venerdì 24 aprile 2020

Oggi (24 Aprile) é l'anniversario dell'Olocausto armeno (1.500.000 armeni cristiani deportati e massacrati dagli ottomani tra il 1915 e il 1918, ed oltre). Articolo di Alberto Rosselli.




Oggi (24 Aprile) é l'anniversario dell'Olocausto armeno (1.500.000 armeni cristiani deportati e massacrati dagli ottomani tra il 1915 e il 1918, ed oltre). Articolo di Alberto Rosselli.

La persecuzione degli armeni.

di Alberto Rosselli

Premessa

La persecuzione scatenata nel 1915 dai turchi nei confronti del popolo armeno residente in Anatolia e nel resto dell’impero ottomano rappresenta forse il primo esempio dell’epoca contemporanea di sistematica e scientifica soppressione di una minoranza etnico-religiosa. Un piano di eliminazione che non scaturì soltanto dall’ideologia “panturchista” e “panturanista” del sedicente partito “progressista” dei Giovani Turchi, ma che trasse le sue origini dalle antiche e mai del tutto sopite contrapposizioni tra la maggioranza mussulmana turca e curda e la minoranza cristiana armena.
Con l’espressione ‘genocidio armeno’ (in lingua armena Medz Yeghern, Grande Male) ci si riferisce a due eventi distinti ma legati fra loro: il primo, quello relativo alla campagna contro gli armeni condotta negli anni 1894-1896 dal sultano Abdul Hamid II; il secondo – oggetto del nostro breve studio - quello collegato alla deportazione ed eliminazione degli armeni compiute nel corso del Primo Conflitto Mondiale dal nuovo governo della Sacra Porta controllato dai Giovani Turchi.
L’eliminazione fisica di circa un milione, un milione e mezzo di armeni (la cifra, come è noto, è ancora al centro di accese discussioni) da parte dei turchi rappresenta ancora oggi, a distanza di tanto tempo, uno scomodo tabù. Il sostanziale rifiuto da parte dell’attuale governo di Ankara di riconoscere le responsabilità storiche della Sacra Porta rappresenta anche un ingombrante ostacolo non soltanto alla conferma di una realtà storica, ma all’ingresso nel consesso europeo della stessa Turchia..
La “questione armena” ritornò di attualità, dopo mezzo secolo dallo sterminio, nel 1974, quando rispondendo a una denuncia del Tribunale Permanente dei Popoli, il governo di Ankara ammise per la prima volta - anche se con molte riserve e distinguo - che tra il 1915 e il 1918 “il popolo armeno aveva patito effettivamente un certo numero di vittime attribuibili alle tragiche contingenze storiche del tempo di guerra, cioè scontri armati, fame, malattie”, guardandosi bene però dal riconoscere che tra il 1880 e il 1918, cioè per un periodo ben più lungo, prima i sultani e poi il governo controllato dal partito dei Giovani Turchi repressero ripetutamente questa minoranza cristiana.
La bibliografia relativa allo sterminio o del ’genocidio’ armeno (il termine “genocidio” fu coniato all’inizio degli anni ‘40 dal giurista americano di origine ebreo-polacca Raphael Lemkin proprio in riferimento alla repressione armena) è in verità molto vasta e trasversale. Oltre agli scritti armeni, è possibile attingere a fonti francesi, statunitensi, portoghesi, italiane, greche, bulgare, inglesi e russe. Tra queste ricordiamo quelle, molto importanti, dell’ambasciatore americano Henry Morgenthau, degli inglesi Lord James Bryce e Arnold Joseph Toynbee, del francese Henri Barby, e, non ultime per importanza, quelle il console d’Italia a Trebisonda, Giovanni Gorrini. Ma il materiale a disposizione dei ricercatori comprende anche numerosi tra libri, documenti e relazioni tedeschi che confermano l’ampiezza dello sterminio armeno. Nel 1919, il pastore evangelico e storico Johannes Lepsius pubblicò Deutschland und Armenien, testo che racchiude stralci di documenti diplomatici tedeschi tesi a scagionare, almeno in parte, le colpe e la presunta connivenza del kaiser (durante la Prima Guerra Mondiale la Germania era alleata della Turchia) ma che rivelano la portata della tragedia dei cristiani anatolici. Alla documentazione di Lepsius va aggiunta quella, sempre di parte tedesca, del capitano dell’esercito Armin Wegner, che con la sua preziosa raccolta fotografica ha fornito importanti prove dei massacri compiuti dai turchi e dai curdi in Siria.
I Giovani Turchi
Verso la fine del XIX secolo, la crisi politica, economica e sociale dell’impero ottomano si fece sempre più grave, sfociando in pericolose sommosse. A Salonicco un gruppo di ufficiali dell’esercito, in combutta con alcuni esiliati politici turchi confluiti nella Ittihad ve Terakki (il partito Unione e Progresso), iniziarono a tramare contro l’incapace e retrogrado governo centrale. Un Movimento in particolare, quello dei Giovani Turchi, auspicava l’eliminazione del sultano per potere avviare un necessario processo di modernizzazione dell’impero.
La rivolta scoppiò il 23 luglio del 1908, a Monastir, quando il Comitato Centrale di Unione e Progresso intimò ad Abdul Hamid di ripristinare la costituzione del 1876. Avendo perso il controllo di buona parte dell’esercito, il sultano cedette e il 24 luglio 1908 la costituzione venne ripristinata. Seguì un breve periodo di euforia da parte delle minoranze etniche e religiose della Sacra Porta che confidavano nell’inizio di una nuova era caratterizzata da maggiori libertà. Effettivamente, in un primo tempo gli ufficiali ribelli dettero a tutte le minoranze ampie garanzie di tolleranza, tanto che il partito armeno Dashnak tentò e riuscì ad elaborare con essi un comune progetto di democratizzazione dello Stato ottomano. Si trattò però di una semplice speranza destinata a svanire di fronte ai reali e non dichiarati intenti che in segreto animavano i cuori degli appartenenti al Movimento dei Giovani Turchi. “Pur tramando da tempo contro gli armeni – annotò il console tedesco di Trebisonda Berfgeld - sulle prime i Giovani Turchi si mostrarono molto liberali, laicisti e tolleranti. Tuttavia, il 19 ottobre del 1910, a Tessalonica, nel corso del congresso segreto promosso dall’Ittihad, uno dei leader del Movimento, Taalat Pascià, delineò i tratti della futura politica di omogeneizzazione etnico-religiosa della Turchia, parlando per la prima volta della necessità di attuare al più presto sterminio della minoranza armena”.
