domenica 18 marzo 2012

DALLE PROFONDITÀ DEL MAR LIGURE SQUALI MOSTRUOSI AD ALTRE STRANEZZE



 
DALLE PROFONDITÀ DEL MAR LIGURE
SQUALI MOSTRUOSI AD ALTRE STRANEZZE

Non soltanto i mari esotici e lontani, ma anche il nostro Mar Ligure celerebbe nelle sue profondità non poche bizzarre e terribili creature. Squali giganti, pescicani affetti da malformazioni ed altre viscide stranezze ittiche emergerebbero di tanto in tanto dai fondali di casa nostra per turbarci il sonno e le vacanze. Certo è che in un’epoca come la nostra - apparentemente dominata dal pragmatismo e dalla razionalità tecnologica, ma in realtà afflitta da mille irrisolti tabù e paure ancestrali legati all’ignoto - il timore o l’ipotesi della presenza di mostri marini paiono essere più che mai diffusi nell’immaginario collettivo. A tal punto che, come si sa, registi e produttori hanno pensato bene di giocare sulle suggestioni dei più, approntando una serie di pellicole di successo, anche se frequentemente risibili dal punto di vista scientifico. In questo contesto è quindi interessante sfogliare qualche vecchio giornale o qualche testo di ittiologia (e magari di criptozoologia) per passare in rapida rassegna quegli episodi che più di altri hanno infiammato la fantasia popolare. Ma andiamo per ordine. Nell’infinita graduatoria degli autentici o presunti avvistamenti o catture di “mostruosità” marine il Mar Ligure, come si è accennato, ha fornito nell’arco del tempo un suo non disprezzabile contributo. Nel giugno del 1923, un gruppo di pescatori di Camogli scovò, impigliata nelle reti, la carcassa di uno stranissimo squalo lungo sei metri e pesante oltre 1.200 chilogrammi. Il ritrovamento fece ovviamente notizia e il Corriere della Sera vi dedicò una mezza pagina corredata dalla foto del “mostro”. E di mostro in effetti si trattava, in quanto l’animale, il cui corpo somigliava a quello di un massiccio pescecane, era però provvisto sopra il muso di un’anomala protuberanza, tanto che i pescatori camoglini decisero di battezzarlo “rinoceronte marino”. Seguirono articoli, servizi fotografici e grande euforia. Ma il tutto durò poco. Analizzando le fotografie della bestia, un ittiologo dedusse infatti che si trattasse di un normalissimo squalo “cetorino”, detto anche “manzo”, probabilmente affetto da una grave malformazione. Tesi, quest’ultima, che pochi anni fa venne però confutata da un gruppo di criptozoologi, certi di trovarsi di fronte ad una “specie sconosciuta” alla quale sarebbe appartenuto anche un altro simile ma ben più minuto (lungo appena 70 centimetri) esemplare pescato in Scozia, avente anch’esso la medesima protuberanza sul capo. Sempre nelle acque liguri, anche se molti anni più tardi (nell’agosto del 1962), al largo di Spotorno, una fanciulla intenta a fare sci d’acqua venne inseguita per oltre un chilometro – così almeno sostennero i cronisti -  da uno “squalo bianco di almeno 6 metri che con un morso tranciò la parte posteriore di uno degli sci, per poi sparire nel blu. Poco più di una decina di anni dopo (il 2 giugno 1974) nelle reti dei pescatori di Camogli venne invece trovato un misterioso pesce, di dimensioni ragguardevoli (circa cinque metri di lunghezza) e dalle squame variopinte. Del caso si interessò addirittura Jacques Cousteau che identificò l’animale come appartenente ad una sottospecie della famiglia dei pesci luna (Lampris luna): si trattava  infatti di un Lampris regius che, pur essendo solito dimorare nella profondità degli abissi, per qualche strana ragione aveva evidentemente deciso di fare una capatina in superficie. Nel 1986, sempre nelle reti dei pescatori camoglini rimase impigliato un rarissimo Marlin  nero gigante (Makaira indica), del peso di oltre 180 chilogrammi, una specie  che si trova abitualmente nelle calde acque degli Oceani Indiano e Pacifico e la cui testa e coda sono tuttora conservate nel  Museo di Storia Naturale di Genova. Ma torniamo ai ‘mostri’ veri e propri. Nell’estate del 1938, nei pressi di Sanremo, durante una mareggiata, un bagnante, tale Enrico Straforello, venne assalito e trascinato negli abissi – così sostennero alcuni testimoni - da uno squalo di almeno 10 metri di lunghezza. E nel 1939, al largo di Marsiglia (anche se alcuni sostengono che l’episodio si sia verificato presso il confine italo-francese, al largo della frazione di Latte), l’equipaggio di un peschereccio tirò a bordo uno squalo bianco della lunghezza di 7 metri, nello stomaco del quale venne trovato il corpo vestito e calzato di un soldato della Legione Straniera, con tanto di moschetto e baionetta. Mentre un anno più tardi, un poco più ad ovest, nelle tranquille acque del porto militare di Tolone, un marinaio intento a pitturare la fiancata di un cacciatorpediniere seduto su un travicello sospeso a quattro metri dalla superficie venne ghermito da “un enorme squalo lungo almeno 9 metri, sbucato improvvisamente dalle limacciose acque del bacino”. Stando alle cronache, anche il tratto di mare tra la costa ligure, la Corsica e la Sardegna settentrionale sembra essere stato teatro di avvistamenti come si suol dire ‘da paura’. Nel 1977, tra Stintino e Aiaccio, un pescatore sardo aduso alla caccia ai pescicani dichiarò di avere agganciato con un ancorotto uno squalo bianco di 13 metri di lunghezza che con un solo morso avrebbe tranciato un metro di murata della sua barca. L’uomo, intervistato dal settimanale Oggi, dichiarò di avere in precedenza osservato il gigantesco animale (da questi battezzato “Maciste”) aggirarsi a poche decine di metri dalla costa.
                                                                                              Alberto Rosselli

MAR LIGURE A RISCHIO TSUNAMI ?



 
MAR LIGURE A RISCHIO TSUNAMI ?

