L’OPERAZIONE “HALYARD”, OVVERO LA PROVA DELLA LEALTA’ DEL LEADER CETNICO DRAZA MIHAILOVICH NEI CONFRONTI DEGLI ALLEATI
di Alberto Rosselli
Nel 1964, Richard I. Felman, maggiore a
riposo delle Forze Aeree statunitensi, diede alle stampe un piccolo, ma
importante libro di 46 pagine intitolato “Mihailovich ed io. Testimonianze di Richard L. Felman sulla Missione Halyard”.
Il testo non ebbe alcun successo di pubblico, anche perché affidato ad
una modesta casa editrice, ma ebbe il merito di fare riaprire un
capitolo tra i più interessanti, complicati e meno noti della guerra
partigiana in Iugoslavia tra il 1941 e il 1945. Nella fattispecie, il
libro di Felman svelò i retroscena di una missione di salvataggio –
l’Operazione Halyard – di alcune centinaia di piloti alleati
precipitati in Serbia, portata a brillantemente a compimento nel 1944
grazie al contributo del leader nazionalista cetnico Dragoljub-Draža
Mihailovich che nel dopo guerra la storiografia ufficiale ha
frettolosamente relegato nel ghetto dei “dannati” in quanto ritenuto
colpevole di “collaborazionismo” nei confronti delle forze di
occupazione tedesche (1). Per molti anni, l’Operazione
Halyard, che come si vedrà rappresenta invece la prova inconfutabile
della lealtà del capo cetnico nei confronti degli anglo-americani e alla
quale Felman prese parte – è stata volutamente insabbiata dai servizi
segreti d’oltre Oceano, desiderosi di non compromettere i rapporti con
uno dei più importanti stati “non allineati”, la Iugoslavia di Josip
Broz detto Tito. Il fatto che gli americani avessero potuto usufruire a
proprio vantaggio dell’appoggio disinteressato di Mihailovich (nemico
giurato di Tito) dopo averlo rinnegato nel 1943 come alleato dietro
pressioni di Stalin, avrebbe infatti potuto incrinare le relazioni tra
Washington e Belgrado i cui rapporti con Mosca nel 1948 deteriorarono al
punto di cessare completamente. Ma non è tutto. Dal resoconto della
Missione redatto da Felman emersero anche alcune verità che avrebbero
potuto compromettere gravemente l’immagine del leader comunista
iugoslavo, ritenuto dalla stragrande maggioranza degli storici il vero e
unico artefice della guerra di liberazione iugoslava dalla tirannia
nazista. Il breve, ma ben documentato testo di Felman risulta infatti
denso di implicazioni di carattere politico e riconsegna alla storia una
porzione di verità tradita. Una malversazione dei fatti che permise nel
1946 a Tito di mandare sul patibolo, tra il plauso generale della
disinformata opinione pubblica occidentale, il suo più pericoloso
avversario, cioè il generale Mihailovich. Vittima della
damnatio memoriae comminata da Tito, Mihailovich viene però da Felman
ampiamente e giustamente rivalutato. Non soltanto l’autore (la cui
opinione è stata poi supportata, come vedremo, da altre qualificate ed
attendibili testimonianze) è stato in grado di provare la paternità del
successo di un’operazione (la Halyard) che consentì il salvataggio e il
rimpatrio di 513 aviatori statunitensi e 83 soldati anglo-americani
rimasti isolati in Serbia in seguito all’abbattimento dei propri
velivoli da parte dei tedeschi, ma ha potuto anche provare che il
presunto tradimento di Mihailovich nei confronti della causa alleata
altro non fu che una menzogna “costruita” con notevole abilità da agenti
dei servizi segreti sovietici infiltratisi nel SIS britannico con il
preciso scopo di screditare agli occhi degli inglesi e degli americani
l’immagine del generale cetnico, e consentendo a Tito di assurgere al
ruolo di unico Liberatore della Patria: ruolo che a partire dalla metà
del 1943 permise a questi di beneficiare degli aiuti economici e
militari anglo-americani precedentemente accordati al leader serbo. Nel
dopo guerra, Felman, che grazie all’intervento di Mihailovich ebbe salva
la vita, si dedicò anima e corpo per ridare dignità al personaggio e in
generale al movimento nazionalista cetnico, incontrando però
l’ostracismo della storiografia ufficiale. Va notato, a questo
proposito, che quando nelle librerie statunitensi uscì il suo testo,
l’ex sotto tenente pilota Felman – che nel frattempo si era guadagnato
una certa notorietà per le innumerevoli decorazioni acquisite nel corso
della sua carriera e per essere diventato il rappresentante
dell’Associazione Piloti Militari statunitensi in congedo – venne fatto
oggetto di una violente campagna denigratoria (l’Intelligence Usa lo
accusò di essersi inventato l’intera storia) e di una serie di esplicite
minacce da parte del governo di Belgrado che oltre a negare
categoricamente il contenuto del libro, arrivò addirittura a bollare
l’autore (che era di origine ebraica) di tendenze filo-naziste.
