venerdì 11 novembre 2022

Riflessioni.

 Il cosiddetto 'Pensiero Debole', nota corrente filosofica che tanto abbaglia il mondo progressista, fa assurgere, proprio per il suo stesso essere, il niente a Verità, relegando il coraggio ad una sorta di malessere dell'animo. Essere imbelli e proni, abbassarsi come canne al vento, diventa il soul di un non agire: viatico perfetto per chi desideri essere schiavo e non uomo libero.

Libri e articoli.


 

Il “Grande Gioco” e il “fattore Afghanistan”. Di Alberto Rosselli.

Arthur Conolly (ritratto).

Per comprendere appieno il valore geopolitico della contesa centro-asiatica, prima tra Gran Bretagna e impero russo e poi tra Russia, Stati Uniti, Turchia, Iran e perfino Cina, occorre soffermarci nuovamente sulle strategie adottate nel tempo dalle potenze in lizza per il predominio sull’Asia Centrale e sulle regioni limitrofe: stati che, volenti o nolenti, si trovarono coinvolti nel cosiddetto “Grande Gioco”.

L’espressione “Grande Gioco” venne coniata nella prima metà del XIX secolo dall’ufficiale dell’esercito britannico Arthur Connolly per definire lo strisciante conflitto, mai esplicito e fatto soprattutto di azioni spionistiche e di alleanze strategiche, tra Gran Bretagna e Russia per il controllo del Medio Oriente e dell’Asia Centrale. Pur trovandosi, all’inizio del XIX secolo, alleate contro Napoleone Bonaparte, Inghilterra e Russia ebbero sempre rapporti difficili proprio per la contesa in atto per il predominio sugli immensi territori centro-asiatici confinanti con l’India. Tensioni che culminarono con le prime due guerre anglo-afghane: quella del 1839-1842, che si concluse con la distruzione di un intero esercito britannico, e quella del 1878-1880, scoppiata in seguito al rifiuto dell’emiro Shir Alì di accettare l’invio di una missione britannica a Kabul. Questo scontro, che consentirà all’emiro Abdur Rahman Khan di salire sul trono afghano, permetterà una momentanea pacificazione del territorio e, nel 1887, la firma dell’intesa russo-inglese relativa alla delimitazione dei confini tra Afghanistan e Turkestan russo.

In questi ultimi anni, la locuzione “Grande Gioco” è tornata in voga per identificare le azioni geopolitiche e militari di USA e Russia per il controllo dell’area centro-asiatica, dalle ex repubbliche sovietiche (Azerbaigian, Turkmenistan, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan) fino ad Afghanistan e Pakistan. Uno dei massimi studiosi di geopolitica, Harold Mackinder (1861-1947), sosteneva che chi detiene la potestà d’imperio sulla zona centrale controlla il continente eurasiatico e che chi ha il potere su quest’ultimo è in grado di dominare il mondo. Opportunità che, attualmente, sia la Russia che gli Stati Uniti non vorrebbero farsi sfuggire. La teoria di Mackinder venne illustrata per la prima volta nell’articolo The Geographical Pivot of History (Il perno geografico della storia) presentato il 25 gennaio 1904 alla Royal Geographical Society e successivamente pubblicato dal Geographical Journal.

Occorre però ora ripercorrere, almeno a grandi linee, gli ultimi ottant’anni di storia dell’Afghanistan, paese, assieme all’Iran, dal quale direttamente o indirettamente sono dipese (e continuano a dipendere) le sorti delle regioni centro-asiatiche oggetto del nostro studio.

Dalla fine del XIX secolo al 1918, l’Afghanistan godette di una relativa tranquillità. paese neutrale, nonostante le simpatie espresse durante la Prima Guerra Mondiale nei confronti degli Imperi Centrali (Germania in primis) da parte della popolazione, l’Afghanistan ([1]) venne governato nell’ordine da Abdur Rahman, dal figlio Habibullah, assassinato nel 1919, probabilmente da alcuni membri della famiglia reale che lo ritenevano troppo remissivo nei confronti dell’Inghilterra, che aveva appoggiato l’avvento al trono del padre, e da Amanullah che riconquistò il controllo della politica estera afghana (gestita per anni da Londra), dopo aver provocato, sempre nel 1919, con un attacco all’India, la terza guerra anglo-afghana, al termine della quale Londra preferì rinunciare definitivamente al controllo sulla politica estera di questo paese afghana, stipulando nell’agosto 1919 il Trattato di Rawalpindi.

Affrancatosi di fatto dai britannici, re Amanullah (1919-1929) pose fine al tradizionale isolamento dell’Afghanistan del suo paese e stabilì relazioni diplomatiche con numerose nazioni. Tra il 1920 e il 1922, in occasione della grande rivolta antibolscevica dei basmachi musulmani del Turkmenistan (di cui parleremo più avanti), pur parteggiando idealmente per questi ultimi, Amanullah preferì non scendere apertamente in campo per non mettersi contro Mosca. Dopo avere visitato, nel 1937, la Turchia, prese a modello il sistema laicista e modernista di Kemal Atatürk, introducendo l’abolizione del velo islamico per le donne e favorendo l’apertura di scuole miste: iniziative che gli alienarono le simpatie di molti capi tribali e religiosi che nel gennaio 1929 lo costrinsero ad abdicare, anche in concomitanza con la conquista di Kabul da parte delle bande del fuorilegge tagiko Bacha-i-Saqao.

Il successore di Amanullah, il principe Mohammed Nadir Khan suo cugino, riprese il controllo del paese, sconfisse nell’ottobre del ‘29 Bacha-i-Saqao e, grazie all’appoggio delle tribù di lingua pashtun, ascese al trono con il nome di Nadir Shah. Temendo le sette religiose, egli abolì le riforme di Amanullah in favore di un approccio più graduale alla modernizzazione, ma malgrado tutto ciò, nel 1933, fu assassinato. Gli successe suo figlio Mohammad Zahir Shah destinato a regnare per molto tempo, dal 1933 al 1973. Durante la Seconda Guerra Mondiale, il sovrano (che fino al 1946 si avvarrà dell’assistenza dello zio Sardar Mohammad Hashim Khan, che in qualità di primo ministro continuerà le politiche di Nadir Shah) mantenne il paese neutrale, pur parteggiando con buona parte del popolo per la causa della Germania nazista. Anche durante la Seconda Guerra Mondiale, lo spionaggio tedesco inviò diversi emissari in Afghanistan per cercare, seppur inutilmente, di convincere il sovrano a schierarsi apertamente con l’Asse in funzione anti-inglese.

Nel 1964, Zahir Shah promulgò una costituzione liberale, inaugurando un parlamento bicamerale. L’esperimento democratico di Zahir produsse poche riforme durature ed in compenso permise la crescita di partiti estremisti non riconosciuti, sia a destra che a sinistra. Tra questi, il Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan (PDPA), di ispirazione dichiaratamente comunista e con stretti legami ideologici con l’Unione Sovietica. Nel 1967, il PDPA si spaccò in due fazioni rivali: la fazione Khalq (“Popolo”) capeggiata da Nur Muhammad Taraki e da Hafizullah Amin e sostenuto da elementi interni all’esercito, e la fazione Parcham (“Bandiera”) guidata da Babrak Karmal. La spaccatura rifletteva le divisioni di classe, etniche e ideologiche della società afghana.

Il 17 luglio 1973 l’ex primo ministro Mohammed Daoud Khan conquistò il potere con un colpo di stato militare e Zahir Shah dovette fuggire dal paese, trovando alla fine rifugio in Italia. Daoud abolì la monarchia, abrogò la costituzione del 1964, e proclamò la repubblica, autonominandosi presidente e primo ministro. I suoi tentativi di portare a compimento le più urgenti riforme economiche e sociali incontrarono scarso successo, e la nuova costituzione promulgata nel febbraio 1977 sortì scarsi consensi. Approfittando della pessima situazione economica, il 27 aprile 1978, il PDPA effettuò un violento golpe che si concluse con il rovesciamento e l’assassinio di Daoud e di gran parte della sua famiglia. Nur Muhammad Taraki, segretario generale del PDPA, divenne così presidente del Consiglio rivoluzionario e primo ministro di una Repubblica Democratica dell’Afghanistan fortemente sostenuta e asservita all’Unione Sovietica.

Il PDPA mise in atto un programma di governo che comprendeva l’abolizione dell’usura, il divieto dei matrimoni forzati, il riconoscimento del diritto di voto per le donne, la sostituzione delle leggi tradizionali e religiose con altre laiche e marxiste, la messa al bando dei tribunali tribali e la riforma agraria. Gli uomini furono obbligati a tagliarsi la barba, alle donne fu proibito il burqa, e a tutti fu vietato di entrare nelle moschee. L’URSS inviò a Kabul ingenti mezzi, tecnici e militari per costruire strade, ospedali e scuole, per scavare pozzi d’acqua e per addestrare ed equipaggiare l’esercito afghano. Le riforme e il monopolio del PDPA sul potere iniziarono ad essere duramente contrastati dai membri della classe dirigente tradizionale che diede vita ad un movimento di resistenza. Ma il governo rispose con estrema durezza mandando in esilio e giustiziando molti mujaheddin,  i “guerrieri santi dell’islam” (mujaheddin è il plurale di mujahid che in lingua araba significa “combattente”)

A partire dal 24 dicembre 1979, l’Unione Sovietica inviò in Afghanistan un enorme quantitativo di soldati e mezzi militari per per sostenere un nuovo governo alleato di Mosca e per soggiogare di fatto l’intero paese. Il 25 dicembre dello stesso anno l’esercito sovietico entrò a Kabul, dando inizio ad una vera e propria occupazione militare che si concluderà, dopo alterne vicende e grande spargimento di sangue (1,5 milioni di militari e civili afghani uccisi, tre milioni di feriti e mutilati e cinque milioni di profughi) il 15 febbraio 1989 con la sconfitta e il completo ritiro delle truppe russe che lasciarono sul campo 13.833 soldati e un ingente quantitativo di armi e mezzi.