L’ipotesi, seppure remota, è di quelle da brivido, soprattutto dopo quanto si è verificato due anni fa lungo le coste asiatiche bagnate dall’Oceano Indiano. Secondo gli studi effettuati dal professor Bill McGuire del Benfield Greig Hazard Research Center, l’eventualità che uno tsunami provocato non da un maremoto o terremoto, “ma da uno sprofondamento o spostamento di un grosso ‘zoccolo’ sottomarino” si abbatta sulla Liguria non sarebbe da escludere, almeno in teoria. “Pur non trovandoci in presenza di vulcani sottomarini, taluni tratti dei fondali antistanti la costa Ligure e quella francese sono, seppure sulla carta, a rischio tsunami. Nel 1979, tra Nizza e Antibes, un’onda anomala prodotta dall’improvviso cedimento di uno zoccolo sottomarino prospiciente il litorale di circa un chilometro di lunghezza e 100 metri di larghezza, diede origine ad un’onda di 10 metri che spazzò la passeggiata a mare, allagando la litoranea, lambendo le abitazioni e causando ben 11 morti e diverse decine di feriti”. Ricordiamo, a questo proposito, che nel 1986 e nel 2004, la Plage de Beauduc (Camargue) e la Plage di Pointe-Rouge di Marsiglia furono anch’esse interessate dal medesimo fenomeno che produsse tuttavia marosi decisamente più modesti, tra circa cinque e i sei metri di altezza. “Naturalmente, casi come questi sono abbastanza rari, ma non si può escludere che si verifichino nuovamente, soprattutto in certe aree particolari, come le zone portuali sottoposte ad intensi lavori di dragaggio dei fondali o a tombamenti effettuati per la realizzazione di pesanti piattaforme in pietra o cemento armato”, come ad esempio moli e terminali. Tali operazioni possono talvolta (come è già accaduto in Giappone) provocare il cedimento o lo slittamento improvviso di porzioni di ponti sottomarini: smottamento che, come si è detto, può a sua volta innescare spostamenti di grosse masse d’acqua in superficie”. Ma la Liguria e le sue città costiere sono dunque a rischio tsunami? Fortunatamente, stando alle opinioni degli scienziati, non sembrerebbe, posto che l’uomo non contribuisca con il suo stesso ingegno a modificare ciò che il mare e la natura hanno pazientemente modellato nell’arco dei secoli. “Tutto dipende - spiegano i cervelloni del Benfield Greig Hazard Research Center - da una condizione, quella di procedere, nell’eventuale costruzione di nuovi terminali esterni alle dighe foranee con estrema cautela, effettuando adeguati studi preliminari sulla consistenza dei cosiddetti ‘balconi’ sottomarini. Ciò che in passato è accaduto a Nizza, ma anche in altri porti dell’Estremo Oriente, non dovrebbe quindi essere preso sottogamba, a scanso di brutte sorprese. Detto questo, le tecnologie e i mezzi per studiare e verificare la tenuta dei fondali esistono, ragione per cui non vi sarebbe – sempre secondo gli esperti - alcun motivo di allarme. Negli ultimi secoli, non soltanto i paesi affacciati lungo le coste o le molte isole e arcipelaghi dell’Oceano Pacifico (Cina, Cile, Perù, Alaska, Australia, Giappone, Nuova Guinea e Hawaii) sono stati devastati dagli tsunami. Anche le isole e le coste della Grecia e della Turchia (ricordiamo ad esempio il terremoto e la micidiale onda di 30 metri che sconvolsero nel 1999 la cittadina anatolica di Izmit) e talune regioni costiere dell’Italia meridionale, soggette ad elevata sismicità, hanno subito la medesima offesa. Nel corso della storia, anche abbastanza recente, i litorali pugliese, siciliano e calabrese sono stati investiti da singole o diverse onde anomale alte talvolta 20 o addirittura 30 metri, capaci di spazzare via interi paesi e di affondare o fare arenare navi anche di notevole tonnellaggio. Stando al parere unanime degli esperti, nel corso della storia gli tsunami mediterranei si sono verificati sempre in concomitanza di potenti terremoti e/o maremoti, vedi quelli verificatisi negli anni 1627, 1693, 1783 e 1908. Basti pensare che una parte dei gravissimi danni causati dal terremoto di Messina furono da addebitare ad una serie di onde alte circa 20 metri che in seguito alla scossa si fransero lungo il litorale della martoriata città. Ma andiamo per ordine. Una delle più spaventose onde che si siano mai viste montò nella zona centro-meridionale dell’Adriatico il 30 luglio 1627, andando ad infrangersi contro il promontorio del Gargano. Questo tsunami fu innescato da un terremoto avente come epicentro l’area a nord-est di San Severo. L’onda, alta circa 40 metri e lunga cinque chilometri investì la zona costiera tra Fortore e San Nicandro, nei pressi del Lago di Lesina, sommergendo decine di paesi costieri e causando la morte di 5.000 persone. Le pittoresche (ed iperboliche) cronache dell’epoca riferiscono che la città costiera di Termoli “sprofondò” negli abissi “per poi ritornare a galla come un tappo di sughero”. Esagerazioni a parte, a Termoli l’onda provocò in effetti danni gravissimi e centinaia di vittime. L’11 gennaio 1693, la Val di Noto (Sicilia orientale) venne scossa da un terremoto di magnitudo 6.8 che causò la morte di 70.000 persone e la distruzione pressoché totale di villaggi e cittadine nelle province di Siracusa, Ragusa e Catania. In quell’occasione, le città Catania, Augusta e Messina furono investite da uno tsunami di circa 20 metri di altezza che distrusse numerosissime imbarcazioni all’ancora e abitazioni costiere, danneggiando anche il monastero di S. Domenico in Augusta. Nel febbraio 1783, la Calabria sperimentò la più violenta e persistente sequenza di terremoti di cui si abbia memoria negli ultimi duemila anni. Il 5 febbraio, il primo sisma danneggiò circa 400 paesi causando 25.000 vittime, molte delle quali residenti a Messina. Subito dopo, un gigantesco tsunami innescato dal sisma andò ad infrangersi contro Reggio Calabria, Messina, Torre del Faro, Cenidio e Scilla. Messina, Reggio Calabria , Roccella Ionica, Scilla e Catona ebbero le strade allagate e l’acqua del mare si addentrò nella terraferma per quasi due chilometri trascinando a secco decine di pescherecci. Il giorno seguente, si verificò una seconda scossa tellurica con un nuovo tsunami che distrusse praticamente l’intera Scilla. La particolarità di quest’ultima grande onda è che essa non venne direttamente provocata dal terremoto, ma dallo scivolamento in mare di una parte del Monte Paci. Molti abitanti di Scilla, spaventati dalla terribile sequenza delle scosse, cercarono rifugio sulla spiaggia, ma qui vennero sorprese dalla ondata alta 12/15 metri. Millecinquecento furono le vittime. Il 28 dicembre 1908, Messina e in misura minore Reggio Calabria vennero sconvolte dal più potente terremoto mai registrato in Italia (pari all’undicesimo grado della scala Mercalli). Dopo la prima giornata di spaventose scosse, ne seguirono per 72 ore altre 60 di minore intensità, alle quali si aggiunsero le 2.000 di assestamento registrate nei due anni seguenti. Nella catastrofe perirono 70.000 persone su una popolazione di 170.000 abitanti ed oltre il 90% degli edifici della città venne distrutto. Il sisma provocò inoltre un mostruoso tsunami, in assoluto il più grande mai registrato nel nostro Paese. Dapprima, lungo la costa si manifestò un ritiro delle acque, seguito pochi minuti dopo da tre grandi ondate che portarono distruzione e morte. Le località più duramente colpite furono Pellaro, Lazzaro e Gallico sulle coste calabresi e Riposto, S. Alessio, Briga e Paradiso su quelle siciliane. Tutte le costruzioni situate a meno di 300 metri dalla spiaggia vennero spazzate via dall'impeto dei marosi.
Alberto Rosselli

