Guerriero basmaco (anni Venti).
La resistenza dei 'basmachi islamici' al potere comunista sovietico.
di Alberto Rosselli
Contrariamente a
quanto sostenuto dalla pubblicistica marxista, i moti rivoluzionari bolscevichi
del 1917 non suscitarono mai un completo fascino sui popoli mussulmani dell’Asia centrale facenti parte del
vecchio impero zarista. D’altra parte, già molti anni prima dello scoppio della
Rivoluzione d’Ottobre, i rapporti tra le varie etnie asiatico-mussulmane e il
governo di San Pietroburgo si erano contraddistinti per un’accesa
conflittualità riconducibile in buona misura alla non accettazione da parte di
queste molteplici ‘minoranze’ del dominio politico-culturale slavo. Per essere
più chiari, turkmeni, kazaki, uzbeki, kirghisi e tagiki consideravano i russi -
che verso la metà del XIX secolo, dopo lunghe campagne, erano riusciti ad
occupare e colonizzare queste vaste regioni - alla stregua di veri e propri
invasori, apportatori, tra l’altro, di costumi e di metodi di governo lontani
anni luce dalla realtà di gran parte delle comunità centroasiatiche.
Dopo
la caduta dello zar Nicola II ed in seguito ai moti rivoluzionari bolscevichi,
Lenin si affrettò a dichiarare che il nuovo regime marxista si sarebbe fatto
garante della “libertà ed autonomia” dei popoli mussulmani facenti parte della
nuova variegata entità politica, rinunciando a qualsiasi pretesa egemonica.
Promessa che spinse, almeno in un primo momento, i mullah e gran parte della
popolazione a schierarsi a fianco delle forze ‘rosse’ a quel tempo in lotta
contro gli eserciti controrivoluzionari ‘bianchi’. Pur prendendo per buona la
parola di Lenin, nel 1917 i rappresentanti kazaki insistettero, però, per un’immediata proclamazione della
Repubblica Autonoma Kazaka, destando le
preoccupazioni del leader bolscevico in realtà per nulla intenzionato a
concedere la completa libertà ai popoli asiatici. Ciononostante, dalla fine del
1918 a quasi tutto il 1919, le promesse di Lenin favorirono in Asia Centrale la
nascita di alcune istituzioni governative mussulmane sostanzialmente
filobolsceviche, come ad esempio il Comitato del Governo Provvisorio e il
Soviet dei Deputati dei Lavoratori e Contadini di Taskent (Uzbekistan). Quando,
però, il 22 dicembre, a Kokand - i leader locali si apprestarono a fondare un primo
Governo Provvisorio Musulmano del Turkestan Autonomo conforme alla legge
islamica, auspicando nel contempo la reintroduzione del libero commercio e del
diritto a possedere appezzamenti terrieri, pascoli e armenti, Lenin impose a
tutte le neonate autorità locali kazake, uzbeke, turkmene e tagike di attenersi
alle disposizioni rivoluzionarie in materia sociale ed economica e di accettare
di esercitare il potere in seno ad esecutivi (soviet) misti russo-asiatici, ma
di fatto controllati da Mosca. Proposta, questa, che venne respinta da molti
mullah decisi a proseguire nella costituzione di stati islamici federati ma
sostanzialmente indipendenti. Obiettivo che essi avrebbero conseguito con tutti
i mezzi: proclamando, se necessario, la guerra santa contro i bolscevichi e
chiedendo aiuto alle armate ‘bianche’ e alla Gran Bretagna, i cui agenti, nel
frattempo, erano giunti dalla Persia per fiancheggiare le forze
controrivoluzionarie. Temendo il peggio, Lenin inviò in Turkestan un forte
contingente dell’Armata Rossa agli ordini del generale Mikhail Frunze che,
approfittando della sostanziale disorganizzazione delle bande armate
mussulmane, conquistò rapidamente la grande oasi di Khiva e molti altri centri,
eliminando centinaia di capi islamici e ripristinando il potere bolscevico
attraverso i soviet. Dopodiché le autorità comuniste avviarono la
collettivizzazione di tutte le proprietà, costringendo circa 900.000 tra
agricoltori e pastori ad abbandonare le loro tradizionali attività. Fino a
quando, nell’aprile del 1919, uno dei leader della milizia mussulmana di
Kokand, tale Irgash, organizzò segretamente un grande piano di rivolta.
Nonostante le antiche rivalità che dividevano le tribù mussulmane asiatiche,
Irgash riuscì a trovare un’intesa di massima con buona parte dei mullah, dando
vita al cosiddetto Movimento Indipendentista Basmaco che, verso la fine del
’19, scatenò un’insurrezione armata destinata a durare quasi 15 anni.
