fino all’epoca risorgimentale, affrontando la spedizione dei Mille in Sicilia sotto un profilo inedito. Il regista mette, infatti, in risalto la partecipazione dei contadini siciliani al riscatto unitario, proponendo quindi un’interpretazione popolare e populista dell’impresa garibaldina: il tutto con l’obiettivo di superare le diffidenze del fascismo nei riguardi di un processo storico, quello appunto risorgimentale, considerato troppo élitario e borghese e quindi in contrasto con lo spirito rivoluzionario del regime. Attraverso tale accorgimento il regista tentò di stabilire, seppure arbitrariamente, una continuità tra i supposti fermenti rivoluzionari risorgimentali e la rivoluzione fascista. Stratagemma che, tuttavia, non impedì a Blasetti di mettere a punto una buona produzione, dedicata anche alla riscoperta di aspetti e peculiarità di un paesaggio geografico e soprattutto umano intriso di caratteri e umori ruspanti e dialettali, messi in evidenza da un realismo fotografico e narrativo essenziale e asciutto. Nell’edizione messa in circolazione dopo il 1945, il finale del film (coronato da un abbraccio ideale, ma fantasioso, tra le camice ‘rosse’ e quelle ‘nere’ fasciste) verrà naturalmente tagliato.
         E veniamo ora alle opere del giovane Rossellini. Nel 1941, grazie all’aiuto di Francesco De Robertis, ai mezzi del Centro Cinematografico del ministero della Marina Militare e al denaro fornito dalla Banca del Lavoro, Rossellini aveva diretto La nave bianca, riuscendo a centrare un duplice obiettivo: primo, non dispiacere al regime, sottolineando la tenuta morale e fisica dei nostri combattenti di mare; secondo, mettendo in evidenza le doti umane e cristiane del militare italiano (vedi le numerose scene relative alle amorevoli cure dedicate ai feriti a bordo della nave ospedale, cioè la ‘nave bianca’) e quindi accattivandosi le simpatie della Chiesa. “La nave bianca è comunque un buon film, corale, recitato da marinai e ufficiali autentici (…) in cui il regista perfeziona la poetica ad un tempo realistica e patriottica di Uomini sul fondo, ravvivandola con un soggetto più articolato”. (Rausa). Per la cronaca, la pellicola, che sempre nel 1941, a Venezia, venne premiata con la coppa del Partito Nazionale Fascista venne interpretata dagli ufficiali e dai marinai della nave ospedaliera Arno, da quelli di un’imprecisata unità da guerra e dalle volontarie del Corpo infermiere.
         Sempre facente parte della trilogia “bellica” di Rossellini, si segnala Un pilota ritorna (1942) “Il film, basato su un soggetto di Vittorio Mussolini (che per l’occasione utilizzò il suo usuale pseudonimo Tito Silvio Mursino) e su una sceneggiatura alla quale collaborarono diverse persone (tra le quali il giovane Michelangelo Antonioni), pur abbandonando in parte il rigoroso realismo de La nave bianca, si mantiene comunque all’interno di una scrittura sobria e attenta alla verosimiglianza, senza accenti propagandistici, come conferma anche la critica dell’epoca. “Un pilota ritorna è un film senza retorica e che non tende a demonizzare il nemico: da notare l’umanità con cui sono ritratti i personaggi e gli ambienti avversari” (Guido Piovene, ‘Il Corriere della Sera’, 18/4/1942). “Diviso (come Alfa Tau) in tre parti, Un pilota ritorna vanta poi magnifiche riprese aeree di taglio documentaristico nella prima sezione e nell’epilogo, e un’accurata ambientazione(Rausa).
Abbiamo accennato che durante il Secondo Conflitto anche il fronte di terra venne più volte ‘visitato’ dai nostri registi, come ad esempio Augusto Genina con il suo Bengasi (1942): una grossa produzione (50.000 metri di pellicola negativa e 80.000 di positiva), che vide il coinvolgimento di circa 25.000 comparse, centocinquanta autocarri, cinquanta carri armati e una dozzina di aerei. Tra gli interpreti, Amedeo Nazzari, Vivi Gioi e Fosco Giachetti.Bengasi – sostiene Rausa - è un prodotto propagandistico ben confezionato, adatto alle necessità del regime, che infatti lo premia a Venezia, preferendolo al certamente migliore Alfa Tau!. Nel suo dipingere gli inglesi come un’orda barbarica e nel suo distorcere gli eventi più drammatici, calandoli in un’atmosfera di sostanziale ottimismo, il lavoro di Genina cerca di suscitare nel pubblico uno sdegno attivo; è insomma un buon esempio di quella religione laica della patria costantemente rinnovata con ogni mezzo mediatico dal regime fascista. Non a caso la produzione venne lodata dalla critica del tempoCome ne L’Assedio dell’Alcazar, anche qui Genina dà di dieci, venti personaggi il volto di un solo personaggio che sia agita, soffre e combatte al riflesso di una intera popolazione”. (F. Sarazani, ‘Il Giornale d’Italia’, 25 ottobre 1942). Nel ‘42, a Venezia, Bengasi ottenne la Coppa Mussolini e Fosco Giachetti si guadagnò la Coppa Volpi quale migliore attore. Una curiosità: nel 1955, Carlo Marco Bossoli produrrà una nuova versione del film (Bengasi anno ‘41) con Gabriele Ferzetti.