Richard I. Felman nacque nel Bronx (New
York City) il 29 maggio 1921 da famiglia israelita. Suo padre David era
statutinense, mentre sua madre Dora era emigrata dalla Polonia orientale
in America negli anni Trenta. Il 24 luglio 1942, Felman si arruolò nel
Corpo dell’Aviazione dell’Esercito degli Stati Uniti ottenendo in breve
tempo il grado di sottotenente pilota di bombardiere. Ai comandi di un
quadrimotore Boeing B-24 “Liberator”, Felman venne assegnato con il suo
equipaggio al 98° Gruppo da del 15° US Army di base a Lecce, in Italia,
dove giunse nell’autunno del 1943. Felman partecipò a 22 missioni contro
obiettivi ubicati in Romania, Ungheria e altri paesi occupati dai
tedeschi. E nel 1944, con il suo B24, battezzato “Mai un momento di
noia”, Felman prese parte ad una delle più famose operazioni di
bombardamento della Seconda Guerra Mondiale: quella contro i campi
petroliferi romeni di Ploesti che a quel tempo fornivano l’80% del
petrolio necessario alla Germania per sostenere lo sforzo bellico. Prima
della partenza per la missione, i superiori di Felman avevano parlato a
lungo agli equipaggi circa l’importanza degli obiettivi da colpire e le
manovre di disimpegno da applicare in caso di necessità. Nella
fattispecie, ai piloti venne sconsigliato di sorvolare il territorio
serbo, per non correre il rischio di cadere nelle mani dei tedeschi e
dei reparti cetnici del generale Draza Mihailovich. Questi ultimi, in
quanto alleati dei tedeschi, “erano infatti soliti tagliare le orecchie
agli aviatori alleati precipitati sul loro territorio, per poi
consegnarle ai nazisti come pegno di fedeltà”. Sempre nel corso del
briefing, un ufficiale dell’Intelligence Usa raccomandò a tutti i
piloti, in caso di atterraggio di fortuna o lancio con paracadute, di
mettersi subito in contatto con i partigiani comunisti di Tito che
cooperavano con gli Alleati. Il suggerimento – come annotò nel suo libro
Felman, lasciò tutti noi abbastanza perplessi. In più di un’occasione,
infatti, aviatori alleati precipitati in Iugoslavia e poi rientrati alle
basi avevano raccontato di essere stati aiutati delle bande cetniche,
mentre parte di quelli che si erano messi in contatto con i gruppi
comunisti avevano riscontrato non pochi problemi di “convivenza”. Senza
considerare che sia Felman che i suoi colleghi ben si ricordavano del
patto di alleanza esistente tra cetnici e anglo-americani. Felman
rammentò anche che la copertina del numero (quello del 25 maggio 1942)
della nota rivista Time Magazine era stata interamente dedicata al
comandante serbo con un vistoso sottotitolo: “Mihailovich: l’Eroe della
Resistenza iugoslava”. Va inoltre ricordato che, sempre nel 1942, la
testata americana aveva incluso il leader serbo tra i primi cinque
papabili al tradizionale concorso di “personaggio dell’anno”, gara che
nel 1942 venne tuttavia vinta da Stalin dietro pressioni del gabinetto
Roosevelt. Comunque sia, fino alla metà del 1943, Mihailovich ricevette
favorevoli attenzioni da parte di tutti i media statunitensi, mentre
sulla figura e l’attività del leader comunista iugoslavo Tito non venne
scritto o detto praticamente nulla Nel 1943, la Twentieth Century Fox
produsse addirittura un film, diretto da Louis King, sull’”Eroe della
resistenza iugoslava” Draza Mihailovich. Ma la pellicola non uscì mai
nelle sale e verso la fine del 1943 venne ritirata e completamente
stravolta nei contenuti. Dietro indicazioni della Casa Bianca,
Mihailovich divenne improvvisamente “un eroe finito: inaffidabile e
traditore”. La ragione di questo cambiamento era da ricercare nel fatto
che nel frattempo sia Washington che Londra, pressate da Stalin, avevano
accettato di staccarsi da Mihailovich per abbracciare la causa
comunista iugoslava. E pensare che nella primavera del 1941, dopo la
sconfitta dell’esercito iugoslavo (il 12 aprile, il Comando di Belgrado