Molti elementi appartenenti al movimento ‘modernista’ turco avevano soggiornato e studiato in Europa dove avevano attinto alle fonti dell’ideologia marxista e nazionalista, soprattutto tedesca, elaborandone i contenuti in funzione di un’applicazione in chiave ottomana. La perdita di ampie porzioni di territorio nei Balcani e le ripetute umiliazioni militari e diplomatiche subite dalla Sacra Porta nella seconda metà del XIX secolo, convinsero i Giovani Turchi circa la necessità non soltanto di fare avanzare economicamente e socialmente il loro agonizzante impero, ma di ridargli nuova linfa, espandendone i confini non ad occidente, come avevano quasi sempre fatto i sultani del passato, bensì ad oriente, in direzione della Persia, del Caucaso e delle immense regioni asiatiche centrali, abitate da popoli (tartari, azerbaigiani, ceceni, kazachi, uzbechi, kirghisi e tagiki) linguisticamente ed etnicamente affini al popolo anatolico.
La teoria geopolitica intorno alla quale ruotava questo ultimo ragionamento traeva le sue origini dall’ideologia panturanica . Come si è detto, dal pangermanesimo i Giovani Turchi avevano tratto lo spunto per ridare vigore nazionalista, dignità di razza all’impero ottomano, mentre dal marxismo essi avevano mutuato una vaga idea di eguaglianza sociale che, tuttavia, avevano modellato ad uso e consumo delle loro particolari convinzioni ideologiche. Per la nuova élite dominante turca l’eguaglianza non rappresentava infatti un dato sociale assoluto, bensì da commisurare all’appartenenza o meno alla “razza” turca e all’adesione al credo mussulmano. Ma dal momento che entro i confini dell’impero ottomano vivevano diverse minoranze etniche e religiose ecco che i Giovani Turchi percepirono come indispensabile in primo luogo la forzata “turchizzazione” o addirittura l’eliminazione fisica degli elementi da essi considerati allogeni e quindi impuri, tra questi gli armeni.
Questi concetti furono dettagliatamente riportati nel 1915 in una lunga e dettagliata relazione compilata dall’agente e diplomatico tedesco Ludwig Maximilian Erwin von Scheubner-Richter, a quel tempo ufficiale di collegamento di una speciale unità militare turco-tedesca operante in Anatolia. “Ho avuto modo di conversare più volte – scrisse Richter - con eminenti personalità turche, e dalle loro dichiarazioni ho dedotto che gran parte dei membri del governo ottomano sono convinti che l’impero turco dovrebbe basare la sua forza sia sulle teorie religiose islamiche, sia su quelle politiche “panturchiste” e “panturaniche”. Secondo i miei interlocutori, gli abitanti non mussulmani e non turchi dell’impero dovrebbero essere islamizzati con la forza o distrutti”. Dal canto suo, l’ambasciatore austriaco a Costantinopoli, Johann Pallavicini riportò in una sua memoria lo stralcio di un colloquio avuto, sempre nel 1915, con il gran visir. “Questi – scrisse Pallavicini -si dichiarò contrario alla politica repressiva di Talaat Pascià (capo dell’Ittihad) nei confronti degli armeni (…) Il gran visir non vedeva infatti di buon occhio lo sterminio delle minoranze etniche e religiose dell’impero”. Ciò a dimostrare – per amore di verità - che non tutte le alte gerarchie di Costantinopoli erano convinte della necessità di inglobare o sterminare i gruppi etnico-religiosi non mussulmani per conseguire un effettivo rafforzamento dello Stato.
Nel 1909, dopo un fallito tentativo controrivoluzionario di Abdul Hamid, i Giovani Turchi, guidati da Taalat Pascià, deposero definitivamente il sultano, sostituendolo con il suo più innocuo fratello Muhammad. E contestualmente, gli ufficiali rivoluzionari iniziarono a cambiare rapidamente e apertamente strategia politica, rimangiandosi i vecchi propositi liberali e modificando in senso autoritario il loro intervento in seno alla società ottomana. Abbandonati i proclami inneggianti lla libertà e l’eguaglianza, essi abrogarono praticamente tutti i diritti civili da poco concessi ad armeni, ebrei, greci del Ponto e arabi. E all’indomani della sconfitta subita nel 1912 ad opera dell’Italia e dei rovesci patiti dall’esercito ottomano durante la Prima Guerra Balcanica, il 26 gennaio 1913, un triumvirato formato da Enver Pascià, Taalat Pascià e Ahmed Jemal prese definitivamente in mano le leve del potere, proclamando la “turchizzazione” dell’impero ed avviando nel contempo una politica di persecuzione sistematica di tutte le minoranze, prima fra tutte quella armena. La responsabilità della cosiddetta “seconda fase” dell’olocausto armeno fu da attribuire ai Giovani Turchi che pianificarono il genocidio attraverso la messa a punto di un’efficiente struttura paramilitare, l’Organizzazione Speciale (O.S.), coordinata da due medici, Nazim e Shakir. L’O.S., che dipendeva dal Ministero della Guerra, realizzerà tutte le sue più gravi nefandezze sotto la supervisione del ministero degli Interni e con la collaborazione del ministero di Giustizia che, attraverso l’emanazione di una legge speciale, inquadrerà molte migliaia di criminali comuni nelle file della Teskilate Maksuse (o Teshkilati Mahsusa), uno speciale reparto paramilitare agli ordini di Behaeddin Shakir istituito per depredare i villaggi armeni ed eliminarne la popolazione.
Sotto il profilo per così dire organizzativo e cronologico il genocidio armeno compiuto dai Giovani Turchi si può suddividere in quattro fasi, ciascuna delle quali corrisponde ad una particolare metodologia di sterminio e ad un particolare indirizzo. La prima fase coprì il periodo compreso tra l’aprile e il maggio 1915 e si concentrò essenzialmente sull’eliminazione delle élite e dei militari di origine armena.. Nella seconda fase, aprile-giugno 1915, i turchi eliminarono o deportarono i notabili locali, i membri dei partiti armeni e, in generale, tutti gli uomini validi”. La terza fase si tradusse essenzialmente nella deportazione di massa. Oltre il 40% della popolazione armena residente nel 1914 nell’Impero ottomano fu infatti sradicata e trasferita a forza in Siria. Tra il luglio e l’agosto del ‘15 scattò la quarta ed ultima fase durante la quale avvenne la deportazione nei campi di prigionia siriani, mesopotamici degli armeni residenti in Asia Minore, Tracia e Cilicia. Stando alla documentazione, nel 1915 i turchi allestirono almeno 30 grandi campi di concentramento, cinque dei quali di transito.