Come è noto, per oltre nove anni, l’Armata Rossa condusse operazioni militari contro i mujaheddin afghani ribelli, appoggiati dalla CIA, dal Pakistan e dall’Arabia Saudita. Un personaggio destinato a diventare molto famoso, Osama Bin Laden, fu uno dei principali organizzatori e finanziatori dei mujaheddin. Il suo Maktab al-Khadamat (MAK, “Ufficio d’Ordine”) forniva infatti ai ribelli denaro, armi e volontari musulmani provenienti da tutto il Medio Oriente. Il tutto grazie all’assistenza e il supporto dei governi americano, pakistano e saudita. Nel 1988 Bin Laden abbandonò il MAK insieme ad alcuni dei suoi membri più militanti per formare l’organizzazione Al-Qaida (la Base), con lo scopo di espandere la lotta di resistenza antisovietica, per creare un nuovo Movimento fondamentalista islamico mondiale, antioccidentale e antirusso.

Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, il 18 aprile 1992 il governo Najibullah fu rovesciato e Abdul Rashid Dostum si alleò con Ahmad Shah Massoud per riprendere il controllo del paese e per proclamare la Repubblica Islamica dell’Afghanistan. Quando i mujaheddin vittoriosi entrarono a Kabul per assumere il controllo della città e del governo centrale, cominciarono però le lotte intestine tra le diverse fazioni, che avevano convissuto con difficoltà durante l’occupazione sovietica. Con la scomparsa del loro comune nemico, le differenze etniche, religiose, personali e di clan delle milizie riemersero nuovamente, scatenando  una dura guerra civile che sfociò nella presa del potere, alla fine del 1988, da parte dei talebani (movimento settario ultra-puritano, fortemente influenzato dal pensiero wahabita saudita, propugnatore di una guerra permanente contro gli infedeli e gli altri musulmani, soprattutto sciiti) che ormai controllavano la quasi totalità del paese, tranne una piccola porzione di territorio, prevalentemente abitato da tagiki, nel nord-est e nella valle del Panshir.

Per reazione, l’opposizione formò l’Alleanza del Nord, che continuò a ricevere il riconoscimento diplomatico all’interno delle Nazioni Unite come il legittimo governo dell’Afghanistan. In risposta agli attentati negli Stati Uniti dell’11 settembre 2001, e all’assassinio del leader partigiano antitalebano Ahmad Shah Massoud, gli USA e una coalizione di alleati lanciarono una riuscita invasione dell’Afghanistan abbattendo il governo estremista islamico talebano. Sotto l’egida dell’ONU, le fazioni afghane si riunirono a Bonn e scelsero un’autorità provvisoria di 30 membri, guidata da Hamid Karzai. Dopo sei mesi di governo, l’ex re Zahir Shah convocò una Loya Jirga (grande assemblea del popolo afghano, originariamente aperta solo ai gruppi pashtun, ma che in seguito ha aperto le sue porte anche ai rappresentanti di altre etnie) elesse presidente Karzai e gli diede l’autorità di governare per altri due anni. Nato a Kandahar, Karzai proviene da una famiglia di etnia pashtun, una fra le maggiori sostenitrici del re Zahir Shah e parte dell’influente clan Popalzay. Anche per questo motivo Karzai si ritrovò molto presto coinvolto nelle questioni politiche afghane. In precedenza, dal dicembre 2001 Karzai aveva svolto il ruolo di capo dell’amministrazione transitoria afghana e, dal 2002, quella di presidente ad interim. Il 9 ottobre 2004 Karzai è stato confermato capo dello stato nelle prime elezioni presidenziali dirette della storia dell’Afghanistan. Oggi assistiamo, tuttavia, alla rinascita del movimento armato talebano: fenomeno che ha indotto gli USA e i suoi alleati ad intensificare la presenza militare in Afghanistan in difesa del legittimo governo moderato del leader Karzai.

L’importanza geografica, strategica ed economica dell’Asia Centrale

Dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica e  soprattutto in concomitanza della prima e seconda Guerra del Golfo (1991, 2001), gli Stati Uniti, fedeli alla teoria di Mackinder, hanno cercato di porre una sorta di ipoteca su alcune repubbliche centro-asiatiche e in particolare sul Tagikistan, ma anche sulla zona caucasica (vedi l’Azerbaigian).

Non a caso, secondo molti analisti, il destino degli USA come potenza mondiale dipenderà in buona misura dalle capacità di Washington di affrontare i complessi equilibri di forza euroasiatici, scongiurando soprattutto l’emergere di una realtà politica predominante e magari antagonista in questa vasta regione. Va notato in proposito che in quest’ultimo decennio anche Russia, Cina, Iran, Turchia, Arabia Saudita – ed in misura minore e con modalità diverse, l’Unione Europea – hanno cercato (e di fatto tutt’ora cercano) di ancorare al proprio carro una o più repubbliche centro-asiatiche, soprattutto quelle maggiormente ricche di petrolio e gas naturale. Secondo gli esperti di problemi energetici, una volta esauriti i pozzi mediorientali – eventualità che dovrebbe concretizzarsi entro venti, massimo trent’anni – saranno proprio le “riserve” di idrocarburi dell’Asia Centrale a giocare un ruolo decisivo per l’intera umanità. Va da sé che proprio per questa ragione quest’area è destinata ad attrarre e a fare probabilmente confliggere gli interessi delle principali potenze economiche e militari mondiali, e quelle regionali ad essa limitrofe


[1] Nel 1915, l’agente segreto Oscar Niedermayer e il diplomatico Werner-Otto von Hentig furono inviati dal Kaiser a Kabul per cercare di convincere l’emiro Habibullah a scatenare un’offensiva contro l’India britannica. A Kabul, i due rappresentanti tedeschi incontrarono anche due rivoluzionari indiani, Mohammed Barakatullah e Kumar Mahendrah Pratap, che stavano tentando di ottenere dall’’emiro il permesso di insediare a Kabul un governo provvisorio indiano anti-inglese. Tuttavia, temendo una reazione britannica, alla fine Habibullah preferì lasciare cadere nel vuoto sia le richieste indiane che tedesche, inducendo gli agenti del kaiser a fare ritorno a Berlino nella primavera del 1916.

domenica 6 novembre 2022


Gli articoli più recenti apparsi sulla Rivista telematica 'Storia Verità' (www.storiaverita.org).
 
Margrethe di Danimarca, l’ultima sovrana della dinastia Estridsen. Figura ancora poco nota, fu l’unica regina che seppe unificare i regni di Danimarca, Svezia, Finlandia e Norvegia. Di Roberto Roggero.
Il caso Bernadotte. Figura diplomatica enigmatica che per decenni ha mediato con incisività negoziati delicati di molte nazioni, fino alla sua tragica fine, sulla quale i dubbi non sono ancora stati chiariti. Di Roberto Roggero.
Tra Armenia e Azerbaigian prove di pace, ma l’Artsakh rischia. Di Emanuele Aliprandi.
Gli “Ariani Onorari” di Hitler. Una storia decisamente poco nota, quella dei nativi americani volontari delle Waffen-SS, e del loro capo, Standing Bull, testimone d’onore alle nozze del Führer. Di Roberto Roggero.
Guido Morselli: un grande, anomalo e dimenticato scrittore. Di Alberto Rosselli.
A Novembre in libreria. ‘I violatori di blocco’ italiani, Storia di Uomini e Navi. Prefazione di Marco Cimmino.
L’Inverno della Storia contemporanea. A proposito di Chiara Frugoni e del suo metodo. Di Giuseppe Moscatt.
I salotti letterari del primo Ottocento: Clara Maffei a Milano (1834-1859) e Bettina Brentano a Berlino (1830 – 1859). Di Giuseppe Moscatt.
L’assedio di Plevna del 1877. Un episodio della guerra russo-turca, che portò alla liberazione della Bulgaria dall’occupazione ottomana. Di Gualtieri Scapini Flangini.
Novità in libreria. Mattioli Editore 1885. Sito web: https://mattioli1885.com/
L’Imperiale Regia Marina Veneta. Con il tramonto della Repubblica di Venezia, nel 1797, cessa di esistere di fatto anche la flotta che doveva tutelare la supremazia della Serenissima. Di Gualtiero Scapini Flangini.
La resistenza antisovietica in Ucraina, 1944-1956. Di Alberto Rosselli.
“Cancel culture”, ovvero squilli di pseudo storia. Di Giuseppe Moscatt.
Giovanni Battista Boetti, frate ma non solo. Personaggio multiforme: religioso domenicano, esploratore, viaggiatore, seduttore, condottiero militare e molto altro. Di Roberto Roggero.