COME “NAVIGARE” DA GENOVA ALLA PADANIA ATTRAVERSO UN CANALE SOTTERRANEO E FARE A MENO DEL TERZO VALICO



 

COME “NAVIGARE” DA GENOVA ALLA PADANIA
ATTRAVERSO UN CANALE SOTTERRANEO E FARE A MENO DEL TERZO VALICO


Svariate e a volte molto curiose sono stati i progetti elaborati da studiosi e ingegneri per risolvere uno dei più gravi problemi infrastrutturali che penalizzano i porti liguri, schiacciati come sono da una catena montuosa che impedisce loro di far fluire verso la Padania e l’Europa centrale un traffico merci in costante crescita. Il primo ad avere pensato a collegare il Mar Ligure con il Po mediante un canale fu Napoleone Bonaparte che il 27 dicembre 1807 appose la sua illustre firma ad uno speciale “bando di concorso” che aveva appunto per oggetto “la costruzione di una via navigabile atta ad avviare le comunicazioni mercantili tra i porti di Genova e Savona e la valle del Po”. Andando a spulciare l’Archivio del Ministero dei Trasporti, è saltata fuori una soluzione decisamente brillante partorita da Mario Garbellini, un eclettico ingegnere genovese, ormai scomparso da tempo, che alla precedente, e a dire il vero, vaga idea napoleonica, riuscì a dare una risposta del tutto concreta. Verso la metà degli anni Sessanta, Garbellini concepì infatti un piano dettagliato per la costruzione di un “doppio canale navigabile sotterraneo di 23 chilometri di lunghezza destinato a collegare l’allora costruendo porto di Voltri ad Ovada e quindi alla valle del Po”. Il progetto, che a suo tempo venne addirittura esaminato dalla Commissione Tecnica del Ministero dei Trasporti e della Programmazione, consisteva nella costruzione di una linea idrografica sotterranea, articolata su due direttrici parallele e contrarie, in grado di fare scorrere al suo interno un traffico continuo di zattere, da Voltri ad Ovada e viceversa. L’opera, che avrebbe comportato, secondo il Garbellini, circa 15 anni di lavoro ed un investimento di 60 miliardi (del 1965) avrebbe consentito di smaltire un traffico complessivo merci di circa 32 milioni e 500 mila tonnellate. Sulle prime, l’idea partorita dalla fervida mente dell’ingegnere genovese (specializzato in idraulica e meccanica) pare che avesse stimolato l’interesse dell’Ilres e di alcuni esperti olandesi e tedeschi di problemi relativi al traffico fluviale, tanto da essere segnalato e discusso, alla fine del 1965, al XXI Congresso Internazionale di Navigazione di Stoccolma e nell’ambito di successivi e analoghi simposi a Londra e a Lisbona. Ma vediamo più dettagliatamente le caratteristiche tecniche e funzionali dell’idrovia sotterranea. Finanziata (pia aspirazione) dallo Stato e da un “pool” di imprenditori e aziende private, la cosiddetta “galleria-canale di valico” sarebbe risultata agevole alle chiatte, nonostante il notevole dislivello altimetrico esistente tra Voltri e Ovada (circa 200 metri), mediante uno speciale elevatore “a conca” (come quelli in uso ad Amburgo e a Heinrichenburg, in Germania), capace di contenere una chiatta lunga 58 metri, larga otto e dotata di una capacità di carico di 600 tonnellate. Con questo elevatore, situato al terzo chilometro dall’ingresso sud del canale, presso Voltri, le imbarcazioni avrebbero potuto superare il dislivello e addentrasi nel tunnel. Le due gallerie-canale avrebbero dovuto avere un diametro di circa 16 metri e sarebbero state collegate tra di loro ogni 500 metri da appositi passaggi. L’intero sistema sarebbe stato ventilato da una serie di pozzi verticali comunicanti con l’esterno. Una volta imboccato il canale sotterraneo, riempito d’acqua per metà (fino a una profondità di circa 3 metri), ogni imbarcazione (delle 90 giornaliere previste), sospinta da un flusso costante di corrente, lo avrebbe percorso alla velocità media di tre chilometri l’ora. La soluzione a due direttrici parallele (una  per l’andata e una per il ritorno) venne adottata da Garbellini per applicare il cosiddetto sistema di movimentazione a “fluitazione”. Facendo muovere l’acqua contenuta nei due canali mediante un sistema di normali pompe idrauliche per un totale di 1.500 CV, installate in testa al tunnel, i natanti avrebbero infatti potuto navigare senza l’ausilio di mezzi motori. All’uscita nord del canale, nell’area transappenninica, era prevista poi la costruzione di un piccolo lago artificiale con funzione di punto di smistamento e di sbarco: in sostanza, un sito portuale in miniatura collegato da una linea ferroviaria ai centri industriali della Pianura Padana. In ogni caso, il progetto Garbellini prevedeva anche la costruzione opzionale di un altro canale, più piccolo, che collegava il lago artificiale al corso del Po. Ma non è tutto. Il sistema di alimentazione idrica del canale ‘underground’, alimentato per circa 21 chilometri dallo sfruttamento delle falde sotterranee, avrebbe potuto trasformarsi all’occorrenza in una vera e propria condotta di drenaggio artificiale nelle viscere della dorsale ligure appenninica, contribuendo, mediante condotte a caduta, a coprire le emergenze idriche stagionali dell’estremo ponente genovese. Ad oltre 40 anni di distanza, il curioso progetto dell’ingegnere Mario Garbellini continua comunque a giacere nelle segrete di un archivio romano, sepolto sotto una montagna di scetticismo e di pregiudizi ideologici. Dimenticavamo: l’ingegnere era un simpatizzate dell’MSI.
 
