lunedì 23 marzo 2020

Guerra civile greca (1944-1949): quando i partigiani comunisti rapivano i bambini per indottrinarli al credo marxista. Di Alberto Rosselli.





Guerra civile greca: quando i partigiani comunisti rapivano i bambini per indottrinarli al credo marxista.

Di Alberto Rosselli

Durante la terza fase della Guerra Civile Greca (1944-1949), i partigiani comunisti, in lotta contro l’esercito regolare greco, avviarono una vasta campagna di sequestri ai danni di bambini e ragazzi, in modo da sottrarre al governo linfa vitale (anche se i capi marxisti sostennero sempre – anche dopo la fine della Guerra Civile – che tale pratica venne adottata per “porre in salvo la gioventù greca, allontanandola dai luoghi di combattimento”). Nelle regioni poste sotto il loro controllo, i comunisti non ebbero difficoltà nel censire e nell’individuare e sottrarre i fanciulli alla famiglie. Essi erano infatti in possesso dei registri di natalità di tutte le città e i villaggi.
Nel marzo 1948, i primi 2.000 ragazzini sequestrati vennero trasferiti al nord e poi espatriati in Albania, Bulgaria e Iugoslavia. Gli abitanti dei villaggi che tentarono di proteggere i fanciulli nascondendoli nei boschi, finirono fucilati o impiccati. Messa al corrente del piano comunista, la Croce Rossa cercò di muoversi, ma a fronte degli enormi ostacoli trovati sul suo cammino, non riuscì a fare nulla, tranne redigere, con l’aiuto delle autorità governative e grazie alle centinaia di testimonianze dei famigliari dei sequestrati, un censimento che, dopo una serie di aggiornamenti, portò, a stabilire che i bambini sequestrati e fatti espatriare forzosamente ammontavano, alla fine del 1948, a 28.296 (talune fonti fanno lievitare la cifra ad oltre 30.000) unità di età compresa tra i tre e i 14 anni. Questa massa di piccoli disperati venne suddivisa per sesso e poi rinchiusa in appositi “centri di rieducazione socialista”. Secondo i dati della Croce Rossa, 18.500 bambini finirono distribuiti in 17 campi bulgari e il resto in 11 campi romeni, altrettanti ungheresi, diciotto cecoslovacchi, tre polacchi, cinque albanesi e della Germania Orientale e 15 iugoslavi (dove ne furono segregati dai 9.500 agli 11.600). Più dettagliatamente, sembra che nel 1950, cinquemila 132 bimbi risultassero presenti in Romania, quattromila 148 in Cecoslovacchia, tremila 590 in Polonia, duemila 859 in Ungheria e 2.660 in Bulgaria.
Va inoltre precisato che i frequenti sequestri di fanciulli portati a compimento dai guerriglieri comunisti greci rientravano nell’ambito di una strategia di tipo geopolitico. Forti del consenso di  Tito e di quello di Stalin,  le bande marxiste del nord agirono in questo modo per cercare di separare la Macedonia greca dal resto dello stato ellenico, per poi trasformarla in una repubblica socialista indipendente. Non a caso ai bambini di razza macedone residenti in Grecia che furono rapiti venne affibbiato l’appellativo di Detsa Begaltsi  (bambini sfollati). Detto questo, va ricordato che a molti altri bimbi greci non di origini macedoni trasferiti in Bulgaria o Iugoslavia fu poi fatto loro credere di vantare egualmente origini macedoni. Nell’estate del 1948, quando la rottura tra il leader Tito e il Cominform divenne una realtà, il dittatore iugoslavo volle sganciarsi da ogni responsabilità e di conseguenza 11.600 bambini reclusi nelle “case del Popolo” iugoslave vennero spediti in Cecoslovacchia, Ungheria, Romania e Polonia. E tutto ciò nonostante le ripetute, vane proteste del governo greco.
Il 17 novembre 1948, la Terza Assemblea Generale delle Nazioni Unite votò una risoluzione (la n. 193) che condannò senza mezzi termini l’operato dei partigiani comunisti ellenici, e nel novembre dell’anno successivo, l’ONU richiese inutilmente (con la risoluzione n. 288) agli Stati comunisti di riconsegnare alla Grecia tutti i bambini sequestrati. Ma i governi di Praga, Budapest, Bucarest e Varsavia negarono la restituzione affermando in un comunicato congiunto “che la deportazione  era stata in realtà un atto umanitario atto a salvaguardare la vita dei bambini greci dagli orrori della Guerra Civile”.