 

 

L’Europa alla deriva. 'Quando il laicismo si fa religione'. (Fonte: Rivista 'Storia Verità', Dicembre 2017).
 
di Alberto Rosselli
 
Predomina ormai in Occidente una nuova pseudocultura laicista che vorrebbe porsi come ‘credo’ universale e autosufficiente, generando un nuovo costume di vita e una nuova morale. Una cultura per la quale risulta razionalmente valido soltanto ciò che è sperimentabile e calcolabile, mentre sul piano della prassi la libertà individuale viene eretta ed imposta alla stregua di un valore metafisico fondamentale ed intaccabile. Di conseguenza, dio rimane escluso dalla vita pubblica, e la fede diventa addirittura un optional, anche perché il mondo in cui viviamo viene presentato quasi sempre come opera e conseguenza della sola volontà umana, come ‘creazione’ laica nella quale le religioni – ad esempio, il cristianesimo, il credo europeo per eccellenza - vengono rappresentati da questa specie di nuovo deismo panteistico ipercritico alla John Toland (ma fino a che punto gli attuali soloni laicisti sono al corrente dell’opera del filosofo nord-irlandese vissuto a cavallo tra il XVII e il XVIII secolo?), come punti di riferimento ‘non culturali’: concetti superati, superflui, e di intralcio al ‘progresso’.
La discutibile presa di posizione della Corte europea (tra i cui membri spicca pure il nome di un giudice turco: fino a prova contraria, non ci risulta che la Turchia faccia già parte della UE) nei confronti del simbolo del cristianesimo, cioè, l’abolizione del Crocifisso in nome di un esasperato anelito laicista, va purtroppo a minare il fondamento stesso di una Civiltà – non solo di una Religione - quella continentale, che nel corso dei secoli proprio dal cristianesimo ha tratto valori ampiamente condivisi da una vasta seppure variegata e talvolta litigiosa aggregazione di nazioni. In nome del laicismo e del relativismo filosofico e culturale, la Corte europea ha tuttavia annullato questa pratica esperienza, sentenziando con grande disinvoltura la presunta inutilità di uno dei valori fondanti del nostro modo di essere e di concepire la vita: atto destinato a provocare gravi ripercussioni e, soprattutto, a creare un precedente a dire poco imbarazzante. In nome di un multiculturalismo tendenzialmente demagogico che nulla a che fare con il vero progresso, le forti lobbies laiciste ed atee che largo potere esercitano all’interno delle istituzioni europee, hanno quindi deciso (ma – alla luce delle violente e comprensibili reazioni popolari scatenate - bisognerà vedere se ci riusciranno) di sbarazzarsi di un simbolo che, aldilà dei suoi significati metafisici, rappresenta la Storia, o meglio l’anima della Storia di un Continente. Ciò che più colpisce di questo puerile, ma pernicioso colpo di mano promosso dagli epigoni di un mal assimilato credo illuminista è e rimane la superficialità con la quale esso è stato compiuto: superficialità tipica della mentalità relativista. Ciò che i giudici europei non sembrano avere colto è infatti la netta distinzione esistente tra due termini, in senso positivo e negativo: pluralismo e, appunto, relativismo laicista. Come ebbe modo di sottolineare il 17 gennaio 2003 - nella nota dottrinale sull’impegno dei cattolici in politica (documento pubblicato dalla congregazione per la dottrina della fede)- l’allora cardinale Joseph Ratzinger, in politica il pluralismo è un concetto lecito e naturale in quanto in relazione alle molteplici questioni ‘politiche’ dibattute non esiste mai una risposta preconfezionata e condivisa, ma, al contrario, sussistono diverse possibilità di operare su base pratica e possibilmente etica, mentre il relativismo (in quanto prassi culturale e filosofica applicata anche alla politica) ha la pretesa di affermare che non esistendo alcuna verità etica e morale assoluta e vincolante per la coscienza, le risposte ai problemi possono esimersi dal tenere in debita considerazione la sfera spirituale dell’individuo, unico artefice del progresso, della libertà e della felicità. Ora, pur lasciando agli uomini di Chiesa e di fede ogni giudizio circa la necessità – si veda il ‘caso’ del Crocifisso – di conservare gli elementi fondanti della tradizione religiosa, ogni individuo non necessariamente di fede- ma realmente tollerante - non può fare a meno di riflettere circa l’intrinseca pericolosità di un credo laicista portatore di ‘valori’ che di fatto vengono imposti con la forza, non ‘offrono’, o lasciano scegliere. Trattasi, infatti, di una nuova ‘religione storica’ e contingentista quella neolaicista europea, che è legata unicamente all’evolversi di un antropocentrismo spinto, svincolato da ogni naturale anelito e riferimento metafisico e metastorico: una religione materialista a tutto tondo che, sbandierando il vessillo della democrazia, tende, paradossalmente, a sopprimere ogni libertà. Proseguire su questa strada, cioè permettere di continuare a supporre – come fanno i laicisti – che il vero pluralismo combaci con il relativismo, significa per l’Europa perdere i fondamenti dell’umanesimo e della stessa democrazia che, come si sa, si basano sul rispetto di norme condivise (non soltanto giuridicamente, ma culturalmente) a tutela della giustizia e della verità. Conseguente, in questo senso (ci si consenta una breve divagazione: la distinzione tra la laicità (necessaria, delle istituzioni) e il laicismo, inteso come esasperazione del concetto ‘storico’ di esistenza: credo ateo secondo il quale i contenuti morali cristiani debbono essere totalmente esclusi dalla politica, o dalle istituzioni. Alla luce della sentenza della Corte europea - sciagurata e paradigmatica (anzi, sintomatica) - non sono dunque soltanto i religiosi, ma i difensori della Ragione Illuminata (non illuminista), cioè i laici che hanno a cuore la Tradizione occidentale a dover scendere in campo. In gioco vi è infatti il futuro non soltanto economico o sociale, ma morale di un Continente che, nel corso dei secoli, sui fondamenti della filosofia cristiana ha costruito le sue alterne - ma in realtà uniche -vere fortune. I valori metastorici del Vangelo, se ben compresi ed assimilati, rappresentano, infatti, un’opportunità di crescita morale e culturale, non certo un pericolo per la democrazia o il progresso. Anzi, essi responsabilizzano e orientano gli individui, chiarendo dubbi e soprattutto dissipando equivoci derivanti dalla finta e speculativa contrapposizione tra ragione e religione. Contrariamente alla cultura laicista per la quale il concetto di ‘neutralità’ e di agnosticismo coincidono di fatto con un modernismo ateo incatenato al ‘contingente’ e al banale, anche se ineluttabile, ciclo morfologico di culture senz’anima che mai potranno trasformarsi in Civiltà.

martedì 11 ottobre 2022


 Il testo di Piero Vassallo


Prefazione ad un breve, ma importante e sempre attuale saggio dello scomparso Piero Vassallo, personaggio di spicco della 'vera' Cultura Cattolica (di Alberto Rosselli).
In un’epoca bislacca, approssimativa, esasperatamente relativista ed eticamente molto svagata come la nostra, la rilettura dell’opera del filosofo e storico genovese Piero Vassallo – esponente di primo piano della Destra cattolica italiana – risulta importante ed utile in quanto analizza e chiarisce, nel suo insieme, gli errori e le mistificazioni filosofiche e storiche derivanti dalla ideologizzazione e dal regresso contenutistico della Cultura italiana. Un fenomeno che, a partire dal secondo dopo guerra fino ai nostri giorni, ha visto correi sia i ‘pensatori’ di Sinistra sia buona parte di quelli di Destra (posto che questi termini abbiano ancora un significato). A questo proposito, prendiamo in analisi un piccolissimo libro (43 pagine) intitolato Nuovi Orientamenti edito nel 2011 dalla ormai scomparsa cooperativa editoriale fiorentina Nuova Aurora. Due parole, innanzitutto, sull’Autore. Piero Vassallo è un filosofo, politologo ed esperto studioso di Storia del Cristianesimo. Egli si è formato alla scuola di personaggi di chiesa importanti e controcorrente, come il cardinale Giuseppe Siri e Don Gianni Baget Bozzo. E’ stato discepolo ed esegeta di intellettuali cattolici antimodernisti come Federico Sciacca, Cornelio Fabro e Antonio Livi, legittimo eredi della sottovalutata ma nobile tradizione degli oppositori al Razionalismo: Blaise Pascal, Claude Buffier, Thomas Reid ed Etienne Gilson.
Una ‘scuola’ quella frequentata da Vassallo che lo portò allo studio dei difensori di quel Gianbattista Vico che, cozzando contro l’ateismo cartesiano, sostenne e in parte dimostrò che il “cammino della Storia inizia dalla coscienza che Dio esiste” e che l’essere crea l’idea e non il contrario, come asseriscono i nipotini di Hegel. Conseguentemente, sulla scia di Livi, Vassallo ha ingaggiato una feroce guerra contro i cosiddetti teologi progressisti e irrealisti (Teihard de Chardin e Karl Rahner). Manco a dirlo, l’intera opera di Vassallo è stata demonizzata dai sostenitori della chiesa della liberazione, dai post-dossettiani democristiani, dagli alfieri del ‘modernismo scientologico e ateo’, dagli ingenui fan di papa Bergoglio il Rivoluzionario e, naturalmente, dagli idealisti buonisti incantati dai pifferai del pregiudizio antimetafisico a tutti i costi. Quest’ultima schiera brancaleonica, ma supponente e molto potente politicamente e finanziariamente parlando, nella quale si intravede una mal digerita comprensione dell’Umanesimo, ha fatto dunque barriera acritica contro uomini come Vassallo, screditando non soltanto la metafisica, ma anche la logica, innalzando il pensiero umano sopra l’Essere (operazione funambolica e azzardata che presume un’assurda collocazione dell’uomo ad artefice dell’Assoluto). Inerpicandosi lungo le strette e ripide mulattiere che porterebbero ad una sorta di liberazione e semplificazione della vita umana, i nuovi guru dell’Umanesimo ateo (cioè i vari Vattimo, Severino, Odifreddi, Flores d’Arcais, Scalfari) – soliti ad appropriarsi indebitamente di Aristotele ad ogni piè sospinto – si affannano attraverso rimedi alchimistici e soggettivisti per creare addirittura un Uomo Nuovo che non abbia bisogno di nulla tranne che di se stesso. Il tutto non ricordando che la soluzione del dilemma circa la coniugazione positiva tra aristotelismo e cristianesimo era già stata brillantemente scoperta da San Tommaso che aveva in questo modo risolto temi spinosi, quali il rapporto tra Etica e Potere e la ricerca originaria del Senso Comune, inteso come insieme sempiterno di quelle Verità che costituiscono un sapere universale pregresso all’idea stessa di uomo. Attraverso Nuovi Orientamenti, Vassallo penetra e disintegra con la logica aristotelico-cristiana il rottamaio ateo dell’irrealismo modernista di Sinistra. Ma non si limita a ciò. Egli scudiscia, nel contempo, gli alfieri della neo Destra filosofica e politica italiana incapace di difendere pensieri e concetti che stanno alla base del già citato ‘senso comune’ tanto necessario anche alla comprensione del significato filosofico della Storia. Nel corso di questa operazione, l’Autore penetra nell’intestino crasso della Destra italiana, sezionandone i suoi tratti metastatici. Poiché – è inutile negarlo – la sopracitata caleidoscopica e disordinata Destra ‘attuale’ stenta a trasformarsi in agorà di un pensiero positivo, avendo abdicato, almeno in parte, ai valori della Tradizione cristiana e della Patristica (fondamento del Progresso post pagano) in nome di una sorta di pensoso delirio. Un delirio oscillante tra un anelito di pseudo libertà qualunquista e un conto in banca o, addirittura, rispolverando deliri eleusini e suggestioni boreali e pagane germaniche. Come annota l’Autore, ai giorni nostri, in Italia, gli ideali della così chiamata Destra tradizionale vengono condivisi o meglio intuiti da un vasto popolo di persone ragionevoli ma smarrite. Esse, infatti, non riescono ad identificarsi in una classe politica, quella di Centro-Destra, che, oltre a palesare contraddizioni e incongruenze di programma, non possiede (come d’altra parte il Centro-Sinistra) nemmeno una linea guida pseudo unitaria o catalizzante, atta a trasformare le intenzioni in chiari ed utili programmi. Una guida pragmatica, ma etica, capace di separare ciò che è utile dall’inutile per il popolo, attraverso l’inganno, a suo personale beneficio (come è noto, la biada demagogica è il sostentamento dell’animale politico italiano). Ma non è tutto. Anche nell’area della cosiddetta ‘buona Destra’ (e questo rappresenta il fatto più grave) imperversa ormai una galassia di gruppuscoli d’assalto che, rotolandosi nel fango tiepido di letture mal comprese o addirittura fuorvianti (Guénon, Nietzsche, Evola, Stirner e, in parte, Heidegger) si pasce di qualche infantile emozione. Tutta questa tragicomica confusione produce, infine, nel Centro-Destra una sorta di emulazione dei mali del Centro-Sinistra. E come se non bastasse, l’abbandono di quest’area da parte degli onesti e la loro quasi meccanica sostituzione – poiché imposta dalla prassi partitica – da parte di elementi tribali provenienti dalla marginalità paleo-destrorsa e “reducista”, svilisce ulteriormente il quadro generale. Soggetti, questi, cerebralmente ipercinetici, rivisitatori di riti italici romani precristiani e addirittura magici. Trattasi di teste contenenti non materia grigia, ma il vuoto pneumatico: replicanti ideologizzati ed incapsulati nella terza fila della grafomania murale (in questo non si discostano dai loro compagni dei centri sociali). Nel suo piccolo, ma utile libro, Vassallo mette dunque in evidenza che, nonostante il totale fallimento delle ideologie del Progresso di tradizione marxiana, il Centro-Destra latita e stenta a ritrovare, attraverso la rilettura di autentici geni dimenticati come Livi o Fabro, una sua anima cogitante et agendi in grado di sintetizzare logicamente e armoniosamente Tradizione e Ragione e, lo ripetiamo, Buon Senso, eliminando ogni cifra di delirio dal proprio vocabolario interiore in nome di un Progresso autentico.
 