Alberto Rosselli

sabato 17 marzo 2012

‘ORO NERO’ LUNGO IL MEKONG: UN ‘AFFARE’ CINESE A RISCHIO TERZI



 

‘ORO NERO’ LUNGO IL MEKONG:
UN ‘AFFARE’ CINESE A RISCHIO TERZI


Altre due tanker cinesi hanno trasferito nello Yunnan attraverso il Mekong 9.000 tonnellate di petrolio mediorientale raffinato presso lo scalo thailandese di Chiang Rai: un’ escamotage  attuato – come riferisce l’agenzia Xinhua – “per  assicurare i rifornimenti alle aree industriali dello Yunnan e delle province sud occidentali cinesi, senza dovere correre il rischio di perdere carichi nello Stretto di Malacca ormai infestato dai pirati”. Secondo le più recenti stime, la Cina importerebbe annualmente circa 140 milioni di tonnellate di petrolio mediorientale, il 75% del quale attraverso lo Stretto di Malacca, un tratto di mare che, oltre alla presenza di numerose flottiglie ‘pirata’, potrebbe un domani risultare ancora più pericoloso, soprattutto “nel caso di un conflitto con gli Stati Uniti”. Di qui l'idea di utilizzare l’ampio corso del Mekong che nasce nel Tibet e attraversa lo Yunnan per poi scorrere per ben 4.880 chilometri lungo i confini del Myanmar, del Laos e della Thailandia, sfociando - dopo avere bagnato Cambogia e Vietnam - nel Mar Cinese Meridionale. Attualmente, non meno di 60 milioni di persone vivono lungo le sponde del fiume dal quale esse dipendono per l’approvvigionamento idrico, per i trasporti e per la pesca. In passato la Cina ha tentato più volte di sfruttare economicamente e unilateralmente questa via, progettando dighe e di impianti idroelettrici lungo il suo alto corso, provocando violente proteste da parte di Thailandia, Cambogia e Vietnam, timorosi di vedere eccessivamente ‘manipolato’  o ‘impoverito’ l’importante fiume. Tra una lite e l’altra, Pechino è riuscita a costruire due sole dighe che, tuttavia, hanno già ridotto sensibilmente la portata del Mekong, soprattutto durante la stagione secca. Nel 2004, la Cina ha reso navigabile la parte di fiume posta in suo territorio, e nel marzo 2006, è riuscita ad ottenere da Myanmar, Laos e Thailandia  il permesso di trasportare mensilmente, tramite tanker fluviali, un minimo di 1.200 tonnellate di petrolio raffinato. Ma non è tutto. Lo scorso mese di dicembre, uno dei responsabili del ministero della Marina cinese, Qiao Xinmin, ha annunciato di volere incrementare le spedizioni annue di greggio raffinato a 70.000 tonnellate: progetto che ha messo in allarme diverse associazioni ambientalistiche. Premrudee Daoroung, direttore della Towards Ecological Recovery and Regional Alliance di Bangkok, ha osservato che l’accordo tra Pechino, Myanmar, Laos e Thailandia, “è stato siglato in segreto, senza preoccuparsi dell’opinione degli abitanti che vivono lungo il fiume: una decisione che fa ben comprendere chi in realtà detenga il totale controllo sul Mekong e sulle sue risorse naturali (la fauna ittica, soprattutto), patrimonio da sacrificare in nome degli interessi economici cinesi e di quelli degli altri governi della regione”. L’elevato rischio di possibili perdite di greggio a parte delle tanker cinesi ha allarmato anche Chainarong Srettachau, direttore della thailandese Southeast Asia Rivers Network. “Se, disgraziatamente, una petroliera dovesse affondare o subire una perdita, il suo carico si disperderebbe con rapidità a valle del fiume, provocando danni enormi e irreparabili”. 



LA SERBIA E IL PERICOLO DI UN’ISLAMIZZAZIONE OLTRANZISTA DEI BALCANI




LA SERBIA E IL PERICOLO DI 
UN’ISLAMIZZAZIONE 
OLTRANZISTA DEI BALCANI

La dissoluzione dell’ex Iugoslavia non ha soltanto consentito la lecita rinascita di mai sopiti sentimenti nazionalisti a lungo compressi dal coercitivo sistema comunista, ma ha anche aperto la strada – soprattutto nel sud dell’ex Repubblica socialista - all’espandersi di un movimento islamico radicale, internazionalista di matrice jihadista. Non a caso, in Bosnia, Kosovo, Sangiaccato, Macedonia e Montenegro operano da tempo diverse cellule che si rifanno esplicitamente ad Al Qaeda. In questo contesto, un ruolo di fondamentale importanza viene svolto dai religiosi, che stanno facendo delle moschee luoghi di indottrinamento politico più che religioso, e dalle ben finanziate (soprattutto dall’Arabia Saudita wahabita, dall’Iran e dal Pakistan) “organizzazioni umanitarie islamiche”, impegnate nella costruzione di ospedali, ma anche di centri di studio atti a propagandare, soprattutto tra i giovani, una forma di revanscismo musulmano estremista che nulla ha a che vedere con il tradizionale e moderato credo religioso di tipo sunnita professato dalle minoranze islamiche dell’ex Iugoslavia. Negli ultimi cinque anni, negli Stati sorti dalle rovine del socialismo titino si sono moltiplicati gruppi islamici militanti collegati a reti terroristiche internazionali dalle quali ottengono fondi anche derivanti dal narcotraffico. Denuncia ribadita più volte dal leader nazionalista moderato del Partito Democratico di Serbia (DSS) Vojislav Kostunica. Dei circa 1,5 trilioni di dollari (cifra che rappresenta l’insieme dei proventi del crimine organizzato mondiale) “una buona percentuale di incassi risulta frutto degli introiti derivanti dal narcotraffico balcanico: un’area che comprende anche l’Albania settentrionale”.
Secondo il governo di Belgrado, il vasto “santuario” verso il quale convergono tutte le risorse finanziarie e umane che fanno riferimento ad Al Qaeda e alle organizzazioni wahabite si starebbe radicalizzando nei Balcani sud-occidentali e, nella fattispecie, in Kosovo e nel Sangiaccato serbo: regione di notevole importanza strategica in quanto incuneata tra Kosovo, Montenegro e Bosnia. Nel marzo del 2007, la scoperta di un campo di addestramento fondamentalista alla periferia della città di Novi Pazar, unitamente al ritrovamento di ingenti quantitativi di armi, munizioni ed esplosivi, ha fatto chiaramente intendere la portata di questo fenomeno che ha ormai valicato i confini della vicina Bosnia-Erzegovina. D’altra parte, fu proprio il conflitto di Bosnia a sancire l’esordio di Al Qaeda, da sempre interessata a mettere radici nei Balcani, giudicandolo un trampolino ideale per possibili successive penetrazioni in Occidente ed Europa Orientale.
Oggi come oggi, stando al parere degli esperti non solo serbi, il pericolo maggiore è rappresentato dall’intesa tra gruppi wahabiti salafiti (il salafismo è un attaccamento cieco alla tradizione degli anziani e di chi precede, salaf) e le suddette organizzazioni terroristiche islamiche globali: un’alleanza più che plausibile che potrebbe rafforzarsi ulteriormente grazie anche alla connivenza dei gruppi bosniaci della diaspora. Per quanto concerne il Montenegro, da un rapporto stilato la scorsa estate dai servizi di sicurezza di Podgorica, si evince che sul territorio della giovane repubblica sarebbero presenti diverse centinaia tra agenti e guerriglieri salafiti pronti ad entrare in azione al momento più opportuno. E se si pensa che entro il 2050 circa la metà della popolazione diverrà musulmana, ciò fa intendere che qualsiasi loro iniziativa di tipo sovversivo potrà attecchire in un ambiente più che idoneo, mettendo a repentaglio il futuro di questo antico Stato balcanico a maggioranza (il 74%) cristiana ortodossa. Attualmente, in Montenergo, gli islamici, che ammontano invece a 110.000 unità, pari al 17,74% della popolazione, sono suddivisi in due etnie principali: quella albanese e quella slava bosniaca. Per quanto concerne il processo di islamizzazione radicale del nuovo Stato del Kosovo, il leader Vojislav Kostunica, si è poi scagliato contro l’accordo ASA (l’Accordo di Associazione e Stabilizzazione) firmato poche settimane fa in Lussemburgo e che apre di fatto le porte alla candidatura UE al Kosovo. Non solo. Per il capo del governo uscente, con l’intesa firmata dal vice primo ministro Bozidar Djelic alla presenza del presidente Boris Tadic, Belgrado “ha accettato supinamente la secessione del Kosovo, consegnandolo nelle mani di un esecutivo debole e pericoloso”. Ma la fase di instabilità riguarda anche la repubblica di Macedonia che, proprio in questi ultimi due anni, ha fatto registrare forti insofferenze da parte della robusta minoranza etnica albanese musulmana (il 35% dell’intera popolazione). A sette anni dalla firma dell’Accordo di pace di Ohrid (agosto del 2001) che pose termine alla breve guerra civile (marzo/giugno del 2001) tra forze regolari macedoni e guerriglieri albanesi, la situazione è ritornata a farsi estremamente critica. Nel settembre 2007, presso il villaggio di Vaksince si sono verificati duri scontri con morti e feriti e il successivo 7 novembre forze speciali macedoni hanno compiuto una vasta retata nella provincia di Tetovo, roccaforte della minoranza albanese del paese, sgominando la banda del leader Lirim Jakupi. Ex miliziano della guerriglia irredentista in Kosovo, Jakupi, noto anche per il suo presunto coinvolgimento in traffici illegali di armi e droga, è riuscito tuttavia a darsi alla macchia. Lo scorso 28 aprile, a Pristina, la stessa polizia kosovara ha sequestrato un'auto zeppa di armi e munizioni diretta in Macedonia, arrestando quattro kosovari musulmani sedicenti “agenti di commercio”. Secondo quanto riportato dalle fonti della polizia, le armi apparterrebbero nientemeno che alle truppe di pace dell'ONU, responsabili della sicurezza dei confini del Kosovo. Tenendo conto dei delicati equilibri interni macedoni (l’islamismo armato sta facendo proseliti nella comunità albanese che punta all’ottenimento di maggiori diritti, come l`utilizzo della lingua e della bandiera, nonché ad un'adeguata assistenza e remunerazione per i veterani di guerra), l’intersecazione tra istanze indipendentiste e fondamentaliste sta di fatto minando non soltanto la solidità interna del Paese, ma anche i rapporti con lo stesso Kosovo. Non a caso, il governo di Skopje ha messo il veto sulla partecipazione del presidente kosovaro Fatmir Sejdiu al summit di Ohrid del 2 maggio (2008), al quale hanno partecipato tutti i leader dell'Europa centro-meridionale e orientale (Italia e Turchia incluse).