Nulla di più falso in quanto, secondo i resoconti della Croce Rossa Internazionale forniti alle Nazioni Unite e molteplici dossier redatti dalle ambasciate e dai consolati occidentali in Europa Orientale, il vero scopo dei rapimenti portati a compimento dalle bande comuniste elleniche era ben altro. I ragazzini sequestrati, che venivano sottratti alla famiglie in quanto considerate “cellule primarie di una società contadina corrotta in quanto legata alla religione e alla monarchia”, erano solitamente trasferiti in appositi “villaggi proletari per l’infanzia” ubicati in Albania, Iugoslavia, Bulgaria, Ungheria e poi, come si è visto, in altri Paesi d’oltre cortina, dove venivano sì nutriti e vestiti, ma anche sottoposti ad una martellante propaganda politica, o meglio ad un vero e proprio lavaggio del cervello, con lo scopo di trasformarli in fedeli esecutori del verbo marxista. Tuttavia, stando alle memorie di Zavros Constandinides, giovane greco che, recluso per anni in Ungheria, nel 1956 riuscì a fuggire – partecipando tra l’altro alla rivolta anti sovietica di Budapest (23 ottobre al 10 – 11 novembre 1956) – “pochi furono i miei coetanei a piegarsi alla dottrina comunista”. Con il compimento del tredicesimo anno di età tutti i ragazzi venivano poi impiegati, o meglio ‘schiavizzati’, per effettuare pesanti lavori di pubblica o militare utilità. Come accadde per i piccoli deportati in Ungheria, costretti ad effettuare massacranti lavori di bonifica nella regione paludosa dell’Hartchag.
Dopo la fine della Guerra Civile Greca, un ristretto nucleo di fanciulli riuscì a fare ritorno alle proprie famiglie. Tra il 1950 e il 1952, i regimi d’oltre cortina permisero ad appena 684 di essi di rimpatriare: fortuna che, nel 1963, arrise ad altri 4.000 bambini, divenuti ormai uomini. Va ricordato che anche altri fanciulli greci rapiti, poi diventati adulti, riuscirono per vie traverse a raggiungere, verso la fine degli anni Cinquanta, il confine della Germania occidentale e a mettersi in salvo.
Ciononostante, dopo la fine della Guerra Civile, moltissimi bambini non fecero più rientro in Grecia, alcuni perché avevano deciso di rimanere nei Paesi del Blocco Orientale, molti altri perché erano “misteriosamente scomparsi” nei campi di rieducazione, come riferì la Croce Rossa Greca. Successivamente, la regina di Grecia Federica di Hannover creò, grazie al sostegno della Nazioni Unite,  58 “Città dei  Bambini” o Paidopolei, suscitando la violenta contestazione di tutta la sinistra europea che aveva in odio l’aristocratica tedesca) nei quali confluiranno molti orfani greci ed anche i figli di combattenti del DSE.
Ma torniamo al destino dei fanciulli dispersi in Europa Orientale. Ancora agli inizi degli anni Ottanta, in Polonia risultavano presenti circa 1.000/1.500 (alcune fonti riportano cifre ancora più elevate) greci rapiti, ancora in tenerissima età, nel 1948. In seguito, molti di essi entrarono a fare parte del Movimento “Solidarność” (Sindacato Autonomo dei Lavoratori “Solidarietà”) fondato nel settembre 1980 da Lech Wałesa, ed alcuni vennero incarcerati anche dal regime comunista di Varsavia dopo l’introduzione della legge marziale del dicembre 1981. Nel 1989, con l’inizio del processo di democratizzazione del Paese, la quasi totalità degli ex ‘piccoli’ profughi ellenici fece domanda per ritornare in Grecia.
Nel 1985, il fenomeno del rapimento in massa dei bimbi venne ripreso dal noto regista e produttore cinematografico e televisivo inglese Peter Yates con il film Eleni, interpretato, tra gli altri, da John Malkovich e Linda Hunt. La pellicola venne però snobbata dalla quasi totalità della critica di sinistra (soprattutto quella italiana) alla quale non andò evidentemente a genio l’imbarazzante soggetto. La trama del film narra la storia, un po’ romanzata, della quarantunenne Eleni Gatzoyiannis, assassinata dai guerriglieri comunisti il 28 agosto del 1948 nel villaggio montano di Lia. La donna venne fucilata e finita con un colpo alla nuca  suo figlio Nicholas, emigrato fortunosamente in America, riuscirà poi, alla fine della Guerra Civile, a fare rientro in Grecia per capire le vere ragioni della morte di sua madre.

