Battaglia di Kosovo Polje
Assedio e battaglia di Vienna
DA KOSOVO POLJE A VIENNA
NASCITA E DECLINO DELL’IMPERO OTTOMANO
di Alberto Rosselli
La
storia dell’impero ottomano è stata lunga, gloriosa e densa di avvenimenti che
hanno coinvolto e segnato, direttamente o indirettamente, lo sviluppo sia
dell’Europa occidentale e orientale che quello di altre vaste regioni del Nord
Africa e del Medio Oriente. Per molti secoli, a partire dal 1300, l’impero
ottomano ha infatti rappresentato un grande ed importante organismo politico,
etnico, religioso e militare.
All’origine
di questa complessa e possente struttura imperiale furono le numerose
migrazioni dei popoli provenienti dall’Asia centrale. Da questo immenso
territorio, tra il IV e il V secolo, gli Unni investirono direttamente le
steppe russe e l’Europa centrale, portando altre popolazioni ad essi
linguisticamente affini ad esercitare nelle epoche successive un’analoga e
costante pressione in direzione della Russia meridionale e dell’Anatolia dove,
verso la metà dell’XI secolo, i turchi selgiuchidi di Alp Arslan si insediarono
saldamente, sconfiggendo gli eserciti bizantini dell’imperatore bizantino
Romano IV Diogene a Mantzikert (1071), e determinando l’inizio del declino di
questa civiltà. Ridotta Bisanzio ad un piccolo regno aggrappato alle sponde del
Bosforo, gli oghuz o turcomanni, convertitisi nel frattempo all’islam,
consolidarono la loro presenza su quasi tutta l’Anatolia e il Medio Oriente,
allargando i loro orizzonti espansionistici anche oltre i confini occidentali
dell’ex-Impero Romano d’Oriente.
Quando
nel XIII secolo le armate mongole provenienti dal cuore dell’Asia
incominciarono a spostarsi velocemente verso occidente, investendo i territori
compresi tra la Russia e l’altopiano iraniano, l’Anatolia turca si frantumò in
numerosi principati, tra i quali emerse quello retto da Osman che, dopo avere
conquistato nel 1326 il ricco centro commerciale di Bursa, fece di quest’ultima
località la prima capitale di uno stato che da lui assunse la denominazione di ottomano, dando origine ad
una dinastia che nell’arco di cinque secoli porterà sul trono 36 sovrani. I
figli di Osman I, Orkhan e ‘Ala ud-Din getteranno le basi per l’espansione
territoriale del neonato regno, avviando una saggia politica di alleanze –
stipulate anche attraverso matrimoni diplomatici – con le fazioni bizantine in
lotta tra di loro, e combattendo in Anatolia i principati islamici rivali.
Una
grande spinta espansionistica in direzione del continente europeo la diede
Suleyman, figlio di Orkhan, che riuscì ad accerchiare ciò che rimaneva del minuto
e traballante impero bizantino. Dopo avere conquistato Edirne, nel 1361, e dopo
avere travolto la resistenza slava e serba a Cirmen, sulla Maritsa (1371), e a
Kosovo Polje (1389) – dove i turchi massacrarono il fior fiore della nobiltà e
dell’esercito serbi – gli ottomani rafforzarono definitivamente il loro potere
su gran parte dei Balcani. La battaglia di Kosovo Polje riveste un’importanza
particolare poiché da quella data fino all’assedio di Vienna del XVII secolo,
la Sacra Porta si trovò quasi sempre contrapposta all’Europa cristiana,
cattolica e ortodossa.
Il
28 giugno 1389, nella piana di Kosovo Polje (la “Piana dei merli”, a nord di
Priština, capitale del Kosovo) ebbe luogo questo scontro. L’esercito cristiano,
composto da una coalizione formata da serbi e bosniaci, era comandato dal knez (principe e
condottiero) serbo Lazar Hrebljenović alla testa di circa 25.000 uomini,
suddivisi in tre colonne: una al comando del genero di Lazar, Vuk Branković,
quella centrale agli ordini del principe Lazar e la terza al comando del duca
bosniaco Vlatko Vuković. L’armata ottomana, guidata dal sultano Murad I,
contava invece 50.000 uomini. La contesa ebbe inizio con l’avanzata della
cavalleria serba che piegò l’ala sinistra e destra dello schieramento ottomano.
Tuttavia, il sopraggiungere dalle retrovie di cospicui rinforzi turchi permise
a Murad I, ormai alle corde, di scatenare un insperato e poderoso contrattacco
che travolse l’esercito nemico. Nello scontro caddero il principe Lazar – che
in seguito venne canonizzato dalla Chiesa ortodossa serba – e quasi tutta la
nobiltà slava. Vuk Branković riuscì invece a ripiegare, venendo infine
catturato e ridotto in catene. A Murad, assassinato poco tempo dopo, succedette
il figlio Bayazid I che prese in moglie la figlia di Lazar, la principessa
Olivera Despina. Sulle orme del padre, Bayazid continuò ad espandere e
consolidare il predominio ottomano nei Balcani, riducendo il già ridimensionato
regno serbo ad una sorta di stato vassallo.