ESPLOSIONE DEMOGRAFICA IN NORD AFRICA: PROSPETTIVE E CONSEGUENZE



 
ESPLOSIONE DEMOGRAFICA IN NORD AFRICA
PROSPETTIVE E CONSEGUENZE

 

Nell’ultimi vent’anni, i paesi dell’Africa Settentrionale (Algeria, Egitto, Libia, Mauritania Marocco e Tunisia) hanno attraversato una fase caratterizzata da profondi cambiamenti dovuti a mutazioni economiche e ad un robusto incremento demografico. Una crescita di proporzioni tali da far pensare che sia destinata a modificare radicalmente, soprattutto attraverso i processi migratori, i rapporti tra quest’area del Continente Nero e l’Europa. Secondo i dati Onu del “World Population Prospects”, dai circa 75 milioni di abitanti del 1975, la popolazione nordafricana è passata ad oltre 158 (il professor Giuseppe Gesano dell’Istituto di Ricerche Demografiche e Politico-sociali del Cnr, stima che nel 2030 questa cifra lieviterà a 210 milioni). E nella fattispecie, tra il 2000 e il 2006, l’incremento è stato di ben 15,5 milioni, con una percentuale di soggetti di età inferiore ai 15 anni del 24% per la Tunisia e del 45,5% per la Mauritania. In buona sostanza un terzo dei quasi 160 milioni di abitanti dell’area nordafricana apparterrebbe alla fascia adolescenziale: un dato che, contestualmente al calo dei tassi di mortalità, potrebbe, secondo molti studiosi, determinare situazioni molto complesse e pericolose. A meno che nuove forme di cooperazione tra l’Occidente (nella fattispecie la UE) e il Maghreb, ma anche l’Egitto, non permettano ai singoli Paesi di portare a compimento il loro lungo e non facile processo di modernizzazione strutturale e infrastrutturale dell’economia, e di democraticizzazione delle istituzioni. Nell’ambito della rapida crescita demografica nordafricana, un dato molto significativo è rappresentato dall’aumento della popolazione urbana, salita dell’8% negli ultimi quindici anni, a fronte di uno spopolamento delle aree rurali. Si tratta, sempre secondo gli esperti, di un duplice fenomeno che tuttavia dovrebbe arrestarsi intorno al 2010, quando i processi di irrigazione e industrializzazione dell’agricoltura avviati, soprattutto in Egitto (si veda il megaprogetto idrico “Toshka” per lo “sdoppiamento” del Nilo) e Libia (la realizzazione del discusso “Great Man Made River Project”, la gigantesca rete di pipeline voluta da Geddhafi per dirottare acqua dalle profonde falde del Fezzan fino alla Tripolitania), non raggiungano i risultati auspicati. Detto questo, oggi come oggi, l’abbandono, soprattutto da parte dei giovani, delle aree rurali marocchine, algerine e tunisine, rappresenta ancora una tendenza molto forte destinata ad incrementare un inurbamento già di per sé estremamente forzato e disordinato delle grandi città costiere (Casablanca, Rabat, Orano, Algeri, Biserta, Tunisi, Tripoli, Bengasi, Alessandria): squilibrio che pesa non poco sull’intensificazione del fenomeno migratorio in direzione della sponda meridionale europea.
Le ultime ottimistiche proiezioni Onu parlano tuttavia di un Nord Africa destinato nel tempo a normalizzarsi sotto il profilo demografico, grazie al globale miglioramento dell’economia e al progressivo elevamento dell’istruzione media dei giovani e soprattutto delle donne, al quale però non fa ancora riscontro una contestuale crescita di offerte di lavoro qualificato ed equamente retribuito.
Detto questo, è indubbio che la crescita demografica che i Paesi nordafricani stanno sperimentando si sia riflessa in una mutazione economica mai verificatasi in passato. Per la prima volta si sta assistendo, almeno in taluni casi, al superamento dell’industria nei confronti dell’agricoltura ed anche al timido, ma irreversibile sviluppo del settore dei servizi. Starà alle istituzioni sapere “governare” con la dovuta intelligenza il duplice cambiamento (demografico ed economico), poiché un’evoluzione di questo tipo, soprattutto in virtù della sua rapidità, potrebbe generare conflittualità sociali non indifferenti, oltre che a problemi di gestione delle risorse. L’aumento della popolazione ha prodotto molta nuova forza lavoro giovane (tra i 18 e i 25 anni) che vanta un livello di istruzione ben più elevato rispetto a quello delle generazioni precedenti. Ma in economie ancora in via di sviluppo, come quelle dei Paesi magrebini, le istituzioni manifestano, come si è detto, una sostanziale incapacità ad offrire occupazione e soprattutto di monitorare il ritmo di sviluppo demografico e il già citato massiccio esodo in città grandi, ma sprovviste di abitazioni decenti e servizi: habitat ideale per il proliferare di povertà, scontento e per lo sviluppo di ‘tentazioni’ sovversive e fondamentaliste. Nel 2006, il saldo migratorio dei paesi nordafricani è oscillato tra lo zero di Libia e Mauritania e il -0,82 del Marocco: indice che dimostra quanto come il Nord Africa stia trasformandosi da punto di partenza in meta, o meglio in un’effimera speranza per nuove masse di poveri provenienti dall’area sub-sahariana. Lo sviluppo energetico di Libia e Algeria ha infatti attratto molti lavoratori provenienti dal sud, e cioè da Mali, Niger, Nigeria, Ciad, Camerun. Si tratta di diseredati che tuttavia dopo un soggiorno relativamente lungo – anche a causa dei bassi salari imposti dai governi magrebini agli “stranieri” – preferiscono cercare migliori condizioni di vita in Europa. Anche per evitare discriminazioni o improvvise massicce espulsioni, come è già accaduto in Marocco, Algeria e Libia  a metà degli anni Ottanta e dopo la crisi economica del 1995.