 

 Nella foto. L'Amico e Collega Paolo Deotto (a sinistra) saluta affettuosamente il Maestro Piero Vassallo.

lunedì 10 ottobre 2022

 https://www.nicolaporro.it/la-brutta-prima-volta-della-nato-fuori-dalleuropa/?fbclid=IwAR3WHaEPTo0Mr5_fUrw3c6ATWGVHpDPn-E4DAdpQTknpZR85rUq-EO9OEGo

martedì 4 ottobre 2022


 

A Novembre in libreria. Edizioni Mattioli 1885. https://mattioli1885.com/
 
Prefazione di Marco Cimmino.
 
Ci sono storie che, non si sa bene per quale motivo, rimangono nascoste nelle pieghe della Storia: a volte perché, in qualche modo, marginali rispetto a temi più vasti, a volte perché mal documentate, più spesso perché scomode o divergenti dalla vulgata. Alberto Rosselli ha fatto del recupero e della narrazione di queste storie il suo stigma e, in un certo senso, la sua missione: è come se lo storico genovese s’impuntasse di fronte a certe ingiustizie storiografiche e decidesse di mettere una pezza allo sdrucio che queste rappresentano nel tessuto stesso della 'memoria storica'. Negli scenari meno popolari e conosciuti della storia del Novecento, Rosselli va a indagare il particolare, la pagina dimenticata: un po’ come il poeta del Porto Sepolto, scende negli abissi della storia e, tornando a galla, libera le sue parole, perché arrivino a chi devono arrivare. Gli Armeni, i Greci, i Cinesi, l’Impero Ottomano, sono stati oggetto di queste sue ricostruzioni svelte, scorrevoli, piacevolmente divulgative: oggi, con questo libriccino denso di notizie, tocca ai marinai dimenticati, ai forzatori di blocco, autentici eroi sconosciuti della seconda guerra mondiale, a metà strada tra militari e civili, tra pirati e gentiluomini di mare. Si tratta di una storia davvero poco nota: di una guerra asimmetrica e particolare, tra Betasom e Massaua, Kobe e Singapore, che ha interessato mercantili e sommergibili, sulle rotte del Pacifico e dell’Atlantico, in un’epopea d’altri tempi. Protagonisti di questa saga dimenticata furono gli equipaggi dei battelli italiani rimasti lontani dalla Madrepatria allo scoppio della guerra e che ritornarono fortunosamente ai loro porti di partenza oppure vennero impiegati, insieme al naviglio cui appartenevano, in imprese difficili e pericolose, quasi sempre con l’obbiettivo di portare in Italia materiali rari e preziosi, utili allo sforzo bellico. Purtroppo, all’inizio delle ostilità, gli Italiani persero un numero considerevole di naviglio mercantile, che sarebbe stato determinante ai fini della nostra condotta bellica: tuttavia, con quel che rimaneva delle oltre duecento navi rimaste lontane dall’Italia, si cercò di organizzare un piano di recupero che, quasi subito, si trasformò in un più audace progetto: il collegamento transoceanico tra la base di Bordeaux, in coabitazione italo-tedesca, e il Giappone, utilizzando alcune navi accuratamente selezionate per caratteristiche di carico, velocità e profilo, che già si trovavano in porti controllati dai Giapponesi. Le avventure di queste motonavi, lungo rotte anomale, scelte per evitare i punti di pattugliamento alleato, soprattutto dopo Pearl Harbour, rappresentano il nucleo più corposo di questo libro: la Cortellazzo fu la prima di queste navi violatrici del blocco, che raggiunse Bordeaux da Kobe, dopo aver percorso più di 21.000 miglia, fra il novembre 1940 e il gennaio 1941. Colpisce, nella narrazione di Rosselli, la ricchezza di dettagli su questo viaggio rocambolesco: il camouflage cui venne sottoposta la Cortellazzo a più riprese, ad esempio, che la fece assomigliare via via a un cargo nipponico e a un mercantile svedese, oppure i riconoscimenti all’equipaggio, da parte dell’alleato germanico, cui era destinata buona parte del carico, le unità di scorta che l’accompagnarono, il suo cambio di personale a Bordeaux e, infine, il suo secondo sfortunato viaggio, che terminò con l’autoaffondamento, poco lontano dalle coste francesi. Perché va detto che i marinai della Cortellazzo, così come quelli delle altre motonavi utilizzate come violatrici di blocco, ovvero l’Himalaya, l’Orseolo e la Fusijama, avevano ben chiaro il proprio destino, qualora fossero incappati in qualche pattugliatore alleato: per questo, su ogni battello era stata collocata una carica esplosiva, predisposta per affondare la nave ed impedire che il prezioso carico finisse in mani avversarie. Insomma, una storia affascinante, ma anche drammatica e piena di quel silenzioso coraggio che fu comune a tanti marinai italiani, impegnati con mezzi inadeguati in una guerra terribile e complicata. Se possibile ancor più bizzarra fu la sorte della motonave Himalaya, che si trovava a Massaua, da cui dovette partire in fretta e furia, dopo il disastro militare di Sidi el Barrani, per recarsi prima in Brasile e di lì, dopo essere stata camuffata da mercantile britannico e con la stiva piena di materiali preziosi, giungere a Bordeaux, nel solito tripudio del personale della base. Qui la Himalaya venne trasformata dai tecnici della marina in un vero e proprio violatore armato di blocco e tentò due volte, inutilmente, di superare il velo creato dalla flotta britannica intorno all’estuario della Gironda, finchè non venne requisita dai Tedeschi, dopo l’armistizio di Cassibile, fino a venirne affondata per bloccare l’accesso alleato all’estuario, nell’agosto 1944. Storie di camuffamenti, di riconversioni, di vere e proprie nuove vite per navi ed equipaggi, come si vede: anche l’Orseolo dovette affrontare una vera e propria odissea, tra mitragliamenti, cambi di livrea, incontri a distanza col naviglio nemico: anche questa terza motonave, dopo un lunghissimo viaggio iniziato a Kobe la viglia di Natale del 1941, approdò ai moli di Bordeaux il 23 aprile, dove l’intero equipaggio venne decorato. L’Orseolo replicò il proprio viaggio, andando e tornando da Kobe, e concludendo la propria carriera in mano germanica, sotto le cui insegne fu affondata nel dicembre 1943. Questo libro avrebbe anche potuto finire qui: le disavventure di questi mercantili, infatti, furono così peculiari e straordinarie da bastare alla stesura di un libro sui forzatori di blocco. Rosselli, però, ha deciso, nel suo nuovo progetto, di affrontare a tutto tondo il tema dei mercantili corsari italiani, raccontando anche la storia delle navi Monginevro, che avrebbero dovuto essere trasformate in incrociatori ausiliari, a imitazione di quanto già fatto dai Tedeschi: si trattava di moderne motonavi, con caratteristiche costruttive tali da renderle adatte ad imbarcare un pesante armamento, in grado di contrastare la capacità di fuoco degli incrociatori leggeri britannici. Insomma, questi mercantili, debitamente modificati, avrebbero potuto trasformarsi in ottime navi da guerra, con artiglierie e tubi lanciasiluri in grado di impensierire la marina alleata in caso di scontro. Va da sé che l’obbiettivo di questi battelli ibridi non era quello di manovrare come una nave da guerra, ma di intercettare e affondare o catturare il naviglio mercantile avversario, pur essendo in grado di ingaggiare veri e propri scontri con eventuali navi scorta o altri battelli nemici. Il progetto, comunque, rimase lettera morta, per mancanza di mezzi da parte di Supermarina, che abbandonò la trasformazione quando era ancora sulla carta. Altra pagina poco conosciuta di questa avventura marinaresca fu quella dei sommergibili, impiegati dall’Italia con lo scopo preciso di permettere un trasporto relativamente sicuro dei soliti materiali preziosi tra il Giappone e l’Europa e, prima ancora, di rifornire le truppe in Africa Settentrionale, attraverso il Mediterraneo. Tre di questi battelli modificati riuscirono a raggiungere l’Indonesia da Betasom e qui furono catturati dai Giapponesi, dopo l’8 settembre. Diversa ancora è la storia di due grandi unità, il Romolo e il Remo, concepite appositamente per il trasporto sottomarino di materiali dall’estremo oriente: entrambi i sommergibili ebbero una breve e sfortunata vita operativa, venendo affondati dal nemico nel luglio 1943. Insomma, il libro di Rosselli racconta tante storie: storie di coraggio, di buona e cattiva sorte, che riguardarono imprese poco note dei nostri marinai. Noi siamo abituati a ricordare i grandi episodi storici della guerra navale italiana, quasi tutti avvenuti nel Mediterraneo orientale, da capo Matapan al forzamento di Alessandria: Rosselli ci spalanca davanti uno scenario pressoché sconosciuto, che è quello del nostro naviglio sparso per i mari del mondo, tra rotte invisibili, piene di insidie. Navi mercantili, ma anche navi da guerra, sommergibili e navi corsare. E, al centro di questo tourbillon di camuffamenti, cortine fumogene, fughe ed inseguimenti, successi e tragedie del mare ci sono gli uomini. I nostri marinai, tanto civili che militari, che svolsero il loro difficile compito (e, in questi casi, perfino più difficile), obbedendo al loro istintivo amor patrio, ma anche affidandosi alla loro millenaria esperienza marittima. Crediamo che la memoria storica della nostra Marina, durante il suo ciclo operativo 1940/1943, sia troppo influenzata da alcuni episodi negativi, che fanno dimenticare ingiustamente il sacrificio e le capacità operative di migliaia di bravi marinai. E ricordiamoci che la maggior parte dei protagonisti delle memorabili imprese descritte in questo breve e bel libro erano civili: non si trattava di personale addestrato e pronto a combattere, ma di marinai mercantili, che si comportarono valorosamente, divenuti una sorta di figura borderline, tra il civile e il militare. Insomma, moltissimi sono gli spunti di riflessione che quest’opera di Rosselli ci sottopone: essa non rappresenta, dunque, soltanto la disamina di una pagina dimenticata della nostra storia, ma ci offre la possibilità di avere una visione più ampia e meno stereotipata del conflitto navale, aprendoci gli occhi sulla visione di oceani brulicanti di attività e pulsanti di infinite vite, legate al filo sottile della perizia o, spesso, della sorte. E, infine, va detto che questa visione ci viene offerta da Rosselli con il suo solito stile, piano, chiaro, sintetico, senza fronzoli né filosofie: con il suo disarmante understatement, che fa sembrare chiare e semplici anche le cose più oscure e complesse. E che rende questo succinto libretto un’opera preziosa, da scorrere e conservare.