         Sempre per rimanere nel filone dedicato all’esercito impegnato in ambito nordafricano, nel 1942 Goffredo Alessandrini diresse Giarabub, interpretato da Carlo Romano, Carlo Ninchi e da Doris Duranti. Il film ricalca anch’esso, come L’Assedio dell’Alcazar, un episodio bellico realmente accaduto: l’eroica ma vana resistenza dell’isolata guarnigione italiana dell’oasi libica di Giarabub, che dal 10 dicembre 1940 al 21 marzo 1941, al comando del maggiore Salvatore Castagna, resistette ai ripetuti attacchi delle brigate blindate e dell’aviazione inglesi. Pur ascrivendosi al filone bellico-patriottico, Giarabub, che soprattutto nei dialoghi gronda di troppa retorica, sotto il profilo dell’azione si rivela invece un buon film, curato nei dettagli e a tratti addirittura emozionante.
         Nel 1942, anche Mario Mattoli, regista specializzato in film leggeri o comici, si adegua al clima bellico e gira I tre aquilotti (soggetto di Vittorio Mussolini - Tito Silvio Mursino). La pellicola, che viene proiettata fuori programma a Venezia, è incentrata sulle vicende di tre giovani ufficiali dell’Accademia aeronautica di Caserta impegnati nel conseguimento dell’agognato brevetto di pilota. I tre amici (interpretati da Alberto Sordi, Leonardo Cortese e Carlo Minello) fremono per potere andare a combattere, ma ad un certo punto la sorella di uno di loro li divide. I tre aquilotti segnò la terza esperienza cinematografica di Sordi dopo La notte delle beffe (1940) e Cuori nella tormenta (1941), diretti entrambi da Carlo Campogalliani.
Nel 1942, il regista Marcello Albani ripesca invece un dramma scritto dal gerarca Roberto Farinacci e ne ricava un film assai modesto, Redenzione. La storia che - sulla falsariga di Camicia nera di Forzano e Vecchia guardia di Blasetti, appartiene al genere propagandistico-ideologico - è quella di un militante comunista che, dopo avere compreso l’assurdità della sua fede politica, decide di indossare la camicia nera, immolandosi per la causa fascista. Dato il razionamento dell’energia elettrica, quasi totalmente destinata all’industria, Albani fu costretto a girare l’intero film solo di giorno. Sembra poi che alla prima, Alessandro Pavolini, uomo di apparato, ma dotato, come è noto, di ottima cultura ed intelletto, si sia contorto sulla poltrona, visibilmente imbarazzato dall’insoddisfacente pellicola.
         Nell’autunno del 1942, proprio quando le sorti della campagna di Russia stavano volgendo al peggio, Carmine Gallone decise di tentare di sollevare il morale delle forze italiane e rumene impegnate nella steppa dirigendo Odessa in fiamme. Il film - interpretato, tra gli altri, da Maria Cebotari, Carlo Ninchi e Rubi D’Alma, e sceneggiato da Gherardo Gherardi e a Niculai Kiritescu - venne girato parte a Cinecittà e parte in Romania. La trama. Siamo nel 1940 e i sovietici (sulla base del patto Ribbentrop-Molotov del 23 agosto del 1939) occupano militarmente la Bessarabia romena, proprio quando una famosa cantante rumena si trova per lavoro lontana da casa, mentre suo marito, un perdigiorno vizioso, se la spassa nella capitale Bucarest. A complicare le cose, il figlio dei due viene catturato dall’Armata Rossa e la donna, nel tentativo di riottenerne la libertà, si mette a cantare per allietare le truppe ‘rosse’. Passa però non molto (siamo nel frattempo giunti alla fine di giugno del 1941) e le forze dell’Asse, incluse quelle romene, attaccano l’Unione Sovietica. A questo punto, il marito - che finalmente ha messo la testa a posto - si arruola nell’esercito e con esso va alla conquista di Odessa, salvando la moglie, il figlio, una torma di fanciulli e, naturalmente, il suo onore. Il film, decisamente mediocre, non ottenne grande successo e soprattutto non portò alcuna fortuna alle armate dell’Asse impegnate sul Caucaso, sul Don e sul Volga. Infatti, pochi mesi dopo la sua uscita, il 2 febbraio 1943, a Stalingrado, gli ultimi reparti della VI armata del generale von Paulus arresero ai russi e quasi simultaneamente le armate romene, ungheresi e italiane vennero praticamente annientate ad ovest della linea del Don.