L’ISLAMIZZAZIONE DELLA TURCHIA E LA MORTE DELL’EUROPA


  
L’ISLAMIZZAZIONE DELLA TURCHIA E LA MORTE DELL’EUROPA

  
La svolta islamista e antilaicista promossa con successo dal primo ministro Recep Tayyip Erdoğan, ha allontanato di fatto la Turchia dall’Europa. In seguito ai risultati del referendum dello scorso anno, l’Esercito turco – guardiano della Costituzione kemalista – è uscito sconfitto, ma non solo. Il referendum ha permesso ad Erdogan e al presidente Abdullah Gül di varare non poche modifiche alla costituzione. Oltre al ridimensionamento del ruolo delle forze armate, sono stati modificati i criteri di nomina dei membri della Corte Costituzionale e del consiglio supremo dei giudici e dei procuratori (Hsyk), il cui numero è stato aumentato, rispettivamente, da 11 a 17 e da sette a 21, con grandi vantaggi per la coalizione al potere, dato che la nomina di alcuni di questi magistrati sarà prerogativa del presidente della Repubblica (che milita nel partito di Erdogan) e del parlamento filogovernativo. Quest’ultimo ha anche avuto mano libera per reintrodurre il velo islamico per le donne (decisione non certo simbolica, ma di sostanza), e per processare per via civile (altro colpo inferto alla casta militare, dopo gli arresti dei graduati sospettati di politica anti governativa, avvenuti pochi mesi fa) gli ufficiali autori del golpe del 1980. Ora, di fronte a queste mosse, al contestuale avvicinamento della Turchia all’Iran, alla recente rottura delle relazioni tra Ankara e Tel Aviv e all’annuncio di un’alleanza militare con Cina e Russia, l’Europa, si vede costretta a riflettere circa l’opportunità o meno – al di là delle convenienze economiche – di considerare la Turchia come un possibile nuovo partner comunitario: questione che richiede la massima lucidità. A nostro modesto parere, lo schierarsi (a dire la verità ormai poco diffuso e convinto) a favore di questo ulteriore, anomalo allargamento dell’Europa in direzione di una penisola anatolica ‘reislamizzata’ sottintende – ora più che mai - due visioni antitetiche e antropologicamente inconciliabili del Vecchio Continente. Insomma, qui non è in gioco soltanto un certo numero, cospicuo, di seggi al parlamento europeo, ma una vera e propria Weltanschauung. Senza contare che la UE sembra dimostrare di non essere completamente edotta circa le vere intenzioni di Ankara in politica interna ed estera. Anzi, per quanto è dato di sapere, l’Europa della Turchia sembra capirsene ben poco (o di ‘non volersene capire’ affatto per ragioni pelose e/o inconfessabili). La Turchia non è mai stata un Paese trasparente e in linea – nonostante uno sbandierato laicismo di facciata - con la cultura civile e politica europea. Si tratta, infatti, di un mondo ambiguo e contraddittorio, sempre in bilico tra la sponda asiatica e quella europea dei Dardanelli, tra trattati di alleanza e guerre feroci, lungo il filo rosso di seicento anni di storia. Le figure chiave della storia turca recente, dal leader panturanista Enver Bey a Erdoġan, sono delineate nettamente, con tutta la loro sostanziale duplicità: quella di una nazione sempre divisa tra tradizione e modernità, tra islam e ‘progressismo laico armato’, seppure ormai in fase di netto declino. Un declino che sfalsa di fatto sia le posizioni assunte dai sostenitori di un eventuale ingresso di Ankara nella UE. La Turchia, oggi come oggi, non è più un’eccezione nel contesto del mondo islamico, ma una contraddizione che basterebbe, da sé, a dimostrare la complessità della questione dell’accesso in Europa di un popolo da noi molto distante e per nulla convinto della bontà di questa manovra, anzi. Se aggiungiamo a questo scenario, che, comunque, resta ancorato ad un movente prettamente economico della politica internazionale, ci rendiamo facilmente conto di quali e quante siano le implicazioni di una scelta aggregativa di questo tipo, soprattutto in seguito alla sterzata islamista di Erdogan. Una svolta che, tuttavia, non è del tutto nuova in quanto, dopo la morte del laicista Kemal Ataturk, i successori di quest’ultimo non rinnegarono mai l’’islamicità’ della Turchia, quasi a confermare quell’antica ambiguità di fondo. Potremmo quasi dire che, oggi, l’islam, in qualche modo, giustifica il modo di essere della Turchia contemporanea, rappresentando (come dovrebbe fare anche per l’Europa il Cristianesimo) il tramite tra un passato di splendore ed un futuro pieno di speranze. Ma anche con il suo proprio passato la Turchia non si è ancora misurarata pienamente, e questo rappresenta un deciso freno all’ingresso del Paese in Europa. Sul tappeto tre sono – meglio dire sarebbero state - le questioni decisive da risolvere per entrare a far parte dell’UE: il riconoscimento del massacro degli armeni, la perdurante persecuzione dei curdi e l’occupazione militare di Cipro ai danni della Grecia (Paese membro della UE). Contenziosi a parte, riemerge, oggi più che mai, un altro ostacolo, quello derivante dall’incompatibilità anatomica tra tradizione occidentale e islamismo insorgente e sostanzialmente anti laico e anti cristiano. Qui è infatti in gioco non l’entrata o meno della Turchia in Europa, ma la sopravvivenza stessa dell’Europa come entità culturale: percolo che la scristianizzata Bruxelles non sembra avvertire. La burocrazia europea basa infatti la sua essenza e la sua politica su un sostanziale rifiuto di ogni fede, optando per il “mercatismo”, il “politicamente corretto” e il “relativismo culturale” permissivista. Oggi, in Europa, l’esistenza di una verità morale e religiosa comune è praticamente bandita. Il Vecchio, ‘balordo’, Continente combatte, in buona sostanza, la propria anima e la propria cultura, mentre l’islam e la ‘nuova’ Turchia islamizzata di Erdogan si fanno sempre più vanto e forza della loro. Ma purtroppo, né i laici né gran parte dei cristiani, pare si siano resi conto del dramma che si sta profilando. I cristiani relativisti, nella fattispecie, lasciando sbiadire in se stessi la consapevolezza della verità posseduta, e sostituendo all’ansia apostolica il puro e semplice dialogo a tutti costi, stanno preparando inconsciamente la propria inevitabile estinzione. E il primo passo di questa estinzione epocale, che coinvolgerebbe un intero continente, potrebbe verificarsi proprio con l’entrata della Turchia in Europa.