mercoledì 14 settembre 2022


 

Gli ultimi articoli pubblicati dalla rivista 'Storia Verità'.
 
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Novità in libreria. Mattioli Editore 1885. Sito web: https://mattioli1885.com/
L’Imperiale Regia Marina Veneta. Con il tramonto della Repubblica di Venezia, nel 1797, cessa di esistere di fatto anche la flotta che doveva tutelare la supremazia della Serenissima. Di Gualtiero Scapini Flangini.
La resistenza antisovietica in Ucraina, 1944-1956. Di Alberto Rosselli.
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Intervista ad Alberto Rosselli sul conflitto Ucraina-Russia. A cura di Giovanna Canzano.
Le opinioni eretiche di Michele Rallo. ‘L’Ucraina del 2022 come la Polonia del 1939.’
Le opinioni eretiche di Michele Rallo. Non esiste una sola Ukraina: ma ce ne sono tre. Peccato che la Nato faccia finta di non saperlo. 
 
Sito web: www.storiaverita.org


 

giovedì 21 luglio 2022


 

La resistenza antisovietica in Ucraina, 1944-1956. Di Alberto Rosselli.

 
 
UPA propaganda poster. The OUN/UPA's formal greeting is written in Ukrainian on two of the horizontal lines Glory to Ukraine - Glory to (her) Heroes. The soldier is standing on the banners of the Soviet Union and Nazi Germany.

Nella seconda metà di settembre del 1939, in seguito all’invasione sovietica della Polonia orientale, la posizione dell’OUN in Ucraina occidentale si fece molto complessa, in quanto Mosca – lasciata dai tedeschi libera di agire in Polonia orientale e in Bielorussia – avviò una violenta repressione nei confronti dell’organizzazione nazionalista ucraina, arrestando, uccidendo o deportando in Siberia centinaia di militanti o di semplici simpatizzanti. Il fatto che Hitler avesse avvallato, in virtù del patto Ribbentrop-Molotov, l’occupazione sovietica della Polonia orientale creò nei vertici OUN un notevole disappunto, anche perché, nella primavera del 1939, la Germania aveva ad essi già dimostrato la sua evidente e scarsa considerazione nei confronti della causa ucraina, consentendo all’Ungheria di liquidare la neonata Repubblica Ucraino-Carpatica, appoggiata dall’OUN. Gli ostili atteggiamenti del Fuhrer raffreddarono la simpatia precedentemente manifestata dai leader dell’OUN per il Terzo Reich, anche se una parte di essi continuò a sperare in un possibile deterioramento dei rapporti tra Berlino e Mosca: eventualità in effetti non del tutto remota, che avrebbe potuto ridare all’Ucraina una nuova possibilità di perseguire l’agognato obiettivo dell’indipendenza. Per questo motivo, dopo l’attacco tedesco alla Russia (22 giugno 1941), l’OUN non ebbe esitazioni nello scatenare la guerriglia contro le forze sovietiche, organizzando i primi nuclei combattenti (pokhidni hrupy): unità che, approfittando della travolgente avanzata della Wehrmacht, disturbarono le retrovie dell’Armata Rossa. Con questa mossa, i leader ucraini sperarono, abbastanza ingenuamente, di indurre Hitler a prendere un atteggiamento più favorevole nei confronti dell’Ucraina.

Proprio in questo periodo, la fazione “eretica” del movimento guidata da Stepan Bandera (personaggio destinato a diventare il vero, seppure molto discusso e criticato, leader del movimento indipendentista armato ucraino) mise in piedi due battaglioni di volontari che, dopo essere stati addestrati da ufficiali della Wehrmacht, andarono ad affiancare l’esercito tedesco ormai all’inseguimento dell’Armata Rossa. Vista la situazione, anche l’OUN non tardò a dichiarare apertamente il proprio sostegno alle forze germaniche che nel frattempo stavano facendo sloggiare i russi dall’Ucraina occidentale. Se da un lato questa dichiarazione di intenti venne accolta con favore dai generali tedeschi – ai quali faceva assai comodo l’appoggio della popolazione e delle unità di volontari ucraini – dall’altra essa lasciò del tutto indifferente Hitler che, oltre a non ritenere affatto esiziale il contributo dell’OUN allo sforzo militare germanico, confermò le sue pesanti opinioni circa la natura dei popoli slavi (ucraini inclusi) – paragonati ad esseri “sub umani” – e ordinò nel contempo alla Gestapo di eliminare i leader del movimento indipendentista ucraino. Secondo i piani di Hitler, l’Ucraina sarebbe infatti diventata un territorio di conquista da sottomettere e sfruttare. Per questa nazione si apriva dunque un periodo tra i più neri e contraddittori della sua lunga storia. Il duro regime di occupazione nazista e la negazione da parte della Germania di una benché minima forma di autonomia, spaccò il movimento indipendentista ormai incapace di prendere una coerente e dignitosa posizione tale da mantenere unito lo sfortunato popolo ucraino. La sostanziale incapacità politica palesata dai vertici OUN gettò infatti il paese nel caos spingendo i giovani, ma anche i meno giovani, ad optare per scelte politico-militari degradanti se non addirittura infamanti (tra l’estate del 1941 e l’estate del 1944, molti accettarono – in odio ai russi e al bolscevismo – di arruolarsi in formazioni paramilitari che vennero poi utilizzate dai tedeschi per combattere i partigiani sovietici, ma anche per dare la caccia agli ebrei e ai polacchi). Fino a quando, nel 1944, in seguito alla ritirata tedesca e al ritorno dell’Armata Rossa, tutti gli indipendentisti ucraini compresero che la loro lotta, fattasi ormai disperata, si sarebbe ancora protratta per molto tempo e, probabilmente, nell’isolamento più totale.

