Racconti semiseri
L‘ornitologo poeta
di Alberto Rosselli
Essendo stato
incaricato dal mio giornale di indagare su un’imminente invasione della nostra
città da parte di un grosso stormo di pappagalli, decisi per prima cosa di
documentarmi sulle caratteristiche e sulle abitudini di questi noti pennuti.
Varcai la soglia
dell’Istituto di Ornitologia dell’Università in un gelido pomeriggio d’inverno.
Fu quindi con grande piacere che mi inoltrai in quei corridoi che odoravano di
cacciagione e di formaldeide, arredati da lunghe disposizioni di vetrine
contenenti uova e uccelli imbalsamati. Le sale adiacenti erano quasi tutte
vuote e solo in fondo al corridoio principale vidi una luce filtrare da una
porta socchiusa. Era la biblioteca.
Entrai. La grande
sala era quasi vuota e solo un paio di giovani studenti occupavano con libri e
cappotti i banchi centrali. Alzarono entrambi la testa e mi guardarono: erano
ventenni o poco più, ma sembravano già vecchi. Uno dei due aveva una folta
barba nera, l’altro, portava i capelli lunghi sulle spalle. Il suo volto era
cosparso di brufoli, molti dei quali trafitti da radi peli. Tutti e due
indossavano anonime giacche di lana e camicie dai colori tenui, senza cravatta,
abbottonate fino al gozzo come i carcerati.
Mi diressi verso
lo stanzino del bibliotecario, un buco dal quale proveniva un forte odore di
muffa e di detersivo per pavimenti. Un piccolo uomo di mezza età, in divisa
grigia, mi bloccò sull’uscio.
“Desidera?”
“Vorrei
consultare un testo sui pappagalli” dissi.
“Ce ne sono
almeno trenta. Quali razze deve esaminare?”
“Mah! Non
saprei... Mi serve un buon libro sui pappagalli in generale” risposi un po’
troppo vagamente.
“Lei non è uno
studente, vero?” mi interrogò con aria sospetta il piccolo bibliotecario.
“No. Vorrei solo
saperne qualcosa di più sui pappagalli”.
“Beh, un buon
testo è quello del Tesei. Mi segua. Compili una di quelle schede che sono sulla
cattedra. Io intanto le cerco il libro”.
Riempii un modulo
e mi sedetti ad un banco. I due studenti avevano il capo sui loro appunti. Uno,
quello con i capelli lunghi, si stava nettando una narice con una matita,
mentre l’altro sottolineava con un righello delle fotocopie.
“Ecco a lei il
testo del Tesei.” rimò il bibliotecario nel porgermi un poderoso volume.
“Grazie”.
“Guardi che
chiudiamo fra un’ora, alle diciassette”, mi comunicò allontanandosi.
Aprendo quel
grosso testo, piuttosto vecchio e, a giudicare dalle pagine, non molto
consultato, non potevo ancora immaginare quale sorprendente scoperta ero
destinato a compiere quel giorno.
Essendo a quel
tempo ancora giovane, privo di fede, e quindi animato ancora dalla puerile
ambizione di voler tutto spiegare a me stesso, amavo dibattermi per risolvere
con la ragione svariati enigmi, compresi quelli di natura
geografico-ambientale.
“Perché - mi
domandavo - non è possibile per l’uomo godere simultaneamente delle bellezze
naturali che il buon Dio ha creato? Perché ad un individuo è preclusa
l’opportunità di piantare nel proprio giardino un bambù a fianco di un ginepro,
o di allevare una foca ed un cammello nel medesimo habitat, cioè in un ambiente
favorevole per entrambe queste creature che, come si sa, abbisognano di climi
tanto differenti?
Pur rendendomi
perfettamente conto della apparente insensatezza, la lettura del testo del
Tesei mi diede però la conferma che, talvolta, anche la più strampalata intuizione
mentale talvolta porta con sé il germe della verità.
Si trattava
infatti di uno scritto a dire poco illuminante, nel quale potei individuare
l’elaborazione esatta e completa d’una mia modesta intuizione. Dimostrazione
lampante di quanto la scienza, se giustamente indirizzata, possa tramutarsi non
solo in conoscenza ma in sommo inno alla libertà dell’uomo.
“Ho sempre
creduto nell’esistenza di una terra situata a mezza strada tra le giungle
equatoriali e le conifere scandinave. Ho sempre creduto all’esistenza di una
regione in cui potessero convivere ed intrecciarsi armoniosamente le
peculiarità morfologiche, vegetali ed animali di aree tanto distanti fra loro.
Ho sempre immaginato un posto sovrastato da un cielo e da un’atmosfera tanto
giusta e perfetta da soddisfare le esigenze di ecosistemi dissimili: il punto
geografico e geo cosmico ideale alla crescita e sviluppo di un uomo nuovo,
universale, capace di convivere simultaneamente con gli estremi della natura e
in totale armonia con essi.
Fino dalla più
tenera età, ho progettato villaggi, elaborato leggi e ipotizzato sistemi
socioeconomici adatti alla creazione di un insediamento umano ideale ubicato a
mezza via tra l’Ovest e l’Est, il Nord e il Sud, l’orizzontale e il verticale:
un insediamento che potesse poggiare le sue fondamenta sul punto d’origine di
un sistema di assi cartesiane, atto a rappresentare graficamente una funzione a
molteplici variabili indipendenti, operazione per la quale, come è noto,
occorre uno spazio a più dimensioni.