Il 24 aprile 1915 (che verrà in seguito ricordata come la data commemorativa del genocidio), a Costantinopoli, circa 500 armeni furono incarcerati e poi strangolati con filo di ferro. Tra le vittime anche il deputato Krikor Zohrab che pensava di godere dell’amicizia personale di Talaat. La persecuzione proseguì con la soppressione della colta ed operosa comunità della capitale i cui membri furono divisi in gruppi e deportati in Anatolia, dove molti di essi vennero uccisi. Tra questi vi erano intellettuali e scrittori, come il poeta Daniel Varujan, giornalisti e sacerdoti. Tra gli uomini di chiesa, Soghomon Gevorki Soghomonyan (più noto come il monaco Komitas), padre della etnomusicologia armena. Komitas fu deportato assieme ad altri 180 intellettuali armeni a Çankırı in Anatolia centro settentrionale. Egli sopravvisse alla prigionia e alla guerra grazie all’intervento del poeta nazionalista turco Emin Yurdakul, della scrittrice turca Halide Edip Adıvar e dell’ambasciatore americano Henry Morgenthau. Trasferitosi nel 1919 a Parigi, Komitas, sulla scorta degli orrori patiti, impazzì finendo i suoi giorni in un manicomio, nel 1935.
Tra il maggio e il luglio del 1915, la falce ottomana si abbatté sulle comunità delle province di Erzerum, Bitlis, Van, Diyarbakir, Trebisonda, Sivas e Kharput, dove le bande curde si accanirono in modo particolare contro i sacerdoti, a molti dei quali, prima dell’esecuzione, vennero strappati gli occhi, le unghie e i denti. Gevdet Bey, vali (governatore) della città di Van e cognato del ministro della Difesa Enver Pascià, pare si divertisse a fare inchiodare ai piedi dei prelati ferri di cavallo arroventati. Stando ad un rapporto del console statunitense ad Ankara, nel luglio 1915 circa 2.000 soldati armeni reduci dalla campagna del Caucaso furono improvvisamente disarmati dai turchi e spediti nella zona di Kharput con il pretesto di utilizzarli nella costruzione di una strada. Ma una volta giunti sul posto essi vennero tutti fucilati. A loro insaputa, moltissimi altri militari armeni furono anch’essi disarmati ed inquadrati in speciali ‘battaglioni operai’ (Amelé Taburì) per lavorare – così fu detto loro - nel comparto infrastrutture. Ma in realtà essi vennero poi massacrati, come accadde a 2.500 soldati armeni condotti in località Diyarbakir.
Nel giugno 1916, dopo avere liquidato circa 150.000 militari armeni, i turchi decideranno di fare fuori anche un terzo degli operai cristiani impiegati nella costruzione e nella manutenzione della ferrovia Berlino-Costantinopoli-Baghdad: decisione che tuttavia venne duramente contrastata dagli alleati tedeschi. L’ambasciatore a Costantinopoli, conte Paul von Wolff-Metternich, accusò Taalat Pascià e il ministro degli Esteri Halil Pascià “di inutili crudeltà” e persino “di sabotaggio”: denunce che lasciarono tuttavia impassibili i capi ottomani più che mai decisi a proseguire con la pulizia etnico-religiosa.
Nell’aprile 1915, a Van, in seguito all’ennesima retata, alcune migliaia di civili armeni riuscirono a disarmare la locale guarnigione turca, barricandosi nel nucleo urbano e resistendo agli attacchi ottomani e curdi fino al sopraggiungere di una divisione di cavalleria russa del generale Yudenich che nel mese maggio li liberò dall’assedio.
Una storia per certi versi analoga la vissero circa 4.100 armeni rifugiatisi sull’acrocoro del Musa Dagh, situata nella porzione meridionale della Cilicia armena, sulla costa del Mediterraneo orientale (oggi provincia turca di Hatay), dove resistettero alla fame e alla pressione turca per ben quaranta giorni fino a quando il 12 settembre 1915 essi furono tratti in salvo dal provvidenziale arrivo nel golfo di Alessandretta di una squadra navale dell’Intesa. Verso l’autunno del 1915, una volta eliminata la porzione più giovane e combattiva del popolo armeno, il ministero degli Interni ottomano passò alla seconda fase dell’”olocausto”, cioè l’eliminazione di tutti gli adulti di età superiore ai 45 anni che fino ad allora erano stati risparmiati poiché ritenuti indispensabili per il lavoro nelle campagne. Come testimonia questo brano tratto da un dispaccio inviato il 15 settembre 1915 dal ministro Taalat Pascià al governatore turco di Aleppo: “[…] Siete già stato informato del fatto che il Governo ha deciso di sterminare l’intera popolazione armena […] Occorre la vostra massima collaborazione […] Non sia usata pietà per nessuno, tanto meno per le donne, i bambini, gli invalidi […] Per quanto tragici possano sembrare i metodi di questo sterminio, occorre agire senza alcuno scrupolo di coscienza e con la massima celerità ed efficienza”. E ancora (lettera del 1° dicembre 1915): “Il luogo di esilio di questa gente sediziosa (gli armeni, n.d.a.) è soltanto l’annientamento”.
Solitamente, i turchi organizzavano le deportazioni di massa trasferendo i loro prigionieri in località piuttosto remote. Una delle destinazioni prescelte fu la desolata regione siriana di Deir al-Zor, dove centinaia di intere famiglie armene furono ammassate e lasciate morire di stenti. “Nel corso di queste frequenti ed estenuanti marce forzate - annotò il colonnello tedesco Hugo Stang - le colonne armene venivano ripetutamente attaccate e depredate dai reparti curdi dei reparti Hamidye, una forza ausiliaria composta da un totale circa 30.000 criminali comuni arruolati dai turchi”.