Bayazid
fu il primo regnante ottomano a vedersi riconosciuto il titolo di imperatore.
Egli organizzò una grossa spedizione militare contro la Bulgaria, non prima
però di avere pacificato i suoi possedimenti anatolici. Schiacciate le velleità
indipendentiste dei principati turcomanni di Qaraman, Aydin, Sarukhan, Menteshe
e Germiyan (regni che, nel 1391, l’imperatore costrinse con la forza ad
inchinarsi ai suoi voleri), egli si dedicò totalmente alle questioni
occidentali conquistando la Bulgaria nel 1393 e tentando senza successo, l’anno
seguente, di espugnare Costantinopoli.
Fu
solo a quel punto che, rendendosi conto del grave pericolo rappresentato
dall’orda ottomana, i regnanti cristiani dell’Europa orientale decisero di
unirsi, lasciando da parte incomprensioni e vecchie ruggini. Nel 1396,
un’armata cristiana, composta da truppe slave, ungheresi, tedesche e inglesi,
al comando di re Sigismondo d’Ungheria, penetrò in territorio turco, venendo
però annientata a Nicopoli. Il disastro annichilì non soltanto le capacità
difensive e offensive dei regni cristiani dell’Europa orientale, ma fece
svanire nei bizantini, rintanati a Costantinopoli e in pochi altri centri della
Grecia, le ultime speranze di sopravvivenza. Tuttavia, un inaspettato evento
procrastinò di qualche decennio la definitiva dissoluzione dell’impero greco.
Nel 1402, un numeroso esercito asiatico agli ordini di Tamerlano il Grande
ricalcò da oriente ad occidente le piste già percorse dalle orde mongole e,
raggiunta l’Asia Minore, travolse l’esercito di Bayazid nella battaglia di Ankara.
Tuttavia, anche in seguito allo spontaneo arretramento verso est dell’esercito
di Tamerlano, i turchi riuscirono a ripristinare nuovamente la loro egemonia
sull’Anatolia, e uno dei figli del sultano, Maometto I, avvalendosi
dell’appoggio del primogenito Murad II, ristabilì l’ordine su quasi tutti i
territori dell’impero, pianificando anch’egli la conquista di Costantinopoli,
difesa dalle scarne forze dell’ultimo imperatore bizantino Costantino XI:
impresa che riuscirà soltanto a suo nipote Maometto II, nel 1453, al termine di
un lungo e tragico assedio.
Dopo
la definitiva occupazione della capitale bizantina e dei suoi residui
possedimenti del Mar Nero e dell’Egeo, i turchi ampliarono ulteriormente i
confini dell’impero, iniziando a confrontarsi direttamente con le potenze
europee occidentali: la Repubblica di Venezia, l’impero asburgico e il nascente
impero russo. Nel XVI secolo, gli ottomani avevano assoggettato la Grecia e
quasi tutta la penisola balcanica, spingendosi fino alle pianure ungheresi, rumene
e a quelle della Russia meridionale. Sotto il regno di Suleyman I il Magnifico
(1494-1566), l’impero ottomano raggiunse il suo apogeo, estendendo i suoi
possedimenti dai confini austro-ungheresi e da quelli romeno-russi fino
all’Egitto (occupato nel 1516), alla Libia, alla Tunisia e all’Algeria; e dal
Caucaso fino alla Persia, alla Mesopotamia e alle coste arabe e yemenite del
Mar Rosso.
Nel
1521, i turchi conquistarono la fortezza di Belgrado, ultimo bastione serbo, e
l’anno successivo occuparono l’Isola di Rodi, sconfiggendo i Cavalieri
dell’Ordine di San Giovanni. Nel 1526, dopo la battaglia di Mohàcs, l’Ungheria
divenne vassalla dell’impero ottomano e nel settembre 1529 le armate della
mezzaluna si spinsero addirittura sotto le mura di Vienna, venendo però
respinte dalle forze di Ferdinando I d’Asburgo. Suleyman decise allora di
puntare su Roma e sull’Italia e con una poderosa flotta cercò invano di
espugnare l’ultimo antemurale cristiano, cioè la fortezza di Malta,
strenuamente difeso dai Cavalieri Ospitalieri di San Giovanni: i Cavalieri di
Malta del Gran Maestro fra’ Jean de la Vallette. Un decennio più tardi, con la
vittoria navale di Prevesa (1538) ottenuta sulla coalizione
ispano-veneto-papale, i turchi acquisirono di fatto il predominio sull’intero
Mediterraneo orientale e centrale: potestà che venne rimessa però in
discussione nel 1571 in seguito alla battaglia navale di Lepanto, la prima
grande vittoria cristiana sugli ottomani.