         Durante il fatidico 1943, De Robertis decise di spostarsi dal mare all’aria dirigendo il poco convincente Uomini e cieli. La pellicola, interpretata come al solito da attori non professionisti scelti questa volta tra il personale della Regia Aeronautica, racconta le vicende di quattro piloti e amici di antica data. I due più valorosi e convinti, Renzi e Varna, restano feriti e  mutilati, mentre Nurus, il nobile protagonista, decide invece di continuare a battersi nei cieli, mentre il gretto Taddei appena può lascia la squadriglia per dedicarsi agli affari. “In Uomini e cieli l’esaltazione del sacrificio, l’aprioristico disprezzo delle pur necessarie attività commerciali, l’esaltazione della vita semplice, rurale e delle gioie familiari suonano completamente falsi, all’interno di uno schema semplificato e puramente ideologico di contrapposizione tra bene e male. In questo senso De Robertis non ritrova il sentimento umanamente sincero e l’audace e articolata pittura realistica di Alfa Tau” (Rausa)
         Sempre nel ‘43, nonostante la protezione e l’aiuto di Vittorio Mussolini, Rossellini incespica e firma L’uomo della croce, (interpretato tra gli altri da Alberto Tovazzi, Roswita Schmidt, Alberto Capozzi e Doris Hild): un confuso dramma guerresco ambientato sul fronte russo, ispirato alla vita di padre Reginaldo Giuliani. Il lavoro è permeato da un pacifismo di fondo che strizza l’occhio alla Chiesa cattolica vista dal regista come unica salvezza per un’umanità insidiata dal bolscevismo aeteo. Nell’estate del 1942, in un’isba situata tra le due linee e martellata dalle artiglierie italiane e sovietiche, si trovano ammucchiati contadini russi tra cui donne e bambini, militari delle due parti, un commissario sovietico e un cappellano italiano che, alla fine, è ucciso mentre soccorre un carrista russo moribondo. Secondo il critico e sceneggiatore francese Nino Frank (ricordiamo il suo apporto come sceneggiatore in due cooproduzioni italo-francesi del tempo di guerra: la Bohème, di Marcel l’Herbier, del 1942, e Service de nuit, 1943, di Jean Faurez e Belisario Randone) in L’uomo della croce, film retorico e troppo spaccato tra documentario e fiction, il critico riscrontrerebbe un’eccessiva inclinazione di Rossellini “a rappresentare il drammatico attraverso il non drammatico, l’eroismo attraverso il non eroismo, la propaganda attraverso la non propaganda”. Per la realizzazione della pellicola, Rossellini si avvalse della collaborazione del giornalista e scrittore fascista Asvero Gravelli, già soggettista e sceneggiatore di Giarabub (1942) e direttore del noto mensile Antieuropa, fondato nel 1929.
Al termine delle riprese di L’uomo della croce, Roberto Rossellini si sentirà obbligato ad inviare al primogenito del duce due righe di ringraziamenti per i “suoi saggi consigli” e addirittura “una sua fotografia con dedica: ‘A Vittorio Mussolini, adorabile amico e insuperabile padrone’” (Michele Sakkara e Mario Morani).
         Passiamo ora ad un’altra produzione aviatoria, Gente dell’aria (1943) di Esodo Pratelli, interpretato da Gino Cervi, Antonio Centa, Antonio Gandusio e Paolo Stoppa. Il film, tratto da un soggetto di Bruno Mussolini (capitano pilota della Regia Aeronautica e medaglia d’oro al valore militare nel 1942, morto in seguito ad un incidente aereo), narra le vicende di due fratelli, uno dei quali aviatore, che si innamorano della stessa ragazza. La rivalità tra i due sfocia nell’odio e soltanto quando il fratello rimasto a terra partirà per la guerra, il risentimento avrà modo di placarsi. Tra gli sceneggiatori del film, il critico teatrale Renato Simoni. Secondo Morando Morandini Gente dell’aria è “un inno all’aviazione del tempo fascista, seppure non privo di garbo e pudore. Patriottico con la sordina”.
         Concludiamo la sezione bellica con una seconda coproduzione italo-romena abbastanza curiosa, Squadriglia bianca (1942), diretto da Jon Sava, sceneggiato da Vera Zuccotti e interpretato da Mariella Lotti e Claudio Gora, e con un giallo-militare, Spie tra le eliche (1943) di Ignazio Ferronetti. Squadriglia bianca narra le vicende di un gruppo di ardimentose crocerossine che decidono di frequentare una scuola di pilotaggio a Bucarest. Ottime le sequenze aeree girate in Romania, e molto diluito il substrato di propaganda che doveva sorreggere la pellicola. Spie tra le eliche (interpretato, tra gli altri, da Enzo Fiermonte ed Eugenia Zaresca) racconta invece il tentativo da parte di alcuni agenti segreti inglesi di carpire i segreti di un nuovo modello di velivolo militare italiano. Si tratta di un prodotto abbastanza emozionante con inseguimenti, scazzottate, sparatorie, battaglie e finale nel quale il ‘nemico’ viene sgominato. Nel dopoguerra, la pellicola verrà rimessa in circolazione con grossolani tagli e manipolazioni dei dialoghi. Tra le produzioni di guerra e storiche iniziate e, per motivi diversi, mai completate, segnaliamo I quattro di Bir el Gobi (1942) di Giuseppe Orioli; La carica degli eroi (1943) di Anton Giulio Majano e Piazza San Sepolcro (1943) di Giovacchino Forzano.