“Le deportazioni – annotò il diplomatico tedesco Max Erwin von Scheubner-Richter -furono giustificate dal governo turco con la scusa di un necessario spostamento delle comunità armene dalle zone interessate dalle operazioni militari (Anatolia orientale e nord orientale, n.d.a) (…) Non escludo che gran parte dei deportati furono massacrati durante la loro marcia. (…) Una volta abbandonati i loro villaggi, le bande curde e i gendarmi turchi si impadronivano di tutte le abitazioni e i beni degli armeni, grazie anche ad una legge del 10.6.1915 ed altre a seguire che stabiliva che tutte le proprietà appartenenti agli armeni deportati fossero dichiarate “beni abbandonati” (emvali metruke) e quindi soggetti alla confisca da parte dello Stato turco”. E a testimonianza dei risvolti economici della strage, basti pensare che “i profitti derivati all’oligarchia dei Giovani Turchi e ai suoi lacchè dai beni rapinati agli armeni arrivarono a toccare la cifra astronomica di un miliardo di marchi”. Nell’inverno del ‘15, il conte Wolff-Metternich decise di riferire al ministero degli Esteri tedesco il protrarsi “di questi inutili e crudeli eccidi”, chiedendo un intervento ufficiale presso la Sacra Porta Venuti al corrente della protesta, Enver Pascià e Taalat Pascià chiesero a Berlino l’immediata sostituzione di Wolff-Metternich che nel 1916 dovette infatti rientrare in Germania.
Va comunque detto che non tutti i governatori turchi accettarono di eseguire per filo e per segno gli ordini di Costantinopoli. Nel luglio 1915, ad esempio, il vali di Ankara si oppose allo sterminio indiscriminato di giovani e vecchi, venendo rimosso e sostituito da un funzionario più zelante, tale Gevdet, che nell’estate del ‘15 a Siirt fece massacrare oltre 10.000 tra armeni ortodossi, cristiani nestoriani e giacobiti. Resoconti sui molteplici eccidi sono registrati anche nelle memorie di addetti diplomatici francesi, svedesi e italiani presenti all’epoca in Turchia. Il 25 agosto 1915, Il Messaggero di Roma pubblicò la denuncia del console generale a Trebisonda, Giovanni Gorrini. Il plenipotenziario affermò che “degli oltre 14.000 armeni legalmente residenti a Trebisonda all’inizio del 1915 al 23 luglio dello stesso anno non ne rimanevano in vita che 90. Tutti gli altri, dopo essere stati spogliati di ogni avere, erano stati deportati dalla polizia e dall’esercito ottomani in lande desolate o in vallate dell’entroterra e massacrati”.
Intanto proseguiva senza soste la deportazione degli armeni destinati ai campi della regione di Deir al-Azor. Questi primordiali lager privi di baracche e servizi igienici accolsero all’interno dei loro perimetri cintati da filo spinato decine di migliaia di profughi.
“Ben presto - come narra lo scrittore David Marshall Lang nel suo ‘Armeni, un popolo in esilio’ - in questi recinti, rigurgitanti in gran parte di vecchi, donne e bambini, scoppiarono terribili epidemie di tifo e vaiolo che si allargarono a gran parte della popolazione siriana (…) Solo ad Aleppo, tra l’agosto 1916 e l’agosto 1917, circa 35.000 persone morirono di tifo”. Epidemie che si rivelarono talmente devastanti da allarmare il generale Otto Liman von Sanders, comandante delle forze turco-tedesche in Medio Oriente. Questi, nel 1916, cercò – almeno così sembra - di attivare una qualche forma di assistenza, seppure duramente contrastato dalle autorità ottomane.
In terra siriana, alcune centinaia di ragazze e di ragazzi armeni riuscirono però a scampare alla morte, anche se a duro prezzo. Le fanciulle, soprattutto le più giovani e graziose, furono infatti vendute per poche piastre a possidenti arabi che le rinchiusero nei loro bordelli. In molte altre zone dell’impero i giovani armeni subirono sorte ancora peggiore. In un rapporto del 1917, l’ufficiale medico tedesco Hans Stoffels riferì “di avere osservato nella zona di Mosul (Irak settentrionale) un gran numero di villaggi armeni, nelle cui chiese e abitazioni giacevano i corpi bruciati e decomposti di donne e di bambini precedentemente violentati, sodomizzati e torturati nei modi più orrendi”. Nell’autunno del 1918, quando le forze britanniche del generale Edmund Allenby provenienti dalla Palestina entrarono in Siria, trovarono in alcune baracche di un campo decine di donne tutte segnate dagli stenti e dalle malattie veneree. In terra siriana i britannici vennero anche a sapere che centinaia di bimbi armeni provenienti dall’Anatolia erano stati rinchiusi in bordelli per omosessuali o negli speciali orfanotrofi gestiti dalla “signora” Halidé Edib Adivart.
Nonostante tutto, il governo turco non si reputava ancora soddisfatto di come stava procedendo la risoluzione del “problema armeno”. “In base alle relazioni da noi raccolte – annotò il 10 e il 20 gennaio del 1916, il notabile Abdullahad Nouri Bey - mi risulta che soltanto il 10 per cento degli armeni soggetti a deportazione generale abbia raggiunto i luoghi ad essi destinati; il resto è morto di cause naturali, come fame e malattie. Vi informiamo che stiamo lavorando per avere lo stesso risultato riguardo quelli ancora vivi, indicando e utilizzando misure ancora più severe (…) Il numero settimanale dei morti non è ancora da considerarsi soddisfacente”.
Nel 1916, Enver Pascià, Taalat Pascià e Ahmed Jemal diedero quindi un ulteriore giro di vite, intimando ai loro governatori e ai capi di polizia di “eliminare con le armi, ma se possibile con mezzi più economici, tutti i sopravvissuti dei campi siriani e anatolici”. In questa fase del massacro ebbe modo di distinguersi per efficienza il governatore del già citato distretto di Deir al-Azor, Zeki Bey, che - secondo quanto riporta J. Bryce (vedi James Bryce and Arnold Toynbee, The Treatment of Armenians in the Ottoman Empire, 1915–1916: Documents Presented to Viscount Grey of Fallodon by Viscount Bryce ) - “rinchiuse 500 armeni all’interno di una stretta palizzata, costruita su una piana desertica, e li fece morire di fame e di sete”. Durante l’estate del 1916, gli uomini di Zeki eliminarono complessivamente oltre 20.000 armeni. E a dimostrazione della criminale sfacciataggine dei leader turchi, basti pensare che Taalat Pascià arrivò a vantarsi dell’efficienza del suo governatore con l’ambasciatore americano Morgenthau, al quale egli ebbe anche il coraggio di chiedere “l’elenco delle polizze assicurazioni sulla vita che gli armeni più ricchi (deceduti nei campi di sterminio) avevano precedentemente stipulato con compagnie americane, in modo da consentire al governo di incassare gli utili delle polizze”.