giovedì 12 marzo 2020

Alberto Rosselli: modeste riflessioni 'al tempo' del Coronavirus.

Modeste riflessioni 'al tempo' del Coronavirus.

Ormai è 'pandemia'. Una tragedia. Penso a chi ha perso la vita e che lotta per salvarsi con autentica pietà cristiana. Ciononostante, penso che questo flagello serva - a chi sopravviverà - a ripensare nel suo intimo ai Valori immanenti della Tradizione, e più in generale al 'rinnovamento radicale' della politica, della geopolitica e dell'economia. Il modello 'mondialista' senza frontiere e il 'globalismo' hanno accelerato questa disgrazia. L'Europa 'unita' è soltanto un inutile spot che fa comodo a chi ci comanda. Dobbiamo - come italiani - ritornare gradualmente ad un modello di vita più autonomo e responsabile. Condizione essenziale: ripristinare - una volta passata la tormenta - un profilo che faccia leva sulla 'sovranità'. Amichevoli rapporti con tutti, ma niente sudditanza nei confronti dei mega organismi internazionali e sovranazionali (quelli che hanno fallito alla prova dei fatti). Questa è la mia opinione, anzi la mia certezza.

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Le 'culture' vanno e vengono, ma le 'Civiltà' (come la nostra) rimangono, magari dormienti, ma rimangono, e allo squillo di un inno di morte (come una pandemia), resistono aggrappandosi alla Tradizione. La nostra Civiltà è la sintesi di molte altre, e come tale ha in sè gli anticorpi per non morire e rinascere, a condizione che ognuno di noi si identifichi nelle proprie radici più profonde. La nostra Civiltà, di matrice greco-romana, ebraico-cristiana, possiede nel suo profondo radici robuste, e mai completamente sradicate dal relativismo nichilista del 'modernismo'. Quando la tragedia della pandemia cesserà, dovremo utilizzare questo retaggio atavico al pari dei mattoni utili per edificare un nuovo, migliore e più giusto sistema socio-politico. Anche l'apparente declino di una Civiltà (come la nostra) avvelenata, è del tutto parziale. I frammenti di ciò che avremo perduto alla fine di questa pandemia serviranno per edificare il 'Nuovo' nella 'Tradizione'.