FINE

BIBLIOGRAFIA

A. Rosselli – B. Pampaloni, Il Ventennio in Celluloide, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2005
C. Carabba, Il cinema del ventennio nero, Vallecchi, Firenze 1974
R. Redi (a cura di), Cinema italiano sotto il fascismo, Marsilio, Venezia 1979 (atti di un Convegno tenutosi ad Ancona nel 1976)
G.M. Gori, Patria Diva. La storia d’Italia nei film del ventennio, La Casa Usher, Firenze 1988
G.P. Brunetta-J.A. Gili, L’ora d’Africa del cinema italiano, Materiali di lavoro, Trento 1990
M. Argentieri, Il cinema in guerra. Arte, comunicazione e propaganda in Italia 1940-1944, Editori Riuniti, Roma 1998
A. Sardi, Cinque anni di vita dell’Istituto Nazionale L.U.C.E., Roma, Istituto Nazionale Luce, 1929
P. Brunetta, Storia del cinema italiano, vol. II, Il cinema del regime 1929-1945, Editori Riuniti, Roma 1993
R. Redi, Cinema italiano sotto il fascismo, Marsilio, Venezia 1979

sabato 18 maggio 2019

L’ISIS, IL FONDAMENTALISMO ISLAMICO E LA ‘DEBOLEZZA’ CULTURALE E RELIGIOSA DELL’OCCIDENTE, di Alberto Rosselli.