si arrese al generale Paul Ludwig Ewald von Kleist von Kleist), il
colonnello Mihailovich era stato il primo e l’unico alto ufficiale
dell’esercito a rifugiarsi sulle montagne con i suoi fedeli e ad
intraprendere immediatamente la lotta armata partigiana contro gli
invasori tedeschi. Mentre dal canto loro, le forze comuniste di Tito non
mossero un dito contro i tedeschi fino al 22 giugno 1941, cioè quando
la Wehrmacht invase la Russia. Come prima base operativa, Mihailovich
aveva scelto Ravna Gora dove si insediò l’8 maggio 1941. Contrariamente a
quanto è stato scritto e riportato dai suoi detrattori e dalla
pubblicistica, Mihailovich, che il 17 giugno 1942 venne nominato
generale, non diede mai tregua ai nazisti né alle forze italiane e
bulgare presenti sul territorio. Tanto che, all’inizio del 1942, il
generale Heinrich Dankelmann Governatore Militare della Serbia, dovette
chiedere rinforzi a Berlino. Non essendo riuscito ad ottenerli (in quel
periodo la Wehrmacht era troppo impegnata sul fronte russo), il generale
tedesco tentò quindi la via diplomatica, offrendo a Mihailovich una
sorta di armistizio che tuttavia il leader cetnico respinse: “Non possiamo trattare…Fino a quando un solo soldato tedesco calpesterà il suolo della nostra Patria, noi continueremo a batterci”.
Dopodiché dispose la sua armata nel modo più conveniente, cioè
frammentandola in unità autonome e bene comandate in una vasta area in
modo da costringere tedeschi, italiani, bulgari e croati a disperdere le
proprie forze. Reparti cetnici costituirono i loro “santuari” nelle
montagne della Serbia, della Bosnia e in quelle del Montenegro, tendendo
frequenti imboscate alle colonne nemiche ed effettuando, soprattutto
tra il 1941 e il 1942, improvvisi e devastanti attacchi diretti contro
capisaldi e villaggi presidiati dalle truppe dell’Asse. Il 19 gennaio
1943, il generale Paul Bader, comandante militare della Serbia riferì a Berlino che “l’ex colonnello Draza Mihailovich” continuava “a rappresentare un grave problema per il Reich”.
Il 20 luglio 1943, la stampa controllata
dall’Asse pubblicò un proclama che offriva una ricompensa di 100.000
marchi d’oro per la cattura di Mihailovich, vivo o morto. Ma nonostante
le continue minacce e la carenza di armi e munizioni, il generale
continuò egualmente a resistere, ricevendo ringraziamenti e
congratulazioni da parte alte personalità militari alleate, tra cui il
generale Eisenhower, del generale Auchinleck, il maresciallo dell’aria
Tedder, l’ammiraglio Harwood e il generale De Grulle. Attestati che non
lo salvarono dalla messa al bando. Fu all’indomani della Conferenza di
Teheran (28 novembre – 1° dicembre 1943) che Roseevelt e Churchill
decisero infatti di scaricarlo. Privato dei rifornimenti e continuamente
attaccato dalle bande comuniste, nell’estate del 1944 Mihailovich fu
giocoforza costretto a smobilitare gran parte delle sue forze e a
ridurre la sua attività sul territorio. Va comunque notato che nel
settembre 1944, i servizi secreti americani, che temevano per la sua
vita, gli offrirono nascostamente di fuggire dal paese, ma Mihailovich
declinò l’offerta. “Vi ringrazio. Ma il mio unico desidero è quello
di rimanere, comunque vadano le cose, a fianco del mio popolo. La mia
forza è nel popolo serbo”
Nel dopoguerra, lo storico canadese
David Martin raccolse nuove importanti prove a sua volta riprese da
Felman. Nel corso di lunghe indagini, Martin scoprì che il capitano
James Klugman del British Special Operations Executive (SOE), con base
prima al Cairo e poi a Bari, era stato in realtà una talpa comunista al
servizio di Stalin e di Tito, impegnata in un’opera di sistematica
disinformazione circa l’attività dei movimenti partigiani iugoslavi,
esaltando le presunte gesta di quelle comuniste e criticando quelle
compiute dai cetnici.