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Questa terribile epidemia potrebbe rappresentare l'occasione per ripensare alla Politica e all'Economia. Quando questa pesantissima epidemia cesserà, nulla sarà più come prima. Occorrerà rivedere e correggere tutto: dalla gestione diretta del Paese ai rapporti con la UE (che, a mio avviso, sarà costretta a ridurre le sue 'pretese' e a rinunciare al suo potere dispotico esercitato sui parlamenti nazionali), dalle politiche economico-finanziare all'immigrazione (che dovrà essere severamente limitata e 'controllata') allo 'stile di vita', mi auguro più sobrio e meno promiscuo. L'Italia, nella fattispecie, dovrà ritrovare la sua vera identità culturale e tornare ad essere una Nazione sovrana: aperta al dialogo con tutti, ma totalmente autonoma per quanto concerne le scelte derivanti dalla sua stessa natura e predisposizione.


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Questa epidemia - io spero - servirà come monito escatologico. Il sistema globalizzatore e globalizzante ha provocato l'ennesimo disastro e la morte. Auspico la fine di un'Europa governata da poteri forti e cialtroni criminali. Viva il sovranismo, viva il nazionalismo. Che l'Italia risorga non serva di una UE egoista ed arrogante, ma che ritrovi una sua dignità.


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Viviamo in un'epoca senza direzione di marcia, priva di ideali, e senza il conforto di idee mutuate da Padri antichi e da Madri sagge che possano illuminare più la nostra coscienza. Ed è per questa ragione che un microscopico virus domina e distrugge, giustamente, la nostra accidia e la nostra vanagloria basata sulla supponenza di essere semidei. In una parola, pur essendo eredi di una grande Civiltà, siamo orfani irrispettosi di essa. Tutto ciò può ascriversi ad un 'peccato': l'avere 'dimenticato' - ripeto - le nostre origini incardinate sulla sapienza di Aristotele, sulla rielaborazione sincretica di S. Tommaso e sul sangue della croce di Cristo. Noi europei, ormai figli superbi ma deboli del 'nulla' nichilista e relativista, ci sgomentiamo all'improvviso di fronte ad una 'peste', poiché non abbiamo più il coraggio, la saggezza e l'umiltà di rammentare da dove veniamo. Siamo orfani. Ma per colpa nostra.


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mercoledì 4 marzo 2020

'La lunga guerra fratricida': Recensione di Gianandrea Gaiani, Direttore della testata 'Analisi Difesa'.


Recensione di Gianandrea Gaiani, Direttore della testata 'Analisi Difesa' (https://www.analisidifesa.it)