Affannose e
sterili sono risultate le consultazioni degli antichi testi. Puerile è stata la
mia insistenza, giacché da Erodoto in poi, il geografo, il cartografo e
l’astronomo si sono sempre impegnati nel conferire latitudine, longitudine e
punti di riferimento stellari a ciò che è noto, tralasciando invece ciò che è
ignoto.
Sull’ipotesi di
dare forma ad un progetto di cooperazione scientifica internazionale per la
messa a punto di un nuovo e completo atlante dell’ignoto mi sono
sufficientemente dilungato nel corso della mia ultima conferenza di Lucerna sul
tema: “Topografia aerea e Cosmologia dell’Immaginazione”.
Quel che invece
mi preme affermare in questa sede, considerazioni accademiche a parte, è
l’urgenza di un titanico e coordinato sforzo collettivo per individuare, nel
più breve tempo possibile, oltre la linea dei comuni orizzonti ormai noti, una
teoria non necessariamente uguale, ma almeno simile a quella che da diversi
anni tormenta e galvanizza la mia mente.
Chiedo, quindi, a
scienziati e poeti di seguirmi in quella che i posteri potranno ricordare con
orgoglio come una delle più significative conquiste del genere umano.
Non avevo che
sette anni quando, sfruttando l’esperienza di una gita familiare sul Monte
Bignone (modesta ma interessante cima delle Alpi Marittime), guardando il
profilo seghettato di un’alta catena, mi accorsi dell’incompletezza e della
sostanziale banalità di un siffatto panorama.
Oddio, rimasi ben
impressionato dalla disposizione esteticamente gradevole di alcuni contrafforti
e dall’imponenza di quelle lontane vette, ma non potei fare a meno di
constatare l’estrema ripetitività di taluni elementi appartenenti alla fauna,
alla flora e al mondo minerale.
Soggetti alla
ferrea legge della latitudine e quindi del clima, i fiori, le piante e gli animali
(compresi gli uccelli, tengo a precisare, in quanto oggetto di miei specifici
studi) non possono incrociare le proprie virtù, se non in un certo habitat.
Fino ad oggi, infatti, l’incompatibilità di climi e latitudini ha impedito
all’uomo e a tutti gli altri esseri di godere simultaneamente delle svariate
opportunità che il Creato ci offre. Quale terribile punizione Dio inflisse a
Adamo ed Eva cacciandoli dal Paradiso Terrestre, dall’unico luogo nel quale
l’essere umano poté gioire liberamente alla vista di una sensuale mangrovia
senegalese intenta a cingere con i suoi sinuosi e umidi rami il manto profumato
e liscio di un serio abete valdostano.
Sulla scorta di
quella mia prima esperienza, la mia attenzione, non disgiunta da un certo
rigore morale, mi spinse nell’unica direzione percorribile. Non potendo
rimanere indifferente al cospetto delle gravi sofferenze e menomazioni inflitte
al genere umano e alle specie animali e vegetali dalla differenziazione
latitudinale, lanciai dunque la mia sfida.
Dopo essermi
dimesso dall’Università, decisi di intraprendere la rotta dell’ignoto, buttando
a mare le comode ma ingombranti zavorre dei pregiudizi.
A che serve
soffermarsi su ciò che già sappiamo e farcene un vanto quando l’Oceano
misterioso ed increspato dagli innumerevoli prodigi che vi si celano sotto si
spalanca davanti allo sguardo innocente, ma acuto di un giovane studioso alla
ricerca della Verità? A che serve industriarsi nella progettazione e nella
confezione di perfezionati impianti di riscaldamento e refrigerazione atti ad
abbattere le diseguaglianze climatiche, quando il sole e la luna continuano da
millenni a svolgere le loro immutabili mansioni sia sulla perpendicolare di
Oslo che su quella di Orano?
Oltre le lontane
vette scrutate da un bimbo ancora incontaminato da un sapere ben lungi
dall’essere esatto, mi domando e vi chiedo: è possibile l’esistenza di un luogo
di rinnovata speranza? E ancora. Sufficientemente forte e preparato si
dimostrerebbe il nuovo
Ulisse alla vista di una nuova
realtà fatta di palmizi innevati, leoni bianchi, orsi sahariani, scimmie
bavaresi, mucche polari ed altre magnifiche stranezze?
Odo il
microscopico tarlo del dubbio rodere le vostre menti. Sento vacillare in voi ogni
volontà immortale, miei cari colleghi. Temete di dover affrontare la realtà
rappresentata da ciò che in un tempo biblico fu e che potrebbe all’improvviso di nuovo rivelarsi in qualche
quadrante perduto, poiché volutamente dimenticato da una fragile memoria
collettiva dilaniata dai sensi di colpa?
Vi difendete
forse giudicando pindariche e addirittura malsane le mie ipotesi e gli
interrogativi che sono solito pormi dall’alto del mio osservatorio?
Seduto come sono
su questo remoto sperone di roccia dominante dirupi coraggiosi, vallate
erotiche, sedentarie colline e dormienti pianure, punto il mio sguardo a
trecentosessanta gradi per ritrovare un qualcosa da noi tutti smarrito.
Dall’alto di questa fredda e ventilata postazione, comprendo ora l’esatto
significato della missione di Pitea, il greco di Marsiglia, alla ricerca
dell’ultima Thule.
Solo, circondato
da spazi azzurri, sordo al richiamo del senso comune, vivo l’estrema mia ultima
ricerca. E scrutando l’infinità del nulla talvolta mi pare davvero di
intravedere il profilo d’una terra senza tempo e gradi”.
Provai un tuffo
al cuore, chiusi il libro, andai alla finestra e mi misi a guardare il cielo.
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