Stando a Martin, Klugman modificò e
falsificò tutte le informazioni raccolte dagli agenti inglesi
paracadutati tra il 1942 e il 1943 in Iugoslavia per stornare il
sostegno anglo-americano da Mihailovich a Tito. Disgraziatamente,
Klugman godeva di un notevole ascendente sul primo ministro Winston
Churchill e molte importanti amicizie all’interno del SIS (nel quale
agivano da tempo diverse spie sovietiche), del Foreign Office e della
BBC. Il capolavoro di manomissione della verità attuato da Klugman fu
però quello di redigere un rapporto segreto (poi passato al ministero
della Difesa inglese) dal quale emerse che nel corso del 1942, le sole
forze partigiane del maresciallo Tito avevano avuto il merito di
“immobilizzare e neutralizzare” in territorio iugoslavo qualcosa come 24
divisioni tedesche di primo ordine e 10 italiane. Cosa naturalmente del
tutto falsa. Infatti, nel dopoguerra, si venne infatti a sapere che nel
1942, la Wehrmach aveva schierate in Iugoslavia soltanto otto divisioni
a ranghi ridotti, rinforzate da formazioni di supporto formate da
elementi volontari croati, bulgari, bosniaci musulmani e albanesi. Gli
italiani dal canto loro disponevano in Montenegro e Albania di una mezza
dozzina di divisioni, abbastanza folte ma di limitato potenziale
bellico. Klugman riferì inoltre ai Comandi Alleati di violente e
vittoriose offensive condotte da forze partigiane “comuniste” contro
Wehrmacht e le forze italiane e croate, mettendo in evidenza il ruolo
marginale e soprattutto l’atteggiamento ambiguo dei raggruppamenti
cetnici, inclini, a parere suo, a patteggiare con gli occupanti nazisti.
Insomma, la spia di Mosca esaltò a tale punto la combattività, il
patriottismo e la lealtà delle forze titine da indurre nel 1943 lo
stesso Churchill (che certamente non simpatizzava per i comunisti) ad
assumere un atteggiamento decisamente ostile nei confronti di
Mihailovich che, in realtà, non soltanto stava combattendo contro i
tedeschi, ma doveva anche guardarsi oltre che dai comunisti anche dagli
ustascia croati e dagli italiani..
Ancora nell’autunno del 1944, Klugman
riferì che Tito era riuscito a liberare da solo i due terzi della
Iugoslavia e a dare un contributo essenziale alla conquista della
capitale Belgrado che, come è noto, venne occupata il 21 ottobre del ’44
dalle forze sovietiche del maresciallo Tolbukin (controllare) con il
marginale contributo di unità titine. Ciò che Klugman omise fu che fino
all’aprile del 1945 gli ormai scarni reparti della Wehrmacht appoggiati
da male armate unità croate, respinsero e batterono ripetutamente le
armate partigiane titine, nonostante queste godessero del massiccio
appoggio aereo anglo-americano e sovietico. Ma il documento più
interessante ritrovato negli archivi dell’Intelligence britannica fu una
lettera top secret inviata nel marzo del 1943 da Tito al responsabile
del Comando tedesco di Sarajevo. In questa sconcertante missiva,
opportunamente occultata per anni da Klugman, il leader partigiano
comunista offriva ai nazisti un patto di alleanza per combattere insieme
il suo nemico personale, cioè Draza Mihailovich, “elemento monarchico legato strettamente agli anglo-americani”.