Intanto, nelle regioni orientali e settentrionali dell’impero ottomano, per le comunità armene che erano riuscite a trovare rifugio nelle valli del Caucaso stava per compiersi un destino decisamente crudele e beffardo. In seguito alla rivoluzione bolscevica del 1917, l’esercito russo si era infatti ritirato dall’Anatolia orientale e dalla Ciscaucasia, abbandonando gli armeni al loro destino. Rioccupata l’importante città-fortezza di Kars, le forze ottomane avevano iniziato una vera e propria caccia all’uomo, eliminando circa 19.000 cristiani. Identica sorte toccò a quei profughi armeni che, rifugiatisi in Georgia e nella regione di Baku, furono passati per le armi dalle locali minoranze mussulmane tartare e cecene. Nel settembre 1918, nella sola area di Baku furono eliminati 30.000 cristiani.
Ma la guerra stava ormai volgendo al termine e nell’imminenza del crollo della Sublime Porta, i responsabili delle stragi iniziarono a dileguarsi. Quando, nell’ottobre 1918, la Turchia si arrese alle forze dell’Intesa, i principali dirigenti del partito dei Giovani Turchi vennero arrestati dai britannici ed internati a Malta per un breve periodo. A carico dei fautori e degli esecutori dei massacri fu intentato un discutibile processo svoltosi nel 1919 a Costantinopoli sotto la supervisione del nuovo primo ministro Damad Ferid Pascià che alla Conferenza di pace di Parigi, il 17 luglio 1919 aveva ammesso: “Durante la guerra, quasi l’intero mondo civilizzato fu commosso alla notizia dei crimini che i Turchi avrebbero commesso. Lungi da me il pensiero di travestire questi misfatti che sono tali da far per sempre trepidare d’orrore la coscienza umana. Cercherò ancora di meno di attenuare il grado di colpevolezza degli autori del grande dramma”.
Lo scopo del processo di Costantinopoli non era in realtà quello di rendere giustizia al popolo armeno e di chiarire le colpe pregresse dell’amministrazione ottomana (cioè quelle di prima della Grande Guerra), bensì quello di scaricare tutte le colpe sui leader dei Giovani Turchi, sicuramente responsabili, ma che avevano potuto portare a compimento il loro piano di sterminio, grazie alla connivenza di larghi strati della burocrazia civile e militare. Il processo si risolse quindi in una farsa, senza considerare che nei confronti dei molti imputati condannati in contumacia (nell’autunno del 1918 quasi tutti erano riusciti ad abbandonare al Turchia), non furono mai presentate richieste di estradizione. Non solo. In una fase successiva anche i verdetti della corte vennero in gran parte annullati ed archiviati.
Sempre nello stesso periodo altre corti turche si occuparono di crimini circostanziati, cioè riguardanti specifiche operazioni di sterminio portate a compimento in diverse regioni dell’ex impero. Quale artefice del massacro compiuto a Yozgat ai danni di un grosso gruppo di prigionieri armeni, il vice-governatore Kemal venne condannato, come pure il governatore distrettuale di Trebisonda. Nel processo in contumacia indetto contro Behaeddin Shakir autore del massacro della città di Karput, furono gli stessi, pochi scampati a descrivere dettagliatamente il ruolo ricoperto dalle varie istituzioni amministrative e militari locali e dalle organizzazioni speciali statali incaricate di organizzare le varie fasi della persecuzione. Ciononostante, anche in questo caso molte delle pene inflitte dai giudici ai colpevoli di questi orrori furono inspiegabilmente annullate.
Nell’ottobre del 1919, a Yerevan, i vertici del partito armeno Dashnak, più che mai decisi a farsi giustizia, misero a punto un piano (l’Operazione Nemesis) per eliminare di alcuni tra i principali fautori dell’olocausto, compresi quelli fuggiti all’estero. Un gruppo di lavoro coordinato da Shahan Natalie e Grigor Merjanov, stilò una lista di circa 200 nominativi di uomini politici e funzionari turchi ritenuti responsabili del genocidio, e di armeni ‘traditori’ che con il loro comportamento avrebbero favorito le stragi.
Il 15 marzo del 1921, a Berlino, l’ex ministro degli Interni Talaat Pascià, il principale artefice dell’olocausto armeno, venne ucciso da Solomon Tehlirian che, tuttavia, dopo essere stato arrestato e processato, nel mese di giugno dello stesso anno sarà graziato da un tribunale tedesco. Il 18 luglio 1921, fu la volta di Pipit Jivanshir Khan, coordinatore del massacro di Baku, assassinato a Constantinopoli, da Misak Torlakian. Il killer fu arrestato, ma rilasciato dalla polizia inglese. Il 5 dicembre, a Berlino, l’agente Arshavir Shiragian eliminò l’ex primo ministro turco Said Halim Pascià. Shiragian scampò all’arresto, rientrando poi a Constantinopoli. Il 17 aprile 1922, sempre a Berlino, Aram Yerganian, spalleggiato probabilmente da un altro sicario (il misterioso “agente T”) da lui ingaggiato, freddò Behaeddin Shakir Bey, coordinatore dello speciale Comitato ittihadista e Jemal Azmi, il ‘mostro’ di Trebisonda, responsabile della morte di 15.000 armeni, e già condannato, nel 1919, alla pena capitale da un tribunale militare turco che tuttavia non aveva ritenuto opportuno rendere esecutiva la sentenza. Il 25 luglio 1922, fu la volta dell’ex ministro della Difesa Jemal Pascià che a Tbilisi cadde sotto i colpi di Stepan Dzaghigian e Bedros D. Boghosian. Curiosa, ma decisamente consona al personaggio fu invece la fine di Enver Pascià, probabilmente il più ambizioso e idealista dei triumviri turchi, il “piccolo Napoleone” dell’impero e il più tenace propugnatore del movimento “internazionalista” turco. Rifugiatosi tra le tribù dell’Asia Centrale, dove pensava di realizzare il suo antico sogno panturanico, cioè la creazione di una Grande Nazione Turca, agli inizi degli anni Venti Enver scatenò una rivolta mussulmana contro il potere sovietico. Ma il 4 agosto 1922, nei pressi di Baldzhuan, località del Turkestan meridionale (oggi inclusa del territorio del Tagikistan), egli venne sconfitto e ucciso con pochi suoi seguaci da preponderanti forze bolsceviche.