Dal punto di vista storico, il periodo dell’occupazione tedesca dell’Ucraina corrisponde alla cosiddetta “prima fase bellica” (luglio 1941-luglio 1944) della resistenza antisovietica. Questo periodo fu caratterizzato dal vigoroso sviluppo di un nuovo soggetto politico-militare ucraino: l’UPA (Ukrainska Povstanska Armiia), creata a Volyn il 14 ottobre 1942 da Roman Shukhevych. Lo scopo principale di questa organizzazione fu inizialmente quello di difendere la popolazione dalle operazioni di pulizia etnica intraprese dai nazisti e dagli attacchi delle formazioni partigiane comuniste che, a partire dalla fine dell’estate del 1941, iniziarono ad operare nelle retrovie tedesche. L’UPA perseguì inoltre l’obiettivo di ricostituire un esercito nazionale ucraino indipendente: progetto che, tuttavia, non riuscì mai a concretizzare per la ferma opposizione di Hitler. A dimostrazione della palese quanto profonda avversità dei nazisti nei confronti dei nazionalisti ucraini si ricordi che, il 30 giugno 1941, a Lvov (l’ex-Leopoli), allorquando Stepan Bandera osò proclamare l’indipendenza dell’Ucraina, la Gestapo lo arrestò immediatamente assieme ai suoi più stretti collaboratori. E stessa sorte toccò anche al leader dell’OUN Melnyk che dopo essere stato richiuso in un carcere, nel 1944 venne internato nel campo di concentramento di Sachsenhausen. Sempre nell’estate del 1941, la Gestapo iniziò a rastrellare e ad eliminare tutti i membri delle principali fazioni nazionaliste ucraine, deportando in Germania migliaia di attivisti e semplici cittadini impiegandoli nei lavori più duri e umilianti. Il vero volto della “Nuova Europa” nazista stava venendo alla luce.

Nonostante le rappresaglie tedesche, nel 1942, l’UPA annoverava tra le sue file circa 100.000 combattenti, suddivisi in numerosi gruppi operativi, sia in Ucraina occidentale che nei Carpazi orientali. All’inizio del 1944, i suoi organici salirono a quasi 200.000 uomini, parte dei quali impegnati contro i tedeschi e parte contro i partigiani comunisti appoggiati e riforniti tramite mezzi aerei dall’Armata Rossa. Nell’agosto 1943, in occasione della Terza Assemblea Straordinaria indetta dalla fazione di Bandera, l’OUN, ormai alle strette, adottò una guida collegiale, riconoscendo l’UPA quale formazione militare ufficiale rappresentante l’intero popolo ucraino. Tra la primavera e l’estate del 1944, sotto la spinta delle armate sovietiche, l’UPA si ritrovò praticamente sola nel contrastare l’avanzata russa. A Stalin – che ai suoi generali aveva già impartito l’ordine di sterminare tutti i ribelli accusati di collaborazionismo con i nazisti – si presentava finalmente l’occasione per liquidare una volta per tutte l’annosa “questione ucraina”. Sebbene consci della gravità e pericolosità della situazione, i partigiani ucraini accettarono però il confronto, iniziando a raccogliere armi e a creare basi nelle vaste foreste e paludi presenti nella regione. In breve tempo i vertici UPA riuscirono a costituire una struttura militare efficiente e completa, dotata di comandi centrali e intermedi, suddivisa in reparti che agivano secondo criteri operativi e tattici molto precisi. A fianco dei gruppi combattenti, manovravano unità di supporto e logistiche e numerose cellule composte da informatori e agenti, alle quali venivano affidati compiti di intelligence e missioni di sabotaggio e di “eliminazione” di importanti personalità militari sia sovietiche che naziste. Va ricordato a questo proposito l’assassinio del maresciallo dell’Armata Rossa Nikolai Vatutin (marzo 1944), ma anche l’uccisione diversi alti ufficiali delle SS e della Gestapo, come il capo di stato maggiore delle SA, Viktor Lutze.

Nonostante le molteplici ed oggettive difficoltà, il comando dell’UPA fronteggiò quindi piuttosto bene l’avvio della “seconda fase” della resistenza antisovietica che, tra alterne vicende e tramite il seppur discontinuo appoggio dei servizi segreti occidentali, si sarebbe protratta fino alla metà degli anni Cinquanta. Contrariamente ad altri movimenti anticomunisti dell’Europa orientale, l’UPA fu l’unica organizzazione ad accogliere nelle sue file non soltanto compatrioti, ma anche elementi appartenenti ad altre nazionalità, religioni ed etnie. Oltre che a tedeschi (alcune centinaia di soldati della Wehrmacht rimasti isolati in seguito all’avanzata russa), tra il 1944 e il 1945, vi confluirono georgiani, armeni, uzbechi e azerbaigiani, tartari, russi, bielorussi e perfino qualche ex-militare italiano. Abbastanza significativa risultò anche la presenza di ebrei russi (soprattutto medici e professionisti) che pur di combattere contro i sovietici accettarono di arruolarsi nell’UPA dove, come è noto, figuravano non pochi elementi antisemiti.

Con l’entrata dell’Armata Rossa in Ucraina, l’UPA provò, prima di dare campo alle armi, a persuadere i soldati russi circa l’inutilità di una lotta fratricida. E a questo scopo fece trovare lungo il cammino delle colonne sovietiche manifesti e volantini inneggianti alla “pace e l’unità dei popoli russo e ucraino”. Incredibilmente, questa apparentemente bizzarra iniziativa riscosse un successo tale da indurre centinaia di soldati dell’Armata Rossa a ribellarsi ai propri comandanti e addirittura a disertare. In alcune zone dell’Ucraina si verificarono infatti casi di ribellione e disobbedienza da parte di intere unità che vennero passate per le armi da truppe scelte della NKVD. Ripristinato l’ordine e la disciplina, la Stavka, cioè il Comando Supremo delle forze armate sovietiche, riprese quindi all’offensiva contro l’UPA. Nell’autunno-inverno 1944 l’Armata Rossa e le forze speciali della NKVD eliminarono 57.405 combattenti ucraini e ne catturarono 50.387. E sempre secondo fonti sovietiche sembra che 15.990 ribelli si siano arresi spontaneamente. Va comunque segnalato, anche a fronte di questi dati, che, tra il 1944 e il 1954, l’attività dell’UPA si rivelerà molto intensa e si tradurrà in ben 14.424 attacchi contro raggruppamenti motorizzati e di fanteria dell’Armata Rossa e della NKVD, senza contare gli attentati a presidi, caserme, quartieri generali, uffici e depositi: fatti d’arme che provocheranno la morte e il ferimento di almeno 35.000 tra ufficiali e militari sovietici e la distruzione di centinaia di autoveicoli e mezzi blindati.

Inferti i primi duri colpi ai raggruppamenti partigiani, i sovietici cercarono di isolare il movimento nazionalista dalla popolazione civile che, nel contempo, venne sottoposta a vessazioni di ogni tipo. La tattica più frequentemente adottata fu quella (già sperimentata con successo negli anni Trenta) di bloccare le forniture alimentari e di sementi ai villaggi e ai centri agricoli ucraini sospettati di dare appoggio ai partigiani. Queste misure, applicate da Stalin anche nei Paesi Baltici, si protrassero con maggiore o minore intensità per diversi anni. Secondo i documenti emersi nel 1995 dagli archivi moscoviti, tra il 1945 e il 1948, il Cremlino fece ridurre in percentuale variabile tutte le derrate alimentari e di generi di prima necessità destinati all’Ucraina: iniziativa che provocò la morte per inedia di almeno 10.000 persone. Testimonianze di questo orrore sono riportate ne Le Memorie di Kravcenko, pubblicate nel 1948 da Longanesi. Come seconda mossa, sia nelle città che nei villaggi agricoli, i commissari politici avviarono una martellante propaganda avente come scopo quello di gettare discredito sull’UPA, facendo ricadere su di essa la responsabilità di tutte le stragi e privazioni inflitte al popolo ucraino. Nei paesi maggiormente colpiti dalle “carestie artificiali” i funzionari comunisti giunsero a promettere non soltanto cibo, ma anche generi di conforto a chi avesse collaborato in qualità di spia o delatore. Queste operazioni (concernenti perquisizione dei villaggi, distruzione di abitazioni e raccolti, sequestro di bestiame e deportazione di contadini nei gulag) vennero condotte soprattutto dalle forze speciali della NKVD ed in misura minore da reparti dell’Armata Rossa. Nell’arco dei primi quattro mesi del 1945, i sovietici fucilarono o impiccarono altri 95.083 tra uomini e donne, portando, alla fine dell’anno, il totale degli ucraini eliminati a 218.865 unità. Contestualmente, essi scatenarono una serie di offensive contro i nuclei più consistenti dell’UPA, ottenendo diversi successi: tra il 1945 e il 1947 vennero infatti uccisi oltre 35.000 aderenti al movimento.