UNA NUOVA TESTATA A CACCIA DI 'VERITA''




STORIA VERITA’

EDITORIALE N. 1
(della nuova serie)

Gennaio 2011

STORIA VERITA’ cambia pelle, ma non spirito e finalità. Con questo primo numero della ‘nuova serie’, edita da ‘Nuova Aurora’ (Firenze), il ‘testimone’ passa di mano dalla vecchia, gloriosa e sempre attiva ‘Europa  Libreria Editrice’ (casa romana che tanti anni fa ha avuto il merito di creare questa coraggiosa testata) ad un nuovo soggetto editoriale che si propone – attraverso una sempre più accurata ricerca di contenuti e proposte, e ad una rinnovata veste grafica della rivista - di perpetuarne il successo, pur senza venire meno a quella che è sempre stata la precedente, coerente, linea editoriale. Con questo numero STORIA VERITA’ inizia, infatti una nuova vita, ma non rinuncia alla sua Tradizione, quella che ha permesso a questa testata - che il sottoscritto ha l’onore di guidare in qualità di Direttore responsabile – di affermarsi e qualificarsi come punto di riferimento onesto e sicuro per chi ama la Storia, e soprattutto la Verità ‘storica’. Fatta questa premessa, contrariamente alla prassi corrente, rinunciamo oggi (data del tutto speciale) alla consueta ‘illustrazione’ dei contenuti di questo numero di STORIA VERITA’, in quanto riteniamo più opportuno – alla luce delle grandi sfide epocali che ci attendono - soffermarci brevemente sul significato e sugli obiettivi culturali che la nostra testata vanta e persegue. STORIA VERITA’ nacque per colmare un vuoto e per combattere, con gli strumenti dell’intelletto e in virtù dell’amore per la libertà di espressione, la presunta (diciamo ‘presunta’ in quanto non reale) 'egemonia culturale’ della Sinistra nel settore della storiografia, soprattutto quella riguardante l’epoca delle grandi ideologie, cioè il Novecento. Una ‘presunta egemonia’ (lo ripetiamo) che si è potuta imporre nell’immaginario collettivo del popolo italiano solo e soltanto grazie all’appoggio sistematico di soggetti politici e finanziari estremamente potenti e ben radicati nei centri di potere e nella finanza. Per decenni, la Sinistra istituzionale ha infatti lavorato con lo scopo, per altro brillantemente conseguito, di creare una sorta di conformista monopolio della storiografia e del sapere in genere, negando nel contempo dignità culturale non soltanto ai ricercatori ‘tradizionalisti’, ma a tutti coloro i quali non condividevano determinati principi. In buona sostanza – grazie anche al completo, colpevole e sciocco disinteresse manifestato, anche in questi ultimi anni di bipolarismo, dai partiti di Centro-Destra – la Sinistra ha avuto buon gioco nel negare a più soggetti l’opportunità di esprimere liberamente e con cognizione di causa opinioni circa la storia intesa come genesi non del tutto casuale della specie umana. Non solo, recentemente, certa Sinistra si è presa pure il lusso di esercitare una sorta di blanda e incompleta ‘revisione’ dei fatti relativi al secolo scorso, vedi ad esempio le foibe e gli eventi del ‘triangolo rosso’ emiliano: storie e temi in realtà da decenni a noi noti, ma sconosciuti al grande pubblico, tentando di darsi un’immagine più liberale ed aperta, ma agendo in realtà con il preciso scopo di addomesticare, attraverso un’accorta, misurata, ma molto disinvolta tecnica della ‘parziale ammissione’ (cioè storicamente contingentata) di realtà spaventose che, se analizzate con più cruda e radicale onestà intellettuale e politica, avrebbero smascherato una volta per tutte l’inconsistenza scientifica e la sostanziale falsità ideologica insite nell’indagine storiografica marxista o post marxista. Detto questo riteniamo che STORIA VERITA’ (che, fortunatamente, si avvale di uno staff di Collaboratori di sicuro spessore culturale e morale) possa – nel suo piccolo - contribuire a ribaltare questo criterio o prassi di indagine mistificatorio, malato, oltre che inadeguato, dando spazio alla rivisitazione obiettiva, e quindi non conformista, di eventi che hanno determinato, nel bene e nel male, quei cambiamenti epocali ai quali stiamo assistendo e dei quali, purtroppo, molti italiani non sono ancora in grado di darsi una spiegazione logica: impossibilità determinata, come si è accennato, da decenni di disinformazione. Il tutto per offrire al lettore non certo soluzioni definitive, bensì un’opportunità di scelta e soprattutto strumenti che lo possano aiutare a decrittare il presente attraverso un’onesta e corretta comprensione del passato. Il tutto, nella convinzione che il vero impegno culturale non possa limitarsi all’isolamento e all’autocompiacimento onanistico di tipo elitario (antica quanto grave patologia che affligge il mondo erudito, o sedicente tale, ‘italiota’), ma alla corretta e sempre più ampia divulgazione e, nel nostro caso, alla rivalutazione di un patrimonio culturale immanente, quello della Tradizione (cioè l’insieme dei miti e delle credenze ‘naturali’ basate sull’azione sui quali l’Occidente ha creato le sue fortune: anello di congiunzione tra culto del sacro e ragione) che tanto scherno, ma anche tanta paura suscita nei politici, negli storiografi e nei filosofi di Sinistra così ciecamente impegnati nella loro speculativa e spregiudicata azione pedagogica di massa, al punto da dimenticare il vero, autentico ed immutabile ‘comune sentire’ dei popoli e delle nazioni. Buona lettura a tutti i nostri gentili Lettori, e un augurio di buon lavoro a tutti i signori Collaboratori di STORIA VERITA’ (sia i ‘veterani’, che le ‘nuove firme’), che hanno scelto e deciso di impegnarsi in una dura, ma qualificante e gratificante battaglia in nome della Civiltà.