Oltre a ciò, Tito promise ai tedeschi di fornire il suo appoggio per
respingere qualsiasi eventuale tentativo di sbarco alleato lungo il
litorale croato o dalmata, in cambio dell’ottenimento della sua
giurisdizione sulla Bosnia Erzegovina Richieste, queste, che il Comando
di Sarajevo, istruito dal ministro degli Esteri Joachim von Ribbentrop,
respinse. Copia di tale “esplosivo” documento venne rintracciata dai
Servizi inglesi nel 1945, negli archivi di Berlino, e successivamente
trasferita in quelli del SIS britannico.
Ma torniamo all’avventura e alle memorie di Felman, alle 05:13, il B-24 Liberator di
Felman decollò dalla base statunitense di Foggia per la sua missione
sui campi petroliferi romeni di Ploesti. L’aereo faceva parte di una
formazione composta da circa 250 bombardieri B-24 e Boeing B-17. Gli aerei alleati, scortati da caccia Mustang P-51,
attraversarono il Mar Adriatico fino in Jugoslavia dove cambiarono
rotta per evitare la contraerea tedesca. Giunta sulla direttrice di
Ploesti, la formazione venne accolta dal tiro rabbioso dei 325 pezzi da
88 e da 105 mm. della FLAK posti a difesa dell’obiettivo. Oltre a ciò,
uno stormo di caccia Messerschmitt ME-109 G tedeschi attaccò
dall’alto la formazione americana. L’aereo di Felman sganciò le sue
bombe sui pozzi petroliferi e quindi lasciò immediatamente l’area,
dirigendosi verso sud ovest. Giunto sui cieli della Serbia,
l’apparecchio venne però intercettato da alcuni ME-109 G che lo
danneggiarono gravemente. Il bombardiere venne colpito ai serbatoi, ad
un alettone e al timone. Felman e l’equipaggio furono quindi costretti
ad abbandonare l’apparecchio, saltando a un’altitudine di 18.000 piedi
ed atterrando in un vasto campo coltivato. Felman, che era stato ferito
alla gamba sinistra, venne soccorso da un gruppo di “uomini barbuti e
cordiali che poi seppi essere partigiani cetnici”. Il sottotenente fu
poi condotto in una casupola dove gli vennero offerti frutta, fiori e
“slivovitz”. Gli procurarono anche una stampella, dopodiché lo
accompagnarono in una chiesa ortodossa dove venne accolto da un anziano
prelato. “Ci inginocchiamo tutti in preghiera e ringraziammo Dio per il
pericolo scampato”. Poi Felman venne portato dal colonnello Dragisha
Vasich, comandante della regione di Pranzane. Vasich gli riferì che i
cetnici continuavano, nonostante il loro abbandono da parte degli
Alleati, a considerarsi amici degli americani.. Vasich spiegò a Felman
che Mihailovich non aveva mai smesso di aiutare i piloti statunitensi e
inglesi abbattuti sul territorio iugoslavo e ad occuparsi personalmente
dei cosiddetti Missing In Action (MIA), cercando di riferire via radio
al Comando del Cairo la loro sorte. Nel frattempo anche gli altri 10
superstiti del B24 di Felman erano stati soccorsi dai cetnici e
sistemati in abitazioni messe a disposizione dai civili serbi che per
questo rischiavano di essere fucilati dai tedeschi. Felman descrisse il
suo rapporto con questa gente di fede monarchica. “Parlavano del nostro
paese con profondo rispetto. Un misto di soggezione e ammirazione…Dopo
tre giorni, il comandante tedesco della zona emise un proclama
indirizzato alla popolazione affinché consegnasse i piloti americani. In
caso contrario i nazisti minacciavano di bruciare un intero villaggio
serbo, fucilando tutti gli abitanti” Felman voleva arrendersi per
evitare ai serbi tale rappresaglia, ma Mihailovich e Vasich, tuttavia,
decisero di non accettare il ricatto. Pochi giorni più tardi, i nazisti
incendiarono un vicino paese, massacrando duecento civili. Nel suo
libro, Felman spiegò poi perché le forze di Mihailovich avevano sempre
cercato di evitare attacchi diretti contro i soldati tedeschi.
All’inizio del conflitto, la guerriglia serba aveva impegnato le forze
tedesche direttamente ed aveva inflitto ad esse gravi perdite. Ma i
nazisti avevano risposto con feroci rappresaglie contro la popolazione
civile. Per ogni soldato tedesco ucciso in combattimento, i tedeschi
erano soliti eliminare 100 serbi. Nell’ottobre 1941, circa 8.000 civili,
tra cui molti bambini della città di Kragujevac, vennero fucilati per
rappresaglia per l’uccisione di alcune centinaia di soldati tedeschi.