L’ISIS, IL FONDAMENTALISMO ISLAMICO E LA ‘DEBOLEZZA’
CULTURALE E RELIGIOSA DELL’OCCIDENTE

di Alberto Rosselli

Per comprendere le origini, l’eziologia e la genesi storica del terrorismo fondamentalista islamico (dall’organizzazione Al Qaeda all’Isis), occorre rivisitare e comprendere - seppure sinteticamente, ma con la dovuta chiarezza - la storia e la natura dell’islam stesso e i suoi fondamenti religiosi, culturali e politici.        La religione islamica consiste in fede (al-iman) e pratica (al-din). Ogni musulmano, uomo o donna, è tenuto ad osservare (pena una sanzione morale o materiale) i doveri posti dalla sharia (sharī’a, cioè “la strada giusta” e, alla lettera, “via [diritta] rivelata da Dio”, ma si può anche tradurre con “legge divina”), un corpo di norme che serve a guidare l’intera vita di un fedele, tanto che in essa convivono regole teologiche, morali, rituali e quelle che per noi occidentali potrebbero definirsi di diritto privato, affiancate da regole fiscali, penali, processuali e di diritto bellico. La sharia poggia sui “cinque pilastri dell’islam” (arkān al-Islām): Šahāda (letteralmente, la “testimonianza”), Salāt (l’adorazione, talvolta tradotta con “preghiera”), Zakāt (l’elemosina, la carità obbligatoria), Sawm (il digiuno nel mese di ramādan), Hağğ (il pellegrinaggio annuale alla Mecca).
Per quanto concerne l’Isis, la denominazione stessa di questa entità (apparentemente sconfitta) che pretende di rappresentare l’islam è stata ed è ancora fonte di molteplici interpretazioni. La questione del nome – Isis, Isil, Isi, IS (Stato Islamico), ʿish ed altri ancora – da utilizzare per riferirsi al gruppo estremista e alle pseudo-istituzioni che tale soggetto cerca di consolidare nei territori sotto il suo controllo (parte della Siria e dell’Iraq, ma anche porzioni della Libia) è stata discussa da molti commentatori. Il fatto di scegliere una dizione piuttosto che l’altra, o di riferirsi direttamente alla pretesa del suo fondatore iracheno Abu Bakr Al-Baghdadi di rappresentare un nuovo e autoproclamato califfato Islamico, apre una serie di problematiche che l’Occidente dovrebbe valutare attentamente, soprattutto per elaborare una strategia logica tesa ad annullare o almeno a contenere il fenomeno del terrorismo islamico. L’Isis è infatti un’organizzazione estremista che considera il jihad (jihād, cioè la lotta interiore spirituale per raggiungere una perfetta fede islamica fino a praticare la “guerra santa” contro ogni infedele o apostata) l’ago della sua bussola fideistica e strategica (lo Stato Islamico è di fatto una realtà statale fortemente accentrata e sovranazionale, il cui ordinamento giuridico si rifà in parte ai dettami della tradizione coranica). Una bussola che segue un’interpretazione radicale, anti-occidentale, ma per alcuni versi ortodossa, del Corano (Al-Qur'ān), con lo scopo ultimo di fondare uno superstato salafita, annullando le realtà statuali musulmane ed inglobando perfino aree geografiche, religiose e culturali esterne, non ultima l’Europa.
Entità politicamente ed etnicamente variegata, l’Isis appare come un organismo operativo tendenzialmente statuale, rigorosamente religioso, molto efficiente nell’organizzazione militare e soprattutto alimentato da notevoli risorse finanziarie, derivanti in parte dalla vendita di contrabbando del petrolio – tutta la sua strategia militare applicata in Iraq e Siria ha sempre mirato al possesso dei locali giacimenti che, a seconda delle fonti, garantirebbero una produzione fra 1,5 e 3 milioni di dollari al giorno - e in parte dal sostegno di taluni stati come l’Arabia Saudita wahabita e il Qatar.
Pur differenziandosi sotto il profilo organizzativo e operativo da Al Qaeda (con la quale mantiene tuttavia uno stretto legame derivante da comuni interessi), l’Isis - come molti altri gruppi jihadisti e come la stessa Al Qaeda - è un prodotto dell’ideologia dei Fratelli Musulmani (Jamaʿat al-Iwān al-muslimīn), organizzazione islamista fondata al Cairo, nel 1928, da al-Hasan al-Bannā, anche se quest’ultima non afferma una stretta cogenza del jihad, avendo da tempo optato per una strategia legale o semi-legale per tentare la conquista del potere politico. Lo Stato Islamico, al contrario, segue un’interpretazione radicale, antioccidentale, antisecolarizzatrice e antimodernista dell’islam, sostenendo di rifarsi al credo delle origini e – soprattutto in Siria e Iraq - ad una pratica assolutista, persecutoria e sanguinaria nei confronti di quegli elementi considerati allogeni o