Pochi sanno qualcosa, anche per sommi capi, dei crudeli e coinvolgenti conflitti politico-ideologici che sconvolsero la Cina nella prima metà del Novecento. Siamo abituati a considerare la Cina come una grande potenza in grado di invadere il pianeta non con sistemi bellici, ma con strategie commerciali. E di successo. Questa è la Cina di oggi. La Cina di ieri ce la racconta, con la sua ormai collaudata capacità narrativa, Alberto Rosselli con questo suo nuovo lavoro storico «Cina 1927-1950. La lunga guerra fratricida». Testo che prende il via dalla rivoluzione del 1911, il crollo della Monarchia e la proclamazione della Repubblica, con Sun Yat-sen primo presidente.
Una Repubblica che si impone immediatamente un vasto programma di modernizzazione del Paese, intavolando una serie di accordi (commerciali, industriali e militari) con le Nazioni occidentali, soprattutto facenti parte della Triplice Intesa (Francia, Gran Bretagna e Russia, poi anche Italia): cioè l’alleanza anti austro-prussiana che la neonata Repubblica cinese aveva supportato con aiuti di vario genere, anche militari, nel corso della Grande Guerra.
Negli Anni Venti, il Kuomintang (KMT), il partito fondato da Sun Yat-sen dopo la rivoluzione del 1911, diviene il primo partito cinese, seguìto dal Partito Comunista Cinese (PCC) – facente già parte del Kuomintang – formatosi sotto la guida di Mao Tse-tung, strettamente legato a Lenin, il capo del partito bolscevico il responsabile dello sterminio della famiglia dell’ultimo Zar Nicola II.
Ben presto i rapporti tra i due partiti iniziano a farsi molto tesi, fino all’aperta accusa lanciata da Mao a Chiang Kai-shek (succeduto a Sun Yat-sen nella leadership del Kuomintang) di volere instaurare un regime autoritario e “nemico del popolo”.
Da qui la prima fase della sanguinosa Guerra civile, che si svolge sul finire degli Anni ’20. Una Guerra civile caratterizzata dalle subdole manovre sovietiche tendenti a spaccare in due il Kuomintang spingendo l’ala sinistra a ribellarsi agli ordini di Chiang Khai-shek. Con il tragico risultato di scatenare una dura e selvaggia reazione da parte di Chiang, con un pogrom che costerà la vita a migliaia di cinesi filo-maoisti. Per reazione, e con il sostegno dell’URSS, Mao diede vita ad una “Armata Rossa” cinese presto equipaggiata da Mosca con armi moderne (mitragliatrici, mortai, velivoli da bombardamento e motoscafi armati).
In questa prima fase della Guerra civile cinese, la nazione che si dimostra abile a sfruttare a proprio vantaggio il clima incendiario che ha travolto la Cina, è il vicino Giappone, che con le sue truppe occupa e si impadronisce di nuove aree territoriali cinesi lungo la costa, obbligando poi i nazionalisti di Chiang e i comunisti di Mao a sottoscrivere una tregua e una sorta di ‘alleanza’ contro lo straniero che, malgrado molte infrazioni, durerà dal 1937 al 1945.
Terminata la Seconda Guerra Mondiale, con le atomiche su Hiroshima e Nagasaki, e la sconfitta del Giappone, la potenza che ora controlla e domina la Cina è la Russia di Stalin. Tra giugno e luglio ’47 si svolge l’ultimo, virale scontro tra le Armate del Kuomintang e quelle del PCC, terminato il quale, Mao riorganizza il suo esercito con una autentica messe di altri moderni armamenti ed equipaggiamenti (parte dei quali preda bellica giapponese) forniti da Stalin: premessa indispensabile per una serie di vittorie che determineranno la sconfitta e la fine del KMT.
Nel corso della primavera-estate 1948, le armate comuniste dilagano (complice anche l’inettitudine di alcuni generali nazionalisti) su tutto il territorio: un milione e mezzo di soldati, 700.000 guerriglieri, 23.000 tra cannoni e mortai. Impossibile calcolare il numero delle vittime. Dietro ordine di Mao, I ‘rossi’ non ebbero pietà e passarono per le armi migliaia di prigionieri, anche feriti: il tutto all’insegna della ferocia insita nell’ideologia comunista. L’approfondita ricerca di Alberto Rosselli non manca di ricostruire, e riferire, circa l’ambiguo atteggiamento di Stati Uniti e Gran Bretagna, che, vista la parata, abbandonarono di fatto Chiang Kai-Sehk al suo destino.
L’evento clou di quella vergognosa condotta si verificò il 15 gennaio 1949, giorno in cui i governi di Washington e Londra rifiutarono di aderire alla richiesta di una mediazione tra le parti in conflitto «per non ostacolare le trattative» (così riportò il comunicato ufficiale). Trattative che, in realtà, non portarono a nulla, grazie all’intransigenza di Mao. E fu così che, il 22 gennaio 1949, 250.000 soldati della guarnigione nazionalista di Pechino si arresero alle preponderanti forze di Mao.
Questa fu la prima delle molte mazzate inflitte alle forze del Kuomintang, che si concluderanno con l’occupazione comunista dell’isola di Hainan nel 1950, cioè al termine della Seconda fase della Guerra civile. Tutti da leggere anche i brevi e avvincenti capitoli che Rosselli dedica, in una sorta di appendice, alla Resistenza anticomunista dopo il 1950: lotta condotta da reparti di irriducibili e che si protrasse per diversi anni.
Il grosso dell’esercito del Kuomintang, sempre sotto la guida del generale Chiang Kai-sehk, si ritirò invece sull’isola di Formosa, trasformando, nel contempo, in fortezze una serie di piccoli arcipelaghi situati lungo la costa orientale, dai quali divenne possibile sferrare rapidi colpi di mano contro le truppe di Mao. Non mancò a Chiang, almeno in quell’occasione, l’appoggio della CIA, che contribuì alla formazione del «Corpo Giovanile di Salvezza Anticomunista».
Il tutto nel più ampio quadro della guerra di Corea, che vedeva contrapposte le Forze Armate cinesi e americane: le prime in supporto alla Corea del Nord, le seconde a quella del Sud. L’accurata ricerca storica di Alberto Rosselli ricostruisce, con dovizia di particolari, eventi ed episodi finiti sotto silenzio, non ultimi i vani tentativi di Chiang Kai-sehk di convincere i presidenti USA (da Kennedy a Johnson a Nixon) a fornirgli l’appoggio necessario per abbattere Mao Tse-tung. Ma questa è un’altra storia.