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V. Dadrian, Storia del genocidio armeno, Guerini, Milano, 2003
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B. H. Liddell Hart, La Prima Guerra Mondiale 1914-18, Rizzoli Editore, Milano 1972
D. Fromkin, Una pace senza pace, Rizzoli Libri, Milano 1992
M. Gilbert, La grande storia della Prima Guerra Mondiale, Arnoldo Mondatori Editore, Milano 1998
A.Emin (Yalman), Turkey in the World War, Newhaven, 1930
A. Rosselli, Sulla Turchia e l’Europa, Solfanelli Editore, Chieti, 2006
A. Rosselli, L’Olocausto armeno, Solfanelli Editore, Chieti, 2007.
A. Rosselli, Il tramonto della Mezzaluna – la Turchia durante la Prima Guerra Mondiale, Rizzoli Bur, Milano, 2003

mercoledì 22 aprile 2020

Alberto Rosselli: istantanee di alcune conferenze e presentazione di testi.

Alberto Rosselli: istantanee di alcune conferenze e presentazioni di testi.


Milano, 2019.

Roma, 2017.

Milano, 2019.

Genova, 2017.

Dolceacqua (IM), 2017.

Genova, 2016.

Genova, 2007.

Gavi (AL), 2005.

Genova, 2015.

Alessandria, 2015.

Milano, 2010.

Genova, 2017.

Milano, 2019.

Parma, 2018.
Gorizia, 2009.

Genova, 2015.

Genova, 2003.
Parma, 2016.

Genova, 2018.

Verona, 2003.

Genova, 2015.

Firenze, 2020.

Arezzo, 2016.

Avigliana (TO), 2015.

Genova, 2018.

Chiavari, 2017.

Genova, 2017.

Genova, 2017.

Roma, 2017.

Verona, 2003.

Milano, 2019.

Roma, 2018.

Roma, 2018.

Roma, 2018.

Imperia, 2017.









































venerdì 17 aprile 2020

Alberto Rosselli con l'Ambasciatore di Israele Dror Eydare (foto di Roberto Bobbio). Genova, 10 Febbraio 2020.




Alberto Rosselli con l'Ambasciatore di Israele Dror Eydare (foto di Roberto Bobbio). 
Genova, 10 Febbraio 2020.

Il libro donato da Rosselli all'Ambasciatore Dror Eydare.


mercoledì 15 aprile 2020

Una voce fuori dal coro: Gianbattista Vico.



Una voce fuori dal coro: Giambattista Vico.