estranei alla “purezza” religiosa e iconoclasta salafita, ossia cristiani caldei, sciiti, sette sufi, yazidi, curdi e peshmerga (le forze armate curde della regione autonoma del Kurdistan iracheno). L’aspetto teoretico di maggior rilievo del salafismo di cui è imbevuto l’Isis, è, pertanto, quello di un ritorno drastico e violento alle fonti, dando avvio al contempo ad una nuova interpretazione autentica (ijtihād) dei dati coranici e della tradizione etico-giuridica (sunna). E sotto questo aspetto, possiamo dire che il movimento, dietro una veste apparentemente tradizionalista, è in realtà e paradossalmente un soggetto teso ad una sorta di “modernizzazione dell’islam”, dal momento che esso stesso non disdegna lo strumento esegetico dell’ijtihād e  la tecnologia più avanzata (media, internet, canali youtube), per affrontare le nuove fattispecie giuridiche che si accompagnano ai processi di globalizzazione economico-culturale dell’era contemporanea. Altro elemento innovativo sotto il profilo propagandistico di questo movimento apparentemente “selvaggio” è l’indottrinamento e la cooptazione sistematica di elementi combattenti musulmani non soltanto mediorientali o africani e asiatici (egiziani, libici, nigeriani, somali, kenyoti, sudanesi e filippini dell’isola di Mindanao), ma anche europei, cioè residenti nel Vecchio Continente, e caucasici (azeri e ceceni). Riguardo all’Europa, ricordiamo che in questi ultimi anni l’Isis è riuscita nell’intento di convertire e arruolare centinaia di volontari, soprattutto belgi, britannici, francesi, olandesi e tedeschi: operazione facilitata dalla ormai palese resa culturale di un’Unione Europea sempre più finanziaria, laicista e politicamente nulla, al punto di rinunciare alle proprie radici greco-romane ed ebraico-cristiane in nome del multiculturalismo esasperato e di un “anonimato” identitario tinteggiato da una sorta di nichilismo autodistruttivo. Ed è proprio qui che sta il problema. l’Isis combatte infatti una guerra religiosa prima ancora che politica; un tipo di conflitto che l’ormai secolarizzato Occidente forse non riesce a comprendere fino in fondo, e tutto ciò rappresenta un altro rilevante problema. La non comprensione è infatti dovuta ad una sostanziale differenza di mentalità e di linguaggio. Una diversità che dovrebbe essere meglio studiata ed elaborata prima di giungere ad iniziative di carattere bellico, talvolta necessarie e utili, ma non certo risolutive per abbattere l’estremismo islamico in generale e quello dell’Isis in particolare. Studi più accurati circa i multiformi aspetti dello jihadismo, una maggiore ma più mirata attività militare di contrasto sul campo, superiori norme di sicurezza alle nostre frontiere, contenimento dell’immigrazione dall’area mediorientale e nordafricana e, soprattutto, minore dipendenza dell’Occidente dal fattore petrolio, potrebbero rivelarsi armi risolutive. E al tempo stesso, proprio perché quella scatenata del califfato di Abu Bakr è soprattutto una guerra di religione, anche l’agire su un piano altrettanto religioso, cioè attraverso una rivalutazione della fede cristiana - intesa come salda e coraggiosa filosofia di pace e di giustizia (il cristianesimo rappresenta per l’Isis un nemico mortale, in quanto impalcatura dell’unico Occidente civile) potrebbe coronare l’intera opera. Come ha sottolineato l’esperta di questioni slamiche, Souad Sbai: “La popolazione europea mostra il fianco, indebolendosi sempre più sotto la lenta ma inesorabile morsa del multiculturalismo criminogeno degli anni Duemila”. Una deriva che, di fatto, ha favorito l’espandersi del fenomeno della cooptazione da parte dell’Isis di soggetti culturalmente smarriti e psicologicamente fragili, da utilizzare - anche attraverso un auto-annientamento tanatofilo di matrice nichilista - per la realizzazione di un luciferino progetto egemonico.
Certo è che senza l’appoggio di Stati islamici inequivocabilmente favorevoli ad un logico dialogo con l’Occidente e concretamente impegnati contro ogni fenomeno di radicalismo – intenzione che fino ad oggi non si è mai manifestata chiaramente – il fenomeno Isis non potrà mai essere sconfitto, ma anzi potrà riproporsi in altre forme. Trattasi – lo sappiamo - di una grave, pesante assunzione di responsabilità della quale gli Stati musulmani devono farsi carico nell’immediato. Il tempo delle paure, dell’ambiguità e dell’inganno mirati a mantenere o sostenere inconfessabili posizioni di predominio economico e religioso oltranzista è ormai finito.