CINA 1927-1950
Libro di Alberto Rosselli.
Prefazione di Luciano Garibaldi
Casa Editrice Fede & Cultura
ordini@fedecultura.com
Copertina patinata colore.
Prezzo di copertina Euro 15

Fonte:  https://www.analisidifesa.it

Di 'buonismo' ci si ammala.


Il 'buonismo è nemico dell'istinto'.

Questo atteggiamento offusca l’intuito naturale, che sa individuare chi vuole ingannarti o usarti; lo eviti prestando ascolto alle voci “cattive” dentro di te.


Quando la fiducia è una trappola
Chi ha una visione ottimistica della vita vive meglio di chi ne ha una pessimistica, affronta le difficoltà con più prontezza e vigore. Questo è certamente vero ma se si esagera con questa fiducia a prescindere, si finisce per non cogliere i pericoli della realtà in cui si vive. In primis non riconosce i manipolatori, cioè coloro che intendono sfruttarlo ai propri fini. Accade ad alcuni che proprio “non vedono” la malevolenza o l’inganno anche quando ce l’hanno chiaramente di fronte, tanto che un osservatore esterno se ne accorge subito. È come se il loro “radar” psichico e mentale non avesse la capacità di cogliere le trame e i segnali ambivalenti che talora è inevitabile incontrare. Il motivo di questa ingenuità risiede nell’associazione di due meccanismi psichici inconsci, chiamati proiezione e negazione.

Un lato Ombra esiste in ognuno di noi
Con la prima (la proiezione) la persona proietta di continuo la propria buona fede negli altri, cioè la attribuisce a chi ha di fronte, a prescindere da chi sia, e quindi trova giustificazioni buoniste a qualsiasi suo comportamento. Con la seconda (la negazione), si difende da un’immagine dell’altro che potrebbe risultare troppo dolorosa o complessa da affrontare, rifiutandola in blocco e negandone l’evidenza. Il candore che ne risulta è dunque segno di immaturità: non si vuole fare esperienza del lato Ombra di chi abbiamo intorno. Si spera – come fanno molti bambini – che il Cattivo non esista e che le persone siano tutte buone e “buone tutte”, nella loro interezza. Ma quando si fa così con gli altri, è perché lo si fa anche e anzitutto con sé stessi. Vuol dire che il “super-ottimista” non conosce, lui per primo, il proprio lato Ombra, la zona oscura della psiche, che ognuno per natura possiede. Forse ne ha paura, forse non l’accetta. Eppure, se non vuole venire raggirato e manipolato, deve cominciare a conoscersi, a vedere i propri aspetti controversi, a riconoscere la propria “manipolazione della realtà”, che sta mettendo in atto. Solo così avrà gli occhi liberi per vedere con chiarezza ciò che lo circonda.