Giambattista Vico - Filosofo (Napoli 1668 - ivi 1744). Terzultimo degli otto figli di Antonio, modestissimo libraio, e di Candida Masullo, dotato di un carattere che egli stesso definiva "melanconico ed acre", di debole e delicata costituzione, entrò all'età di dodici anni nel collegio gesuita "a Gesù vecchio" per frequentarvi la seconda classe di grammatica. Lasciata la scuola, si mise a studiare per proprio conto i testi logici di Pietro Ispano e Paolo Veneto, impresa che si rivelò ben presto superiore alle sue forze e che abbandonò, interrompendo gli studî per più di un anno. Tornato al collegio gesuita per seguire le lezioni del filosofo scotista Giuseppe Ricci, ma nuovamente insoddisfatto, attese per proprio conto allo studio della metafisica di F. Suarez. Per assecondare un desiderio del padre che lo voleva giurista, frequentò per un paio di mesi le lezioni private di Francesco Verde e si iscrisse per tre anni, dal 1688 al 1691, ma senza seguirne i corsi, alla facoltà di giurisprudenza dell'università di Napoli. Conseguì poi la laurea, forse a Salerno, tra il 1693 e il 1694. Costretto a cercare ben presto lavoro, dopo un tentativo di avviamento all'avvocatura, accettò il posto di precettore dei figli del marchese Domenico Rocca. Nei nove anni di tale incarico (1686-95), trascorsi in parte a Vatolla nel Cilento, V. venne consolidando la sua preparazione filosofica, partecipando altresì attivamente a quel movimento di idee che si era venuto sviluppando attorno a personalità come Tommaso Cornelio, Leonardo di Capua e Francesco d'Andrea, che conducevano un'assidua lotta contro la cultura scolastica, aprendosi alle nuove correnti della cultura europea come il cartesianismo, la filosofia di Gassendi, l'erudizione storica. In questi stessi anni, abbandonato lo studio del greco, si dedicò interamente allo studio del latino e si impadronì della filosofia cartesiana, verso la quale assunse però subito un atteggiamento polemico. Riprese anche gli studî di giurisprudenza, accostandosi al pensiero dei grandi teorici e storici del diritto francesi e olandesi, e affinò la sua cultura letteraria. Tornato a casa, dovette provvedere al mantenimento del padre e dei fratelli, quindi incominciò a dar lezioni di retorica e anche di grammatica elementare, ad accettare per commissione ogni sorta di lavoro (poesie, epigrafi, orazioni funebri, panegirici, ecc.): occupazione che non poté abbandonare neppure quando (1699) fu nominato, per concorso, lettore d'eloquenza all'università, poiché lo scarso compenso era del tutto insufficiente ai bisogni della famiglia (in quell'anno egli prese moglie, dalla quale ebbe poi otto figli). L'obbligo imposto agli insegnanti di eloquenza di pronunciare una solenne orazione all'apertura di ogni anno scolastico gli diede modo di comporre sei prolusioni (1699-1706), che costituiscono i suoi primi scritti filosofici, e che, rielaborate negli anni successivi, furono pubblicate postume nel 1869. Una settima prolusione, pronunciata il 18 ott. 1708 e pubblicata l'anno seguente con il titolo De nostri temporis studiorum ratione, segna la prima affermazione originale del pensiero vichiano. Negli anni seguenti, accentuatasi la sua posizione polemica contro Cartesio, approfonditi i suoi studî platonici (lesse e rilesse il Cratilo platonico), V. compose il De antiquissima Italorum sapientia ex latinae linguae originibus eruenda, che doveva constare di tre libri (uno sulla metafisica, con un'appendice sulla logica, uno sulla fisica e uno sull'etica) e di cui invece uscì soltanto il primo libro (1710) col sottotitolo di Liber metaphysicus. Col materiale preparato per il secondo libro, sulla fisica, V. compose nel 1713 un opuscolo (De aequilibrio corporis animantis), di cui sono andati perduti sia il manoscritto sia il testo a stampa, apparso postumo, pare, in una rivista napoletana alla fine del Settecento. Seguirono poi una Risposta (1711) e una Seconda risposta (1712) ad alcune censure sul De antiquissima che erano uscite anonime nel Giornale de' letterati d'Italia. Incaricato dal suo allievo il duca Adriano Carafa, di scrivere in latino la vita del maresciallo Antonio Carafa (De rebus gestis Antonii Caraphaei) fra il 1713 e il 1715, prese a studiare il De iure belli et pacis di U. Grozio, e tanto ne fu preso, che Grozio fu da allora da lui considerato come il quarto dei suoi "autori" dopo Platone, Tacito, Bacone. Frattanto condusse a termine i primi abbozzi della Scienza nuova: annotazioni all'opera di Grozio, una prolusione del 1719, una trattazione in tre libri, che sono andati quasi completamente perduti, mentre ci è pervenuto il Diritto universale, composto di una specie di manifesto stampato in foglio volante (Sinopsi del diritto universale, 1720), di due libri (De universi iuris uno principio et fine uno; De constantia iurisprudentis), e di una lunga serie di Notae (1722). Perduto il concorso a una cattedra di diritto romano con la cui retribuzione avrebbe potuto far fronte alle sue esigenze economiche, V. si diede alla ricomposizione dell'opera che è solitamente designata come la Scienza nuova in forma negativa, oggi completamente perduta, e che fu poi riscritta e condensata in un mese (agosto-settembre 1725) nei Principj di una scienza nuova dintorno alla natura delle nazioni, stampati a Napoli a sue spese nell'ottobre 1725 e da lui stesso chiamati poi col nome di Scienza nuova prima. Nello stesso anno, segnato da varie difficoltà e sciagure familiari, prese a scrivere l'Autobiografia, pubblicata a Venezia tra il 1728 e il 1729 a cui nel 1731 fece un'aggiunta, pubblicata postuma nel 1818. Dal 1725 al 1728 dava, in quattro lettere, notevoli saggi critici sull'indole della vera poesia, su Dante, sulla condizione degli studî in Europa, sul cartesianismo; le due sue migliori orazioni funebri, mentre s'intensificava la sua attività didattica, che aveva sempre più successo fra i giovani; un opuscolo (Vindiciae, 1729), contro un denigratore della Scienza nuova, andato disperso, e infine (dicembre 1729 - aprile 1730) la seconda Scienza nuova. Neppure questa volta l'opera ebbe successo; tuttavia la multiforme attività gli aveva ormai procurato larga fama, e così anche le sue difficoltà economiche, essendogli stato raddoppiato lo stipendio e assegnata la carica di storiografo regio (1735), furono superate. Durante gli ultimi anni non smise mai di aggiungere alla Scienza nuova commenti, note, correzioni, che, nuovamente rielaborati e fusi nel testo, costituirono la Scienza nuova terza, uscita postuma nel giugno 1744. ▭ V. è fortemente legato alla cultura umanistica (per la sua stessa preparazione