martedì 14 maggio 2019

I grandi scrittori del Novecento? Tutti di Destra, o quasi.


 Ezra Pound


I grandi scrittori del Novecento? Tutti di Destra, o quasi.

di Luigi Iannone (Giornalista e scrittore)

Nicola Lagioia, direttore editoriale del Salone del Libro, lo dice a chiare lettere. O meglio, lo fa intendere, ma in maniera abbastanza chiara: anche quest’anno sarà un fortino auto-celebrativo per la cultura progressista. E ne fa addirittura una questione di quote. A leggere la realtà, ogni dieci scrittori, a suo dire, ben otto sarebbero progressisti, i restanti due conservatori, anarchici di destra o similari. Per tale motivo, ha sentito la necessità di invitare solo uomini di cultura dichiaratamente di sinistra e fare ”selezioni all’ingresso”.

Non entriamo nel merito di questa stantia differenziazione; tuttavia, a Lagioia, rispondiamo con una articolo di Giovanni Raboni (non propriamente un reazionario o un pericoloso criptofascista), pubblicato sul Corriere della Sera del 27 marzo 2002.

Se lo legga, il caro Lagioia (… o magari se lo rilegga), e poi si riaccomodi pure sulle calde e comode poltrone della Fiera di Torino insieme ai suoi compagni di questo misero tempo. L’articolo di Raboni dice molto sia sulla cultura del Novecento, che è stata nelle sue punte più alte essenzialmente non di sinistra, sia sull’approccio metodologico manicheo, settoriale ed ideologico, e perciò cupo e poco intelligente, di un mondo che ha preferito l’egemonia alla qualità, il consenso immediato alle vette solitarie e ineguagliabili di artisti, letterati e filosofi spesso non classificabili, e perciò ritenuti ingiustamente degli outsider .

Non sappiamo se oggi sia lo stesso; se cioè le vette siano da additare ad una parte mentre il resto, quel magma mediocre e indistinto, sia da lasciare all’altra. Non entriamo in queste classificazioni da Bar dello sport. Ma una rilettura consapevole del testo di Raboni si impone, almeno per avere contezza di cosa ci siamo lasciati alle spalle e quanta acredine e falsità sia circolata intorno ad autori non succubi della egemonia culturale. E sopratutto come non sia cambiato questo puerile e limitato metro di giudizio.

Se c’ è qualcosa sui cui destra e sinistra sembrano essere, da un po’ di tempo, sorprendentemente d’ accordo è che in Italia non esiste una cultura di destra degna di questo nome: con il corollario o, invece, per il motivo che i cosiddetti intellettuali – categoria di cui fanno naturalmente parte, fra gli altri, i romanzieri, i poeti, i drammaturghi, insomma gli scrittori – sono «tutti di sinistra». Si tratta di una convinzione talmente diffusa e soprattutto, si direbbe, così profondamente radicata, da trasformarsi nell’immaginario collettivo in una sorta di luogo comune metastorico: come, insomma, se non soltanto adesso e qui da noi, ma ovunque e da sempre vi fosse un nesso consolidato e in qualche modo fatale fra l’ essere scrittore e l’ essere «di sinistra».

E una delle conseguenze di questa credenza o diceria è l’ atteggiamento di incomprensione se non di rifiuto, di estraneità se non di malanimo, di diffidenza se non di disprezzo nei confronti dell’ intera categoria, ravvisabile in larghi strati dell’ opinione pubblica piccolo borghese, a cominciare da alcuni dei più pittoreschi rappresentanti dell’ attuale maggioranza politica. Peggio per loro, si potrebbe commentare; ma anche, a pensarci bene, peggio per noi.

Ma c’ è anche, forse, un altro modo di porsi di fronte alla questione, ed è quello di andare e vedere e il luogo comune che ne costituisce il fondamento non sia, per conto suo, almeno in parte infondato. È quanto, personalmente, mi sono proposto di fare, sforzandomi in primo luogo di ampliare decisamente la prospettiva, cioè di spostare l’ attenzione dell’ angusta e, ahimè, molto significativa attualità italiana a quanto è successo durante gli ultimi cento anni in ambito mondiale.

E il risultato è quello che mi permetto qui di sottoporre alla riflessione dei lettori (di destra e di sinistra) eventualmente interessati all’argomento. Per dirla nel più diretto e disadorno e a prima vista (ma solo a prima vista) provocatorio dei modi, la verità dei fatti è la seguente: che non pochi, anzi molti, anzi moltissimi tra i protagonisti o quantomeno tra le figure di maggior rilievo della letteratura del ‘ 900 appartengono o sono comunque collegabili a una delle diverse culture di destra – dalla più illuminata alla più retriva, dalla più conservatrice alla più eversiva, dalla più perbenistica alla più canagliesca – che si sono intrecciate o contrastate o sono semplicemente coesistite nel corso del ventesimo secolo.

Per chi non volesse (e farebbe, sia ben chiaro, benissimo) credermi sulla parola, ecco un po’ di nomi, messi in fila secondo il più neutrale dei criteri, quello alfabetico, e mescolando (un po’ per non complicarmi la vita e un po’ perché si farebbe altrimenti, ai fini di quanto sto cercando di dire, più confusione che altro) ogni tipo di destra possibile: Barrès, Benn, Bloy, Borges, Céline, Cioran, Claudel, Croce, D’ Annunzio, Drieu La Rochelle, T. S. Eliot, E. M. Forster, C. E. Gadda, Hamsun, Hesse, Ionesco, Jouhandeau, Jünger, Landolfi, Thomas Mann, Marinetti, Mauriac, Maurras, Montale, Montherlant, Nabokov, Palazzeschi, Papini, Pirandello, Pound, Prezzolini, Tomasi di Lampedusa, W.B. Yeats…