Alberto Rosselli
Direttore responsabile di Storia Verità
www.storiaverita.org

IMBARAZZANTI VERITA': L’ANTISEMITISMO E’ ORMAI UN ‘TIC’ DELLA SINISTRA



IMBARAZZANTI VERITA’

L’ANTISEMITISMO E’ ORMAI UN  ‘TIC’ DELLA SINISTRA

Si sfata la trita e ritrita vulgata che vuole una Destra razzista. I veri nemici degli ebrei, e non solo di Israele, Paese che, come tanti altri, può essere lecitamente criticato per parte del suo operato, si trovano soprattutto a Sinistra. La polemica sugli imbarazzanti (ma arcinoti) scritti giovanili dello scomparso Giorgio Bocca ha riaperto il caso, e ha dato il via alle polemiche

Il precedente storico a solido sostegno della tesi che gran parte della Destra post bellica italiana non sia mai stata (salvo alcune rumorose frange) sostanzialmente antisemita è quasi antico e non del tutto disgiunto dal diffuso sentire dell’Italia fascista: ricordiamo il filosemitismo anteguerra di una gerarca come Italo Balbo o la sostanziale tolleranza nei confronti della stirpe di David manifestata dallo stesso Mussolini, almeno fino al 1937 (il duce fu antisemita in età giovanile, ma poi si ravvide). Ma veniamo a tempi più recenti. Nel 1973, al termine della Guerra del Kippur, il deputato missino Giulio Caradonna si recò a Gerusalemme per deporre una corona di fiori allo Yad Vashem. Erano anni in cui la Sinistra italiana marxista manifestava già ferocemente contro Israele (dipinto come il ‘cane da guardia’ mediorientale filo americano e antisovietico) e Caradonna, in Parlamento, difese il sionismo, “nato come reazione di difesa imposta da millenarie persecuzioni di una minoranza etnico-religiosa che deve ancora combattere per la propria sopravvivenza”. Oggi, quasi tutta la Sinistra italiana ed europea ha calato la maschera, e con il facile e puerile, oltre che ipocrita, ricorso all’antisionismo, palesa la sua vera convinzione: gli ebrei sono in buona sostanza delle carogne che uccidono, e massacrano i poveri palestinesi inermi con metodi nazisti, ed oltre a ciò governano il mondo con le banche. Secondo l’ex dissidente sovietico Nathan Sharansky, attualmente, per la stragrande maggioranza della Sinistra europea Israele, come Stato, dovrebbe addirittura sparire, e con esso il suo popolo, ‘biologicamente pericoloso’. Quando la mente filosofica di Di Pietro, cioè Gianni Vattimo, al Salone di Torino del 2008, si disse tentato a rivalutare i “Protocolli dei savi anziani di Sion” e a “fornire ai nemici di Israele missili più efficaci dei Qassam”, non ci si stupì di quanto attivo fosse diventato il fronte antisemita della gauche. Come ha scritto Vasilij Grossman in “Vita e destino”, “la fiamma dell’antisemitismo ha rischiarato le epoche più tremende della storia e quasi tutte le aree ideologiche”. E come ricordò, nel 2007, in un suo articolo comparso su ‘Il Secolo d’Italia’, Giano Accame, “La presenza di un antisemitismo reazionario, di Destra, dalla Russia zarista alla Germania nazista sino alle leggi razziali del 1938 in Italia, con le tragedie che ha provocato, è purtroppo innegabile. Ma anche la Sinistra conserva i suoi scheletri sotto l'albero genealogico; e non è affatto da escludere che sull'antisemitismo nazionalsocialista, insieme al più lontano ricordo delle feroci prediche contro i giudei di Martin Lutero, la venatura proveniente dalla libreria socialista abbia esercitato qualche influenza”. L’antisemitismo sembra avere, dunque, molti padri, e soprattutto molti parenti in un’area marxista, da sempre intollerante, ma abile, all’occorrenza, nel riuscire, grazie ad artifizi dialettici e mistificazioni storiografiche, a convincere il mondo della sua verginità, e soprattutto del congenito spirito razzista insito nella bieca cultura di Destra. Come ha però affermato un imparziale osservatrice, la giornalista di origini ebraiche, Fiamma Nirenstein, “ogni ebreo nato dopo l’Olocausto impara subito un messaggio molto chiaro (ma non del tutto esatto): il male, per gli ebrei, è quasi sempre giunto dalla Destra, in particolare dalla Chiesa, almeno per una buona parte della sua storia, e, naturalmente, dal nazismo e dal fascismo. L’Olocausto ha fatto ricadere il male sulla Destra. E poiché gli ebrei sono il simbolo vivente di quanto possa essere malvagia la Destra, legittimano la Sinistra con la loro stessa semplice esistenza (…) Quella Sinistra che si è dimostrata la vera culla dell’attuale antisemitismo in salsa anti americana. Considerazioni, quelle della Nirenstein, che, ovviamente, condividiamo per rispetto nei confronti di ciò che è ovvio e storicamente incontestabile. E a proposito di incontestabilità, ci è facile ricordare che le prime, vigorose, radici di questo antisemitismo di Sinistra stanno in Carlo Marx. Fu proprio questi che, ignorandone (volutamente?) la complessità cultural-etnico-religiosa, negò con inaudita violenza e superficialità la stessa identità "nazionale" ebraica, riducendola ad un semplice, e negativo, fenomeno economico-speculativo. Fortunatamente, i tempi sono cambiati ed oggi – nonostante il dilagare dell’antisemitismo di Sinistra - perfino uomini (non certo di Destra) come Piero Fassino o a Adriano Sofri sembrano essersi accorti, bontà loro, del grave peccato originale marxista. “Rappresentare Israele come uno Stato militarista, aggressore o, come qualcuno dice, fascista - ha dichiarato Fassino in un’intervista di un paio di anni fa, comparsa su ‘Il Corriere della Sera’ - è una formidabile  sciocchezza, come lo è non riconoscere che Israele sia una società democratica. Una bella porzione della Sinistra manifesta un pregiudizio ideologico e manicheo verso Israele, che spesso sconfina nell’antisemitismo più becero”. “Non possiamo confidare – aggiunge Sofri -  nell'Europa e tanto meno amarla se non amiamo lo Stato di Israele e se non rispettiamo  il suo popolo misto, coraggioso e spaventato”,  come fanno catto-comunisti filo-palestinesi e/o terzomondisti, marxisti mummificati, post marxisti in cerca di ideali egalitari, magari in salsa ecologica, e relativisti atei, figli di un’irragionevole Ragione.
A.R.