Questa strage indusse Mihailovich ad ordinare ai suoi reparti di ridurre
l’attività bellica contro il nemico, ripiegando su atti di sabotaggio a
linee ferroviarie, strade e ponti.
Una volta guariti, Felman ed altri
membri dell’equipaggio iniziarono a programmare la loro evacuazione dal
campo base di Pranjane che si era nel frattempo trasformato in un
centro di raccolta anche per aviatori francesi, inglesi, canadesi,
italiani, e russi fuggiti da campi di prigionia tedeschi. La difficoltà
stava nello stabilire un contatto con la base statunitense di Bari,
quartiere generale del comando del 15° US Air Force. Mihailovich era
infatti considerato un reietto. Dopo averlo abbandonato, gli
anglo-americani avevano provveduto a cambiare la frequenza e i codici
di trasmissione radio, impedendo di fatto ai cetnici qualsiasi
collegamento con l’Occidente. I marconisti di Mihailovich cercarono
allora di contattare Bari attraverso l’invio alla cieca di messaggi. Ma
per diversi giorni questo espediente non diede alcun risultato pratico.
Infatti dagli americani non giunse alcuna conferma di ricezione o
risposta. A quel punto, venne deciso di utilizzare uno speciale codice
che utilizzava frasi convenzionali utilizzate in passato. “Mihailovich fece di tutto per salvarci dai tedeschi. Era un grande uomo, anche se semplice e timido… Fu il più grande capo”.
Finalmente, da Bari giunse una risposta. Una volta al corrente della
situazione, gli anglo-americani accettarono di inviare con un aereo in
avanscoperta un gruppo di ufficiali per scoprire se Mihailovich aveva
detto il vero circa il fatto che a Pranjane – in procinto di essere
accerchiata da forze tedesche – si trovavano 513 tra aviatori e soldati
alleati. I cetnici allestirono in pochi giorni una pista di fortuna
lunga 1.900 piedi e larga 100 piedi. E il 2 agosto, un apparecchio
britannico da trasporto atterrò. Dall’aereo scesero tre ufficiali
dell’Intelligence statunitense: il tenente Gorge Musulin,
dell’Organizzazione dei Servizi Strategici (OSS), guidato da Bill
Donovan, sergente capo Michael Rajacich, uno specialista di
intelligence, ed Arthur Jibilian, uno specialista radio della US Navy.
Tra il 1941 e il 1942, Musulin aveva ricoperto l’incarico di ufficiale
di collegamento statunitense presso il Comando di Mihailovich. Venne
stabilito di comune accordo che tutti i piloti e i soldati alleati
salvati dai cetnici sarebbero stati evacuati da aerei da trasporto
statunitensi Douglas C-47, per i quali tuttavia occorreva una
pista più lunga di circa 300 piedi. Degli 8.000 soldati cetnici che
presidiavano la zona, centinaia vennero precettati per questo lavoro che
venne portato a compimento a tempo di record: appena cinque giorni.
Venne inoltre stabilito che ogni aereo avrebbe preso a bordo 12 uomini,
rispettando la priorità per feriti e malati.
L’8 agosto, tre bombardieri in picchiata tedeschi Ju 87D Stukas
sorvolarono da quota abbastanza elevata la rudimentale pista, ma non si
accorsero di nulla, rientrando poi alla loro base. Finalmente, il 9
agosto, una squadriglia di C-47, scortata da un centinaio di caccia P-51 Mustang e P-38 Lightning,
giunse a Pranjane, evacuando e trasferendo a Bari 243 aviatori
statunitensi e 20 tra russi, francesi, canadesi, italiani, inglesi e
serbi. Felman annotò che prima di caricare gli uomini, gli aerei
statunitensi avevano sganciato armi alle forze partigiane di Tito, che
le avrebbero usate contro i loro soccorritori, cioè le forze cetniche Al
loro arrivo nelle Puglie, il maggiore generale Nathan Twining,
comandante del 15° US Air Force, accolse gli uomini In tutto, 513
aviatori americani furono soccorsi insieme ad altri 83 soldati alleati.