retorico-letteraria) quale si era venuta arricchendo nell'ambiente napoletano della seconda metà del Seicento; qui avevano trovato diffusione le grandi opere degli autori che meglio rappresentavano la cultura europea del secolo: Bacone e Grozio, Descartes e Gassendi, Hobbes e poi ancora Spinoza e Bayle. Le idee e polemiche della sua epoca sono ben presenti negli scritti di V.: nelle sei orazioni inaugurali e soprattutto in quella De nostri temporis studiorum ratione, interviene nella polemica anticartesiana difendendo il valore dello studio delle lettere e della storia, delle discipline morali e civili e polemizzando contro il primato da Cartesio riconosciuto alle scienze matematiche e fisiche. Temi questi che vengono approfonditi nel De antiquissima Italorum sapientia: partendo da un'analisi di termini latini, V. vuole ritrovare in essi i principî dell'antica "sapienza italica", e anzitutto i fondamenti di una metafisica quale presupposto della fisica. Contro la riduzione cartesiana della materia a estensione, V. svolge la dottrina dei corpi come costituiti di punti metafisici indivisibili, centri di forza (conati). Nella stessa opera, V. rifiuta il cogito come fondamento di scienza, perché esso non esce dal piano della certezza soggettiva; criterio di verità e fondamento di una vera scienza è invece per V. la "conversione" del vero con il fatto (verum et factum reciprocantur seu convertuntur), nel senso che il principio e la regola di verità sta nel conoscere la genesi delle cose e quindi nella capacità di produrle. Ciò posto, Dio solo conosce le cose della natura perché ne è il creatore; l'uomo non può attingere siffatta conoscenza, ma semplicemente potrà conoscere gli aspetti esteriori delle cose, non la natura o causa che ne costituisce l'intima struttura; potrà invece pienamente conoscere le matematiche perché qui l'uomo è il creatore del "mondo di figure e numeri" di cui esse sono costituite. Le matematiche quindi, per il loro carattere convenzionale e arbitrario, sono perfettamente conosciute dall'uomo ma per sé stesse non possono ritenersi costitutive della realtà esterna. Il criterio della "conversione" del vero con il fatto, che affonda le sue radici nella cultura del Seicento europeo, avrà sviluppi assai più ampî nelle successive opere: accostatosi attraverso Grozio e la tradizione erudita antica e moderna ai problemi della storia, V. si avvia a costituire una nuova scienza, la scienza appunto dell'accadere storico. Questa è l'ispirazione centrale della Scienza nuova: una scienza della storia è possibile perché il mondo della storia è fatto dagli uomini, per cui se ne possono ritrovare i principî e le leggi "entro le modificazioni della nostra medesima mente umana". Il "mondo delle nazioni o sia il mondo civile" diviene così l'oggetto proprio della "scienza nuova" che unirà filologia e filosofia, cioè il "certo" offerto dall'erudizione storica con il "vero" della filosofia che indica le idee e leggi eterne che governano la storia. Compito della filosofia sarà dunque quello di contemplare "questo mondo delle nazioni nella sua idea eterna", in stretto rapporto con la verifica, che potremmo dire "sperimentale", data dalle ricerche della filologia. Così la "nuova scienza viene ad essere ad un fiato una storia delle idee, costumi e fatti del genere umano". La storia si svolge secondo V. scandita da una successione di momenti che riproducono le tappe dello sviluppo stesso dell'uomo: come in questo vediamo un succedersi di senso, fantasia e ragione, così nella storia si succedono l'età degli dèi, degli eroi e degli uomini. La prima è l'età in cui gli uomini erano come "bestioni" in una condizione di vita ferina, da cui, lentamente, sotto l'incombente e ostile realtà naturale, uscirono scoprendo la divinità, le leggi morali, e quindi istituendo i primi legami sociali. Inizia così il processo di incivilimento, fino all'età della dispiegata ragione, l'età degli uomini: processo che è guidato dalla provvidenza secondo disegni grandiosi che sovrastano i particolari fini perseguiti dagli uomini; da questo punto di vista la scienza nuova si vuole configurare come "teologia civile ragionata della provvidenza". Particolare importanza assume, nel quadro storico tracciato da V., lo studio delle prime fasi della vita degli uomini dalle quali resta escluso il popolo ebreo quale protagonista della storia sacra, guidato e aiutato da Dio: i primitivi "bestioni" che lentamente, attraverso istituzioni religiose e civili, raggiungono forme di vita sociale, prima di conquistare la ragione "dapprima sentono senza avvertire, poi avvertono con animo perturbato e commosso". V. dà valore e significato positivo a queste prime fasi della storia umana, momenti aurorali, primitivi, barbari, che ricordano la fanciullezza dell'uomo: furono i tempi della nascita del linguaggio, della piena espressione della "fantasia", della creazione dei grandi miti e della poesia. "I primi popoli furono poeti, i quali parlarono per caratteri poetici": il linguaggio, inteso come creazione ed espressione della fantasia (non dunque artificio), è essenzialmente poetico perché quegli antichi uomini si esprimevano con immagini e metafore; ogni espressione della loro vita è poetica, cioè poetica è la teologia, la fisica, la politica degli antichi "barbari", forme di "sapere" intessute di "universali fantastici" o "caratteri poetici" che sono alla base dei grandi miti dei popoli primitivi. L'età eroica, cui soprattutto si riferiscono le considerazioni di V. sulla fantasia, il linguaggio, la poesia, trovò la sua massima espressione in Omero: i poemi a lui attribuiti, soprattutto l'Iliade (che V. considera anteriore all'Odissea), sono l'espressione del popolo greco che narra la sua storia. All'età degli dèi e all'età degli eroi succede l'età degli uomini, "nella quale tutti si riconobbero essere uguali in natura umana" che si esprime nella "dispiegata ragione". Ma la storia umana non realizza un processo lineare: dalla "dispiegata ragione" gli uomini cadono nella "barbarie della riflessione" fino alla negazione di Dio: così gli uomini ritornano in una nuova barbarie da cui ricomincia un nuovo "corso" della storia. Esempio di questa caduta è il Medioevo, "nuova barbarie", con il suo lento riscoprire linguaggi, miti, organizzazioni civili: di quest'età è massima espressione Dante, il "toscano Omero", che la rispecchia nel suo poema. Si compie così in corsi e ricorsi, che non comportano ripetersi di accadimenti individuali ma ritorno di analoghe forme storiche, la storia delle nazioni in cui sempre "architetto" è la divina provvidenza.
Fonte: Enciclopedia Treccani.