Per
parare il colpo, Lenin diede disposizioni affinché l’apparato propagandistico
bolscevico si mettesse in moto ancor prima dell’Armata Rossa, attraverso una
massiccia campagna tesa a discreditare e di minimizzare la portata della
Rivolta Basmaca. Il Movimento dei Basmachi – nel quale, nel frattempo, erano
confluiti molti volontari islamici provenienti dalla Persia, dall’Afghanistan e
dalla Turchia e perfino elementi delle locali comunità russe
cristiano-ortodosse, menscevichi, monarchici, socialisti e anarchici
perseguitati dai ‘rossi’ - venne dipinto alla stregua di un esercito di
malfattori sanguinari e reazionari (basmaco,
o bäsmä´chē, significa in lingua uzbeka più
o meno brigante) dediti a rapinare i pacifici dehkan (contadini) filo-comunisti delle repubbliche asiatiche.
Ciononostante, agli inizi del 1920, il Movimento prese ad ingrossare le sue
file, accogliendo anche ex-prigionieri cechi, ungheresi e polacchi fuggiti - in
seguito al crollo zarista - dai campi di concentramento russi e, addirittura,
alcune centinaia di volontari cinesi mussulmani del Sinkiang. Il Movimento
Basmaco si rivelò, quindi, un fenomeno per nulla monocorde, ma al contrario politicamente
trasversale, multilingue, multietnico e multireligioso.
Nonostante
il pesante intervento da parte dell’Armata Rossa del generale Frunze, il
mobile, anche se indisciplinato, esercito basmaco, composto da circa 30.000 guerriglieri
a cavallo, riuscì a controbattere con successo le prime offensive bolsceviche, mantenendo
il controllo della regione del Fergana occidentale e del Bukhara Orientale:
area corrispondente grosso modo all’odierno Tagikistan. Ma nell’autunno del 1920,
eliminate in Crimea le ultime sacche di resistenza ‘bianca’ del generale Pyotr Nikolayevich Wrangel, Mosca poté
stornare in Asia Centrale un quantitativo di truppe ancora maggiore,
costringendo le formazioni ribelli ad abbandonare i centri abitati e le pianure
e a rifugiarsi nelle zone montagnose del Tagikistan. Nelle regioni
riconquistate, le autorità del Cremlino concessero alle popolazioni locali –
almeno fino a tutto il 1920 - una moderata autonomia, assicurando un minimo afflusso
di coloni slavi: promesse che, tuttavia, sul finire del 1920, Lenin si rimangiò.
Tale
era la situazione in Asia Centrale quando apparve sulla scena Enver Pascià (1881 -1922), un
uomo proveniente da lontano che, per qualche tempo, sarebbe stato capace di
ridare speranza alle popolazioni mussulmane. Ex-leader del Partito dei Giovani
Turchi, nel novembre del 1918,
dopo la resa dell’Impero Ottomano, Enver era stato costretto a fuggire a
Berlino per scampare alla condanna a morte inflittagli da una corte di
Costantinopoli quale corresponsabile della disastrosa guerra combattuta a
fianco degli Imperi Centrali. Alla fine del 1919, Enver preferì tuttavia
trasferirsi a Mosca, dietro invito di Lenin, che gli promise di aiutarlo a tornare
in patria e a riprendere il potere a condizione che si impegnasse ad appoggiarlo nella difficile opera di
“pacificazione” delle regioni centro-asiatiche. Pur detestando sia il
bolscevismo ateo sia la Russia, tradizionale avversario della Turchia, Enver
fece finta di accettare di buon grado la proposta. E nel 1921, Lenin lo inviò
in Uzbekistan, a Bukhara, per cercare di trovare un primo accordo con i locali
mullah. Ma fu proprio qui che Enver riuscì a contattare segretamente alcuni
esponenti del Movimento Basmaco ai quali offrì un’intesa del tutto diversa,
cioè la creazione di una federazione autonoma di stati mussulmani facenti
riferimento ad un governo centrale turkmeno a forte componente etnica turca.
Enver voleva infatti rilanciare l’idea di un movimento ‘panturanista’ che,
utilizzando il collante islamico, avrebbe consentito la creazione di un vasto
stato comprendente non soltanto le regioni cento-asiatiche, ma anche quelle
caucasiche e la penisola anatolica. Non senza difficoltà, egli riuscì nel suo
intento, grazie soprattutto al suo forte carisma e alla sua eloquenza, ma poco
tempo dopo la polizia bolscevica
scoprì le sue manovre sotterranee, costringendolo a fuggire. Raggiunte
le regioni orientali uzbeke, Enver prese in breve tempo le redini della rivolta
basmaca, ottenendo dai mullah la nomina di “rappresentante in terra del profeta Maometto” e comandante in campo
delle forze basmache facenti riferimento all’ideale panturanico.