La
battaglia di Lepanto (imboccatura del Golfo di Corinto) ebbe luogo il 7 ottobre
1571 e vide la flotta ottomana (forte di 265 navi poste al comando
dell’ammiraglio Mehmet Alì Pascià) affrontare quella
spagnola-pontificia-veneziana-genovese-napoletana della “Lega Santa”. Alleanza,
questa, promossa e “benedetta” da papa Pio V per tentare di liberare
dall’assedio turco la città di Famagosta, difesa dalle truppe del valoroso
condottiero veneto Marcantonio Bragadin, e alla quale aderirono anche altri
stati e città tra cui il ducato di Savoia, la Sicilia, Firenze, Napoli, Urbino,
Ferrara, Parma, Mantova e Lucca e l’ordine dei Cavalieri di Malta. La squadra
cristiana, posta al comando di don Juan d’Austria, fratello del re di Spagna
Filippo II, era composta da 150 tra galee e galeazze veneziane, settantanove
spagnole (su una delle quali si trovava anche lo scrittore Miguel de Cervantes
che durante la battaglia rimarrà gravemente ferito), dodici pontificie, una
ventina tra genovesi e liguri ed altre ancora, per un totale di 294 navi.. La
flotta cristiana vedeva alla sua ala sinistra le unità veneziane
dell’ammiraglio Agostino Barbarigo, in posizione centrale quelle spagnole di
Don Juan d’Austria, le veneziane al comando di Sebastiano Venier e le
pontificie di Marcantonio Colonna, e all’ala destra le navi genovesi
dell’ammiraglio Gian Andrea Doria. Da canto suo, la squadra turca di Mehmet
Alì, schierava le navi dell’ammiraglio Mehmet Soraq sulla destra, quelle di
Mehmet al centro e quelle dell’ammiraglio Uluč Alì sulla sinistra.
Secondo il parere di alcuni storici, la vittoria cristiana fu forse frutto di
una assai poco decifrabile manovra del Doria che o per un geniale piano
precedentemente architettato o per il timore di uno scontro (come sostennero
gli “odiati” veneziani), poco prima del contatto con il nemico avrebbe
abbandonato la formazione, allontanandosi in mare aperto, per poi piombare alle
spalle dello schieramento ottomano. Più verosimilmente, la flotta cattolica
ebbe la meglio grazie soprattutto alla superiorità delle potenti galeazze
veneziane e, in generale, al migliore e più moderno armamento delle navi della
coalizione, tutte dotate di cannoni, spingarde e colubrine. A conti fatti, la
vittoria cristiana (che costò agli ottomani ben 140 navi e 25.000 uomini) non
servì a salvare o a riconquistare Famagosta, non determinò il definitivo
inceppamento della macchina militare ottomana, ma segnò sicuramente l’inizio
del declino della sua componente marittima. Verso la fine del XVI secolo, il
progressivo rafforzamento dell’impero asburgico contribuì a creare le premesse
per un definitivo contenimento delle pressioni ottomane in direzione
dell’Europa centrale. Tanto è vero che nel 1609, con il trattato
turco-asburgico di Zsitvatorok, i turchi furono costretti a riconoscere una
netta linea di demarcazione tra le regioni balcaniche da essi occupate e quelle
di lingua tedesca situate più a nord. Da quella data, l’impero ottomano iniziò
un lento ma inarrestabile declino, aggravato da una progressiva crisi interna.
Il consolidamento delle identità nazionali europee occidentali – unito al
progresso economico, tecnologico e scientifico sviluppatosi tra il XV e il XVII
secolo – rese sempre più potenti i grandi regni cristiani. E questi ultimi,
attraverso un rapido processo di modernizzazione, superarono la vecchia ed
inadeguata struttura organizzativa dell’impero ottomano.
Tra
il XVII e il XVIII secolo la Sacra Porta entrò quindi nel vortice di una grave
crisi, assumendo nell’ambito dei rapporti internazionali un ruolo sempre più
marginale. Costretti, a partire dal Settecento, a dipendere quasi completamente
dalla consulenza di operatori economici stranieri, soprattutto occidentali, e a
fare uso di beni e prodotti esteri a causa della cronica arretratezza di
un’economia e di un’amministrazione ancora ferme a criteri operativi e
gestionali molto antiquati, i sultani perseveravano comunque nel respingere
l’introduzione di nuovi e necessari metodi e sistemi produttivi e burocratici.
Essi, infatti, avvertivano queste innovazioni come estranee alla loro
tradizione e contrarie al loro orgoglio nazionale. Ma le enormi spese sostenute
per mantenere in piedi il gigantesco ma sostanzialmente inefficiente apparato
militare e civile, contribuirono ad aumentare ulteriormente e a dismisura sia
la dipendenza dal credito straniero che la pressione fiscale interna, che in
breve tempo raggiunse livelli insopportabili. Anche se non mancarono statisti
che tentarono di arrestare l’inevitabile declino economico, politico e
militare, come il gran visir
Mehemed Koprulu che governò dal 1656 al 1661.
Verso
la fine del XVII secolo si ebbe tuttavia un’ultima vampata di bellicoso, ma
velleitario, orgoglio imperialista, penetrando in territorio asburgico e
raggiungendo, nel 1683, Vienna, sotto le cui mura verranno tuttavia sconfitti e
definitivamente respinti dalle forze cristiane.
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