E non è finita; a parte, per un minimo di rispetto alla peculiarità del loro tragitto, ho tenuto infatti i transfughi dalla sinistra, quelli che sono stati folgorati, a un certo punto della vita, dalla rivelazione dei disastri e dei crimini del comunismo storico e che per questo hanno finito con l’ attestarsi su posizioni sostanzialmente liberali: Auden, Gide, Hemingway, Koestler, Malraux, Orwell, Silone, Vittorini… E a parte ancora, perché è impossibile immaginare quali sarebbero state le loro convinzioni e vicende politiche se il destino li avesse fatti vivere altrove, i grandi perseguitati da Stalin: Babel’ , Brodskij, Bulgakov, Cvetaeva, Mandel’ stam, Pasternak, Solzenicyn… Il tutto, s’ intende, salvo (probabilmente) omissioni.

Ma ce n’ è già abbastanza, mi sembra, per mettere seriamente in discussione la credibilità della famosa equazione dalla quale siamo partiti: per il sollievo di chi detesta o teme la sinistra ma anche, per motivi magari un po’ più complessi, per il conforto di chi pensa che essere di sinistra sia una scelta etica e non una questione di appartenenza automatica o, peggio, una specie di privilegio di casta. Ma ancora più importante, a mio avviso, sarebbe prendere spunto da questo sommario censimento per cercare di liberarsi da un altro ancora più insidioso pregiudizio, quello secondo il quale una persona di sinistra che scrive libri è ipso facto uno scrittore di sinistra e una persona di destra che scrive libri è ipso facto uno scrittore di destra. Non è così: il senso di un’ opera letteraria decidendosi e manifestandosi altrove, su un piano totalmente diverso da quello delle scelte di carattere ideologico e dei comportamenti di carattere politico. Tengo a precisare che non intendo affatto, con questo, pronunciarmi a favore dell’ irresponsabilità civile dello scrittore (e, più in generale, dell’ artista); al contrario, sono convinto che uno scrittore (un artista) debba rispondere delle idee che professa e degli atti che compie esattamente come ne risponde qualsiasi altro cittadino. Quello che voglio dire è semplicemente che le due sfere non coincidono necessariamente, anzi che molto spesso (per non dire il più delle volte) non coincidono; e che, per esempio, si può essere rivoluzionari nella scrittura e conservatori, o addirittura reazionari, in politica, e viceversa.

E forse, spingendosi un po’ più in là, si potrebbe persino ipotizzare l’ esistenza di un oscuro, paradossale legame fra progressismo politico e conservatorismo stilistico da una parte e fra passione sperimentale e sfiducia nelle «magnifiche sorti e progressive» dell’ altra; le inquietanti vicende di due dei massimi innovatori (nel campo, rispettivamente, della prosa e della poesia) che la letteratura del ‘ 900 possa vantare, il collaborazionista e antisemita Céline e il filomussoliniano Pound, sembrano fornire, in questo senso, indizi non facilmente accantonabili.

Ma lasciamo perdere; sarei già contento, per ora, di aver insinuato qualche dubbio sia nell’animo di chi, a destra, vede in ogni scrittore un avversario politico, sia in quello di chi, da sinistra, scambia non meno ingenuamente ogni scrittore per un compagno di fede. Filoni Moltissimi protagonisti della letteratura del Novecento appartengono o sono comunque collegabili a una delle diverse culture di destra.

NEL MONDO Barrès, Benn, Bloy, Borges, Céline, Cioran, Claudel, Drieu La Rochelle, T. S. Eliot, E. M. Forster, Hamsun, Hesse, Ionesco, Jouhandeau, Jünger, Thomas Mann, Mauriac, Maurras, Montherlant, Nabokov, Pound, W. B. Yeats

IN ITALIA Croce, D’ Annunzio, Carlo Emilio Gadda, Landolfi, Marinetti, Montale, Palazzeschi, Papini, Pirandello, Prezzolini, Tomasi di Lampedusa,

TRANSFUGHI A parte, dai nomi sopra indicati, vanno ricordati i «transfughi dalla sinistra»: Auden, Gide, Hemingway, Koestler, Malraux, Orwell. E in Italia: Silone, Vittorini

PERSEGUITATI Sono i grandi perseguitati da Stalin, impossibile dire quali sarebbero state le loro convinzioni e vicende politiche se il destino li avesse fatti vivere altrove: Babel’ , Brodskij, Bulgakov, Cvetaeva, Mandel’ stam, Pasternak, Solzenicyn.