Le emozioni che tendiamo a nascondere

Invidia
Desiderare il successo o la ricchezza altrui ci fa sentire meschini e deboli. Vorremmo essere superiori, l’invidia evidenzia la realtà.

Antipatia di pelle
Si tratta di segnali naturali che ci mettono in allarme verso alcune persone. Per buonismo si tende a non ascoltarli.

Rabbia
Mostrarsi irascibili rompe l’ideale di persona superiore cui si vorrebbe somigliare. Nasconderla però non ci rende migliori, ma solo falsi.

La guida pratica

Accetta la realtà
Invece di imporre a se stessi una visione buonista e non veritiera della realtà, è necessario sviluppare una maggiore capacità critica, che produce uno sguardo più acuto. La realtà può far male, ma non vedere il negativo può fare peggio.

Guarda il tuo lato oscuro
Il candido non ammetterebbe mai di provare sentimento meno che nobili. Si sente sempre onesto, generoso, buono. Ma nessuno è solo bianco o solo nero. Spesso questa visione nasce dal nascondere a se stessi, perché li si ritiene inaccettabili, i piccoli moti di invidia, di rabbia o di odio. Iniziamo a comprendere che non c’è niente di male a provarne: sentire un’emozione “cattiva” non significa “essere cattivi” o “fare cattiverie”. Significa essere umani!

Fai emergere gli schemi negativi
Chi viene spesso manipolato sembra non voler prenderne atto. Soffre, ma non memorizza il danno, e quindi non cerca di prevenirlo. Utile allora è osservare la propria vita per vedere quali sono gli schemi negativi che si ripetono. Scriverli a volte può essere di aiuto per…svegliarsi!.


 Fonte: https://www.riza.it


domenica 1 marzo 2020

Il 21 febbraio, presso il Grand Hotel Minerva di Firenze, Alberto Rosselli ha presentato il suo nuovo libro “La rivolta nazionalista irachena del 1941”.


 Nalla foto, Alberto Rosselli e Lorenzo Somigli.






Il 21 febbraio, Grand Hotel Minerva di Firenze, Alberto Rosselli ha presentato il suo nuovo libro “La rivolta nazionalista irachena del 1941”.

L’instabilità dell’Iraq affonda le sue radici nelle decisioni prese dalle potenze occidentali nella prima metà del Novecento. Ne ha trattato ieri Alberto Rosselli, giornalista e storico, presentando il nuovo libro “La rivolta nazionalista irachena del 1941” al Grand Hotel Minerva di Firenze.
Rosselli, già inviato in Siria e Iraq per ANSA e Reuters, ha ricostruito la storia del paese mostrando come sia stato spartito al tavolo delle potenze internazionali dopo la dissoluzione dell’Impero Ottomano. Destino analogo ad altri territori del Medioriente che, al di là delle belle enunciazioni di principio come “autodeterminazione dei popoli”, hanno finito per essere merce di scambio tra Inghilterra e Francia.
Le risorse petrolifere e la posizione strategica nel Medioriente e sullo stretto di Hormuz rendono l’Iraq un obiettivo per l’Inghilterra che vi impone un mandato che solo all’apparenza concede margini di autonomia. I britannici cercano in seguito di istaurare una monarchia filo-britannica con l’emiro Hussein.
Nel frattempo in Iraq crescono le spinte indipendentiste, animate anche da quel nazionalismo arabo di cui sarà propugnatore il Gran Muftì di Gerusalemme, che trovano sfogo nell’embrionale partito Ba’th. Da qui la rivolta anti-britannica in Iraq del 1941 sostenuta dal movimento nazionalista del leader Rashīd ‘Ālī al-Kaylāni – che aveva rapporti con le potenze dell’Asse – di fruire, anche con la ribellione armata, di una piena libertà politico-amministrativa.
L’evento, moderato da Lorenzo Somigli, ha riscosso l’interesse del pubblico desideroso di conoscere un momento poco conosciuto della storia ma prezioso per capire l’attualità.