Il
14 febbraio 1922, Enver, alla testa di poche centinaia di cavalleggeri si
lanciò alla conquista della città di Dushanbe (l’attuale capitale del
Tagikistan), riuscendo ad occuparla e inducendo in tal modo i mullah a
proclamare la ‘guerra santa’ contro i bolscevichi. Tra il febbraio e il maggio
del ‘22, il condottiero ‘panturanista’ riuscì ad ingrossare le file della sua
armata che arrivò a contare circa 50.000 uomini e con tale forza, nella tarda
primavera del ’22, pose sotto il suo controllo la maggior parte della regione
di Bukhara. Preoccupati per un possibile dilagare della rivolta ad altre
regioni, i generali bolscevichi offrirono ad Enver una tregua che questi
rigettò. Lenin ordinò allora l’invio in Asia Centrale di un imponente corpo di
spedizione, agli ordini del generale Nikolai Kakurin: armata rinforzata da
reparti di artiglieria e aviazione dotati di micidiali proiettili e ordigni all’iprite
e al fosgene. Nel giugno 1922, Enver subì una pesante sconfitta che indusse
poche settimane più tardi molti capi mussulmani ad abbandonare il loro capo che,
nel frattempo, assieme a poche centinaia di fedeli, era stato costretto a
passare nel Tagikistan orientale e a dirigersi verso l’Afghanistan. La speranza
di Enver era quella di trovare ospitalità in questo paese sul quale regnava il
sovrano Amanullah che, in precedenza, aveva fornito ai basmachi armi e
volontari. Ma Amanullah, che non voleva inimicarsi troppo Mosca, respinse la
richiesta di asilo di Enver che, il 4 agosto 1922, assieme ad appena 50
fedelissimi, si era accampato tra i villaggi di Obidaryo ed Ab-i Dara, nei pressi della frontiera tagiko-afghana. Circondato
dai reparti a cavallo bolscevichi del colonnello Kulikov, Enver rifiutò di
arrendersi e in sella al suo destriero grigio Dervish si lanciò contro il nemico che lo
fulminò con una scarica di fucileria. Kulikov fece denudare il cadavere di
Enver che venne gettato in un’anonima fossa. Poi il reparto bolscevico abbandonò
la zona. Dopo alcuni giorni di ricerche, il mullah di Obidaryo riuscì però a
trovare e riesumare il cadavere del leader turco che, nel corso di una solenne
cerimonia, fu seppellito sotto un albero di noci, nei pressi dell’abitato di
Obidaryo. In seguito alla morte di Enver, Lenin si impegnò a porre fine alla
persecuzione antimussulmana in Tagikistan e nelle altre regioni limitrofe,
convincendo buona parte dei guerriglieri basmachi fuggiti in Afghanistan e nel
Sinkiang a rientrare alle loro terre. Ma la pace durò poco. Nel dicembre del
1927, Stalin riprese improvvisamente le persecuzioni contro i mussulmani delle
Repubbliche asiatiche e, tra il 1928 e il 1933, dopo avere eliminato
fisicamente 10.000 capitribù, abolì il nomadismo, costringendo decine di
migliaia di pastori ed allevatori (circa il 67% dell’intera popolazione delle
Repubbliche asiatiche) a lavorare in comuni agricole gestite da funzionari
russi. Per allontanare definitivamente il pericolo di un ritorno al nomadismo,
Stalin fece abbattere qualcosa come 350.000 cavalli e decine di migliaia di
cammelli: iniziativa che mise in ginocchio l’economia locale, spingendo molti tagiki,
kirghisi e kazaki a fuggire oltre il confine cinese, nella regione del Tarim.
Nonostante la
repressione, nella prima metà degli anni Trenta, in Uzbekistan, alcune
sopravvissute bande basmache continuarono a dare battaglia ai ‘rossi’, effettuando
ancora 160 tra attacchi ed attentati contro colonne militari e caserme russe. Durante
la Seconda
Guerra Mondiale, il Movimento Basmaco sembrò ad un tratto
risorgere dalle ceneri. Tra il 1939 e il 1944, circa 90 bande, per un totale di
2.000-2.500 combattenti, seguitarono a molestare le più isolate guarnigioni
sovietiche del Tagikistan, venendo però completamente annientate dall’Armata
Rossa tra il 1945 e il 1947.
BLIBLIOGRAFIA:
Becker, Seymour. Russia's
Protectorates in Central Asia Bukhara
and Khiva, 1865-1924. Harvard University Press , Cambridge 1968
Wheeler, Geoffrey. The Modern History of Soviet Central Asia,
Weidenfelf and Nicolson, London
1964
Brinton, William M.. An Abridged History of Central
Asia. Disponibile in Internet su: http://www.asian-history.com/the_frame.html,
1998
Jawad, Nassim and Tadjbakhsh, Shahrbanou. Tajikistan:
A Forgotten Civil War. Minority Rights Group, 1995
Khaidarov and Inomov. Tajikistan:
Tragedy and Anguish of the Nation., Tajikistan, 1993
Mustafa Chokay, The Basmachi
Movement in Turkestan, ‘The Asiatic Review’, Vol. XXIV 1928
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