Nel 1945, il confine fra URSS e Polonia venne ridisegnato da Mosca, e in questo nuovo contesto Stalin impose anche uno “scambio di popolazione su base etnica”: manovra che innescò il processo di “russificazione” dell’Ucraina occidentale. Alla metà del 1947, la pratica della deportazione e quella del ripopolamento forzato portarono allo spostamento di circa 14.000 ucraini dalle zone orientali della Polonia ad altri siti. In Ucraina occidentale circa 78.000 individui – per la maggior parte intellettuali e attivisti, ma anche ex-prigionieri e forzati che erano stati rimpatriati dalla Germania – vennero deportati in Siberia e in altre zone remote dell’Urss (6) Tra il 1945 e il 1946, il cosiddetto “scambio volontario di popolazione” con la Polonia permise al primo segretario del Partito Comunista Ucraino, Nikita Kruscev,di attuare la pressoché completa deportazione dei suoi compatrioti occidentali in Ucraina orientale. Oltre a ciò, Mosca ordinò che certe zone della regione venissero “colonizzate” da contadini provenienti da altre repubbliche dell’Unione. Si trattò indubbiamente di una pratica molto efficace che permise a Stalin di “tagliare l’erba” sotto i piedi dei partigiani. La “colonizzazione” e l’immissione in Ucraina di elementi etnici estranei ruppe infatti quei legami con la popolazione che avevano garantito all’UPA buona parte del sostentamento necessario. Tra il 1946 e il 1947, venne poi varato il Quarto Piano Quinquennale che ebbe come risultato un’intensa collettivizzazione dell’agricoltura e un contestuale, rapido aumento dell’industrializzazione: provvedimenti che, se da un lato consentirono la raccolta, e quindi il controllo, nelle fabbriche, di gran parte della popolazione, dall’altra non sortirono alcun sostanziale effetto benefico sull’economia della regione. La grave siccità del 1946 e la paurosa diminuzione della produttività agricola causata dalla deportazione di decine di migliaia di contadini, provocarono infatti una spaventosa carestia che colpì quasi un milione di persone.

Secondo gli storici, il vero e proprio “stato di assedio” dell’Ucraina da parte delle forze sovietiche ebbe inizio nel marzo 1945, quando Stalin, fondamentalmente insoddisfatto dai risultati conseguiti, diede il via alla prima campagna di pulizia etnica del secondo dopoguerra. Il massiccio intervento, affidato alla polizia politica, ma anche ad alcuni reparti dell’esercito, cominciò nel distretto di Sambir e, nell’arco di poche settimane, portò al massacro di 6.000 civili, in gran parte impiccati o fucilati. In certe zone paludose prescelte per le esecuzioni era pratica corrente eliminare i cadaveri legandoli con filo di ferro e facendoli sprofondare negli acquitrini, mentre in altri casi i corpi venivano ammassati in grandi fosse scavate da bulldozer, cosparsi di calce viva ed interrati; dopodiché sull’area venivano piantati alberi e arbusti.

Questo nuovo giro di vite non piegò però la popolazione e tanto meno i combattenti dell’UPA che, a partire dalla primavera del 1945, scatenarono numerosi attacchi a colonne motorizzate e a caserme e depositi sovietici. Non mancarono, da parte dei partigiani, azioni terroristiche nei centri urbani, anche con l’utilizzo di esplosivi. Nel corso di queste imprese, vennero fatte saltare in aria centrali di polizia, locali e ristoranti frequentati da militari e agenti. Secondo alcune stime, tra il 1945 e il 1946, i ribelli uccisero o ferirono 35.000 tra soldati e uomini della sicurezza. Nel febbraio 1947, in una località non precisata dei Carpazi, un commando UPA tese un’imboscata ed uccise il generale polacco Karol Swierczewski. Attentato che indusse il governo di Varsavia a deportare – di comune intesa con Mosca – dall’area di Lemkivschyna in altri siti migliaia di contadini ucraini sospettati di dare appoggio ai commando dell’UPA.

Documenti di fonte ucraina forniscono alcune indicazioni circa il numero delle azioni di guerriglia condotte dalle forze dell’UPA. Nel corso del 1948, i commando nazionalisti effettuarono 42 attacchi nella zona di Volyn, trecentottantasette in quella di Drohobych, otto in quella di Kamianets Podilskyi; due nell’area di Kiev, duecentosettantaquattro nel comprensorio di Lvov, sessantasette in quello di Rivne, più 344 nella zona di Stanyslaviv, duecentoottantadue in quella di Ternopol, due a Chernihiv, dodici a Chernivtsi e due a Brest (Bielorussia).

Sebbene l’UPA riuscisse a portare a compimento molte operazioni, nel 1948, a fronte dell’aumentare degli effettivi dell’Armata Rossa e, soprattutto, delle forze speciali, alcuni reparti partigiani furono costretti ad abbandonare le aree pianeggianti del paese e a trasferirsi più ad occidente verso le zone montagnose dei Carpazi orientali. Già a partire dalla fine del 1946, l’esercito sovietico, avvalendosi anche dell’appoggio di reparti aerei tattici, aveva infatti scatenato una serie di possenti e concentriche offensive circondando ed eliminando diversi gruppi ribelli operanti tra il corso del Dniepr e quello del Dniestr e nell’area di Zitomir e Kiev. Ragione per cui i vertici dell’UPA avevano deciso di ridurre gli organici dei singoli reparti (portati ad un massimo 15/20 elementi ciascuno), rendendoli in questo modo assai più agili e in grado di sgusciare tra le maglie della sorveglianza nemica. La frammentazione dei gruppi consentì anche di ridurre il pericolo di infiltrazione di agenti o informatori nemici, pratica molto utilizzata dai russi.

Di pari passo con le loro offensive militari, i sovietici continuarono ad esercitare una forte pressione materiale e psicologica sulla popolazione locale. Tra il 1945 e il 1946, la NKVD arrestò decine di migliaia (si parla di almeno 50.000 individui) tra cittadini e contadini. Queste attività vennero coordinate in buona misura dal primo segretario Profatilov, divenuto, nel 1945, responsabile di un apparato di sorveglianza e antiguerriglia estremamente efficace e articolato, formato da elementi dell’esercito regolare, reparti della NKVD (utilizzati per la difesa interna), unità Spetsgrup della NKVD (adoperati per interventi speciali), sezioni operative della NKGB, gruppi della GRU (Servizio Informazioni Militari), agenti dalla SMERSH (Controspionaggio Militare), battaglioni della Milizia Territoriale, reparti misti di unità della Milizia (addetti alla sorveglianza di ferrovie, ponti, fabbriche, ecc.), Istrebitelnye Bataliony (o battaglioni “strybki”) e drappelli di autodifesa dei villaggi.

Nel 1948, in talune zone dell’Ucraina, il Cremlino varò una politica di pacificazione e normalizzazione, basata su iniziative rivolte a rassicurare la popolazione. Abbandonato momentaneamente il bastone, i sovietici offrirono agli ucraini la carota. Mosca ordinò infatti larghe distribuzioni di viveri e medicinali, intraprendendo nel contempo la costruzione di ospedali, scuole, centri per l’infanzia e case popolari. Furono anche indette elezioni politiche (ovviamente, a scheda unica): uno stratagemma considerato utile per verificare il livello di eventuale disaffezione della popolazione nei confronti del movimento partigiano la cui attività, in effetti, aveva provocato gravi disagi all’intera comunità. Tuttavia, i risultati di questa prima consultazione si rivelarono un autentico fallimento. L’affluenza alle urne non superò infatti il 35% e tale assenteismo costrinse gli scrutinatori di partito a compilare centinaia di migliaia di schede. Come riferirono gli stessi commissari politici incaricati di sovrintendere le operazioni di voto, “quasi il 75% della popolazione non si era infatti presentata ai seggi, accusando malanni e contrattempi di tutti i tipi”.

Nel gennaio 1949, Kruscev venne nominato segretario del Comitato Centrale Comunista a Mosca e al suo posto, in Ucraina, arrivò Leonid Melnikov, che pur continuando con la politica di normalizzazione, non tralasciò di perseguitare molti intellettuali e uomini di chiesa, accusati di connivenza con l’UPA. Nel paese vennero vietate tutte le manifestazioni e le iniziative di carattere culturale o religioso che potessero in qualche modo corroborare o rinsaldare lo spirito patriottico ucraino. E di pari passo Melnikov intensificò ulteriormente il processo di “russificazione” della vasta regione, abolendo anche dal calendario tutte le ricorrenze tradizionali e le festività legate alla storia dell’Ucraina cristiana e ai suoi legami, anche quelli più antichi, con l’Occidente.

Nel corso del 1949, i sovietici incominciarono a “modificare” la struttura stessa della popolazione ucraina, sottraendo alle famiglie contadine la custodia dei propri figli e riunendo tutta l’infanzia e l’adolescenza nelle organizzazioni giovanili di partito (gli Octoborists, i Pionieri e il Komsomol). In ogni villaggio vennero indetti corsi serali di “rieducazione politica” per giovani e meno giovani, gestiti da esperti del ministero dell’Educazione. E contestualmente proseguirono le elargizioni di viveri ai contadini: soprattutto pane, latte, sale, sementi e vestiario.

Con l’inizio della Guerra Fredda, gli anglo-americani, che temevano un progressivo espandersi dell’influenza sovietica nel mondo, incominciarono – come abbiamo già avuto modo di dire – a considerare i movimenti di resistenza anticomunisti dell’Europa Orientale, e in modo particolare quello ucraino, alla stregua di potenziali e utili alleati. A questo proposito, va ricordato che tra il 1948 e il 1952, tre speciali reparti aerei alleati, il 580°, il 581° e il 582° nucleo dell’Air Resupply and Communication Squadron e del Psycological Storm Wing, dotati di speciali quadrimotori a grande autonomia Boeing B29 (totalmente dipinti di nero, privi di insegne ed affidati ad equipaggi polacchi, cechi e più raramente americani), effettuarono, partendo da basi situate in territorio cipriota, turco e tedesco, diverse missioni di supporto ai partigiani dell’UPA. Nell’ambito di un’operazione segreta chiamata in codice “Integral”, il SIS inglese, che da tempo in Inghilterra e in Germania addestrava piccoli gruppi di volontari ucraini, e baltici, che erano riusciti a fuggire in Occidente, organizzò aviolanci per trasferire in territorio sovietico commando e informatori ucraini, ma anche appartenenti ad altre minoranze, come quella armena e azerbaigiana. Ma come abbiamo già avuto modo di approfondire, la spia Kim Philby mise tempestivamente al corrente i sovietici di questi piani, provocandone il loro quasi totale fallimento.