La Halyard Mission fu una delle più riuscite operazioni di soccorso
della storia dell’aeronautica statunitense. Ma rimase censurata e tenuta
segreta per evitare che l’opinione pubblica venisse a sapere della
perdurante fedeltà del leader Mihailovich alla causa alleata. Anche se
non tutti i militari statunitensi vollero voltare le spalle al capo dei
cetnici. Tra questi, il colonnello dell’esercito statunitense Robert H.
McDowell (già docente di Storia Moderna dei Balcani presso la University
of Michigan), che nel 1942 e 1943 aveva soggiornato in qualità di
ufficiale di collegamento presso il comando di Draza Mihailovich. Nel
dopo guerra, McDowell prese coraggiosamente le difese del leader
cetnico, sottolineando il grande sforzo compiuto dai cetnici per il
trionfo della causa alleata e soprattutto dichiarando nel corso di
alcune interviste “di non essere è mai venuto a conoscenza di notizie o
semplici indizi che inducano a supporre che il generale Mihailovich
abbia collaborato con le forze tedesche”. D’altra parte, il 29 marzo
1948, dietro pressioni del generale Dwight D. Eisenhower, il presidente
Harry Truman, nel corso di una cerimonia segreta, concesse alla memoria
di Draza Mihailovich la più alta decorazione dell’Esercito statunitense,
riconoscendo il contributo fornito dal leader cetnico alla vittoria sui
nazisti. La curiosa prassi di conferimento dell’onorificenza venne
imposta dal potente Dipartimento di Stato statunitense che dai servizi
segreti americani che a quel tempo erano impegnati nel tentativo di
sfruttare il clamoroso distacco di Tito da Mosca, trasformando la
Iugoslavia in una specie di frangiflutti anti sovietico.
BIBLIOGRAFIA:
Churchill’s Yugoslav Blunder by David Martin. San Diego and New York: Harcourt, Brace, Jovanovich, 1990.
Tito, Mihailovic and the Allies, 1941-1945, by Walter R. Roberts
Published in Paperback by Duke Univ Pr (Txt) (June, 1987)
Britain, Mihailovic and the Chetniks, 1941-42 by Simon C. Trew, Edition Hardcover
Axis Forces in Yugoslavia 1941-5 (Men-At-Arms, No 282) by N. Thomas , K. Mikulan , D. Pavelic, 1995 Paperback
The Living Spirit of Ravna Gora. General Draza Mihailovich, by Aleksandra Rebic
NOTE:
(1) Draza Mihailovich
nacque nel 1893, nella cittadina di Ivanitza vicino a Chachak, dove suo
padre era insegnante. Nel 1910, il giovane Draza entrò all’Accademia
Militare, ma nel 1912 i suoi studi furono interrotti dallo scoppio della
Prima Guerra Balcanica alla quale prese parte con il grado di allievo
caporale. Decorato due volte per atti di coraggio, fu promosso allievo
sergente e nel 1913, durante la breve Guerra Serbo-Bulgara,
sottotenente. Quando nel 1914 scoppiò la prima guerra mondiale, Draza
Mihailovich ebbe modo di fare valere nuovamente il suo valore, venendo
decorato diverse volte. Nel settembre 1918, egli si distinse
particolarmente in un’azione di guerra nei pressi di Shtip che gli
fruttò il grado di tenente e la decorazione dell’Aquila Bianca. Dopo
l’armistizio, Mihailovich riprese i suoi studi militari e nel 1929 venne
inviato in Francia dove frequentò un corso di specializzazione di sei
mesi presso un reparto dell’esercito transalpino. Promosso ufficiale di
Stato Maggiore e successivamente docente di Tattica presso l’Accademia
Militare, egli svolse il compito di addetto militare prima a Sofia e poi
a Praga. Alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, Mihailovich
presentò allo Stato Maggiore jugoslavo un suo dettagliato rapporto nel
quale egli prevedeva un’invasione da parte delle forze tedesche,
italiane e ungheresi (esattamente ciò che accadde nell’aprile 1941).
Egli era dell’opinione che una difesa delle frontiere settentrionali da
un attacco tedesco era praticamente impossibile e che quindi sarebbe
stato necessario concentrare tutte le forze nelle regioni montagnose
centrali del paese. In quel periodo pubblicò anche un importante testo
sulla guerriglia. Il giorno dell’invasione tedesca, il colonnello
Mihailovich si trovava in Bosnia, a Doboy, presso lo Stato Maggiore di
una divisione motorizzata. E quando il suo superiore generale Simovich
ordinò la capitolazione dal senza l’approvazione del governo jugoslavo,
egli si rifiutò di ubbidire, tentando con i suoi reparti di aprirsi un
varco in direzione della Bosnia orientale e della Serbia, dove sperava
di ricongiungersi con ciò che rimaneva dell’esercito. La marcia fu
contrassegnata da duri scontri con unità blindate germaniche e
Mihailovich fu alla fine costretto a ritirarsi sulle colline. All’inizio
di maggio, raggiunto dall’ultimatum tedesco che imponeva la resa a
tutti i reparti iugoslavi ancora in armi, Mihailovich rispose:
“Capitolazione? Non so di che cosa si tratti. Ho servito nell’esercito
per molti anni, ma non ho mai udito questa parola.”
La prima preoccupazione di Mihailovich
fu quella di resistere agli invasori e nel contempo proteggere la
popolazione serba dagli ustascia croati di Ante Pavelic decisi a
massacrarli. Esperto di guerriglia, Mihailovich fece di questa forma di
guerra un’arte, organizzando nel contempo azioni militari di vasto
respiro ideate per appoggiare lo sforzo bellico degli Alleati. Nella
prima metà del 1941, l’armata cetnica fu l’unica a scendere in campo
contro i tedeschi e i loro alleati, sia in Serbia che in Bosnia e
Montenegro. Quando tra l’agosto e il dicembre del 1942, i britannici
vennero duramente impegnati in Africa Settentrionale dalle forze
italo-tedesche, Mihailovich scatenò una serie di riusciti attacchi
contro la strategica linea ferroviaria Belgrado-Salonicco, causando alle
armate tedesche nei Balcani notevoli danni, come del resto ebbe a
sottolineare Antony Eden e molti alti gradi dell’Esercito
anglo-americano. Dopo il crollo dell’Italia, nel settembre 1943,
Mihailovich mise sotto controllo una vasta area del Montenegro. E fino
alla fine del 1944, le sue forze continuarono ad effettuare attività di
sabotaggio, distruzione di treni nemici e attacchi ad importanti centri
tenuti dai tedeschi, contribuendo in maniera determinante alla tenuta
dell’esercito comunista titino. Ai primi di maggio del 1945, il generale
Mihailovich, assieme ad alcune centinaia di fedeli, si rifugiò nelle
montagne della Bosnia, resistendo per quasi un anno alla caccia spietata
delle forze speciali titine. Circondato, venne catturato il 13 marzo
1946 e condotto in carcere. Il suo processo davanti ad una corte
militare comunista iniziò il 10 giugno 1946 e si concluse il successivo
15 luglio. Durante il dibattimento, Mihailovich – che ben sapeva quale
sorte lo attendeva – tenne un atteggiamento estremamente calmo e
dignitoso, pronunciando infine un lungo e dettagliato rapporto sulla sua
attività di patriota. La registrazione del testo di questo intervento,
denso di imbarazzanti accuse al leader Tito, venne fatto sparire dalla
magistratura comunista. E la Tipografia di Stato a Belgrado, che l’anno
seguente pubblicò un libro di 556 pagine sul processo a Mihailovich, si
limitò a riassumerlo, distorcendone il significato, in poche righe. Il
17 luglio 1946, il leader cetnico, vestito con una logora divisa da
soldato semplice priva di alcuna decorazione, venne impiccato e il suo
corpo fatto sparire. Va ricordato che, prima dell’inizio del processo,
il 3 giugno 1946, il Times di Londra pubblicò a tutta pagina un appello
firmato da molte personalità, tra cui il cardinale Griffin George
Cicestr, e il Maresciallo dell’Aria John McKenzie. Senza dimenticare
che, il 19 maggio 1946, forse in preda al rimorso, Winston Churchill
dichiarò pubblicamente di non nutrire “alcuna simpatia nei confronti
del nuovo regime comunista titino deciso a negare al Generale
Mihailovich un equo processo. Mihailovich fu colui il quale nel 1941
condusse per primo la rivolta anti-nazista, ritardando in questo modo
l’attacco tedesco alla Russia e rendendo così un grande servigio agli
Alleati”.
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