Nella fattispecie, nel marzo 1951, Philby riferì a Mosca che la CIA aveva in programma un lancio in Ucraina di tre squadre di sei uomini ciascuna. L’articolata operazione scattò nel mese di maggio dello stesso anno quando da una base inglese situata nell’isola di Cipro, un bimotore britannico con immatricolazione civile trasferì 18 agenti di origine ucraina (che durante la Seconda Guerra Mondiale avevano prestato servizio nella Divisione SS “Galizia”) in territorio turco, da dove avrebbero poi dovuto raggiungere la Bulgaria, passare in Romania e quindi in Moldavia. La prima parte della missione ebbe esito positivo, ma allorquando il raggruppamento tentò di entrare in Bulgaria esso venne individuato e neutralizzato dalle forze di polizia comuniste.

Tra l’agosto e l’ottobre 1951, gli americani tentarono altri voli con relativo trasferimento di agenti e materiali, ma tutte queste operazioni (sempre negate dagli Stati Uniti) fallirono miseramente. Nel novembre dello stesso anno, un altro velivolo, questa volta americano, con a bordo apparecchi radio, materiale militare e valuta russa destinati ai partigiani ucraini, venne intercettato e catturato dai sovietici. E l’incidente si trasformò in un caso molto imbarazzate, almeno per Washington. In sede Onu, il rappresentante di Mosca, Andrei Vysinskiy accusò apertamente gli Stati Uniti di intromissione illegale e di atti palesemente ostili nei confronti dell’Unione Sovietica, costringendo il governo americano a pagare la somma di 120.000 dollari per il riscatto dell’equipaggio che si scoprì essere statunitense. Va notato a questo proposito che in altri casi, quando cioè si trattò di equipaggi polacchi e cecoslovacchi ingaggiati dalla CIA per missioni di intruding finiti nelle mani della polizia politica o dell’esercito sovietico, Washington si rifiutò sempre di patteggiare per la loro liberazione, e tanto meno di riconoscere collusioni o altre responsabilità di sorta. In quegli anni, in Europa occidentale, solo molto raramente la stampa ebbe modo di essere informata circa queste particolari operazioni caratterizzanti la Guerra Fredda in corso o circa la spietata repressione sovietica nei confronti dei partigiani ucraini “sponsorizzati” dagli Stati Uniti. Anche se, a livello governativo, le autorità federali tedesche, perfettamente al corrente della cosa, ordinarono ai propri reparti di polizia di guardia lungo la frontiera con la Germania Orientale e con Cecoslovacchia di favorire in qualche modo il passaggio della linea di demarcazione da parte “di gruppi di partigiani armati provenienti dall’Est”.

Proprio nel 1952, in seguito al progressivo aumentare della repressione russa, il comando dell’UPA accelerò lo spostamento di molti suoi reparti verso occidente nella speranza che essi, dopo avere attraversato Polonia, Germania Orientale, Ungheria o Cecoslovacchia, potessero trovare asilo nell’Europa libera. Già nel settembre 1947, infatti, ad un reparto (la Compagnia 95) era riuscito, seppure al prezzo di alte perdite, di passare in Germania Occidentale. Su 100 uomini facenti parte dell’unità, soltanto 36 arrivarono alla meta. (si veda a questo proposito Thousands of Roads di Maria Savchyn Pyskir, traduzione inglese di Ania Savage. Jefferson, N.C.; McFarland & Company, Inc.)

“Nell’estate del 1947, anche le forze statunitensi di guardia lungo il confine tra Germania Ovest e Germania Est e Cecoslovacchia individuarono a più riprese gruppi di nazionalisti ucraini in fuga dall’Unione Sovietica. Secondo i resoconti ufficiali si trattava di “piccole pattuglie formate da uomini disperati e in condizioni pietose: con i vestiti a brandelli e con a tracolla o alla cintura mitragliatori e pistole di fabbricazione tedesca. Il 31 agosto 1947, il Comando statunitense del contingente di occupazione presente in Germania emanò a tutti i reparti di frontiera un ordine che prevedeva il disarmo immediato di tali gruppi e il loro trasferimento in appositi campi dove sarebbero stati sottoposti ad interrogatori. E dai verbali relativi a questi ultimi, emerse senza ombra di dubbio l’appartenenza di tali gruppi all’organizzazione militare UPA […] Alcuni di questi contingenti erano stati costretti a trovare scampo in Occidente per sfuggire alla repressione scatenata dalla polizia sovietica in seguito all’uccisione di un noto generale polacco avvenuta il precedente 27 marzo […] Prima di potere guadagnare il territorio tedesco, i guerriglieri ucraini avevano dovuto affrontare una lunga e pericolosa marcia attraverso la Slovacchia durata ben quattro settimane”. (Peter Grose, Operation Rollback , Houghton Mifflin Company, New York, 2000)

Gli assassini di personalità politiche e militari sovietiche o polacche e di “collaborazionisti” comunisti rientravano nel tipo di lotta armata intrapreso dall’UPA. Nel novembre 1949, a Lvov, un commando ucraino massacrò a colpi di ascia Yaroslav Galan, un ideologo sovietico molto impegnato nella lotta politica contro i cosiddetti “banditi” dell’UPA. Ma il 5 marzo 1950, nei pressi del villaggio di Chorny Lis in Ucraina occidentale, i russi si presero un’importante rivincita. Un contingente speciale della MVD alle dirette dipendenze di Pavel Anatolievich Sudoplatov (uomo di fiducia di Stalin, autore tra l’altro del piano realizzato per assassinare Trotsky), dopo lunghe ricerche riuscì a scovare e ad uccidere il leader partigiano Roman Shukhevych. Anche se alcune fonti ucraine sostengono che il loro comandante si sia invece suicidato per non cadere nelle mani dei sovietici. Sta di fatto che, dopo la morte di Shukhevych tutte le attività clandestine, condotte sotto il comando del successore  colonnello Vasyl Kuk, iniziarono a perdere progressivamente mordente e intorno al 1955 (dopo la cattura di Kuk da parte di un commando MVD-MGM) gli ultimi gruppi armati dell’UPA cessarono ogni resistenza. Anche se sembra che per ancora qualche anno, fino ai primi mesi del 1960, alcune unità rimasero in armi. Secondo certi storici, l’ultimo scontro armato degno di rilievo tra partigiani ucraini e forze sovietiche si verificò nel novembre del 1956 ai confini con l’Ungheria, allorquando alcuni guerriglieri UPA si unirono ad un gruppo di ribelli magiari in lotta contro i russi. Successivamente, il leader Kruscev avviò una politica sicuramente meno oppressiva, anche se totalmente illiberale, nei confronti del disgraziato popolo ucraino.

Circa la connivenza ideologica tra parte degli ucraini nazionalisti e tedeschi, nel secondo dopoguerra gran parte della pubblicistica non ha avuto dubbi nel liquidare sia l’UPA che l’OUN alla stregua di “fenomeni prettamente reazionari, filo fascisti e violenti”, e in quanto tali da condannare in toto. Fiumi di inchiostro sono stati versati a questo proposito sulle “nefandezze” compiute dalle formazioni ucraine (formate da volontari o coscritti) inserite nell’esercito tedesco. Si veda, a questo proposito, la 14ma Divisione di fanteria Waffen-SS “Galizia”, che comprendeva numerosi membri sia dell’OUN che dell’UPA. Durante l’occupazione tedesca della Polonia e dell’Unione Sovietica occidentale, le unità ucraine delle SS si distinsero, in effetti, nelle persecuzioni contro la popolazione civile polacca (circa 70.000/110.000 civili residenti in Galizia, Volhynia, Polesie e in alcune zone della Polonia sud-orientale vennero massacrati). Ma sostenere, come è stato fatto, che il movimento nazionalista ucraino si sia dedicato esclusivamente allo sterminio di russi, polacchi ed ebrei non corrisponde al vero, anche se – come si è detto – una parte degli aderenti all’UPA e dei volontari ucraini delle Waffen SS si macchiarono indubbiamente di orribili crimini.

Detto questo, stando a diverse testimonianze (anche di fonte ebraica), risulta che molti patrioti ucraini si impegnarono per dare assistenza e rifugio a elementi perseguitati o ricercati dai nazisti, tra cui rappresentanti di varie fazioni politiche, ebrei e non pochi piloti anglo-americani abbattuti, tra il 1944 e il 1945, con i loro apparecchi in Bielorussia, Ucraina e Polonia. In questo contesto, anche i religiosi ucraini non furono da meno. Il metropolita Andrej Sheptytsky della Chiesa cattolica ucraina offrì rifugio a parecchi ebrei braccati dalle SS e dalla Gestapo. Per quanto concerne l’attività a sostegno degli israeliti, basti ricordare che nel dopoguerra ben 1.609 ucraini vennero “premiati” dallo stato israeliano, trovando posto nello Yad Vashem. Per la cronaca, gli ucraini costituiscono il quarto più numeroso gruppo etnico europeo appartenente ai cosiddetti “meritevoli”, dopo quello polacco, olandese e francese.

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