'Padre Bergoglio' acclamato dai suoi sostenitori cinesi.
Occidente e Cina - Cristianesimo e marxismo
“Il dialogo tra
comunisti e cattolici è diventato possibile solo da quando i comunisti hanno
iniziato a falsificare Marx, e i cattolici Cristo”.
(Nicolás Gómez Dávila)
La difficile convivenza tra Chiesa cattolica e
regime comunista cinese, e soprattutto il tentativo (riuscito, grazie al
Vaticano) di Pechino di ‘strutturare’ la fede cristiana in modo da adattarla in
qualche modo alle esigenze ideologiche del Partito (papa Bergoglio si è dato
molto da fare, abbastanza recentemente, per
consentire allo Stato ateo cinese di ‘inglobare’ ciò che rimaneva della ‘Libera
Chiesa Cristiana) pone fine, semmai ce ne fosse stato bisogno, ad una vecchia e
falsa vulgata, quella di una possibile ‘sovrapposizione’ per (falsa) similitudine
tra la parola di Dio riportata nei Vangeli e quella di Marx ed Engels riportata
nel Manifesto del 1948: tesi ed auspicio sostenuti da alcuni focosi ma alquanto
confusi esponenti estremi della cosiddetta Chiesa della liberazione, come l’exl
presbitero genovese Andrea Gallo, fondatore e animatore della comunità di San Benedetto al Porto di
Genova.
Prima di
affrontare lo spinoso. dibattuto e sempre attuale tema riguardante i rapporti e
le suddette illusorie analogie tra cristianesimo e marxismo (ad esempio quello
cinese), appare indispensabile porre una premessa, o meglio chiarire un punto.
Occorre cioè distinguere l’essenza
della cosiddetta società civile,
quale espressione di una qualsivoglia struttura politico-organizzativa umana,
dall’essenza della Chiesa in quanto espressione del cristianesimo,
cioè di una fede religiosa. La prima entità, soggetta come è alle leggi dell’evoluzione
storica e sociale, tende giocoforza - nel divenire del tempo - a trasformarsi;
mentre la seconda, nella sua sostanza, tende invece a rimanere immutabile nello
spazio temporale in quanto lo stesso concetto di tempo non le appartiene. Essa,
infatti, non abbisogna di divenire o trasformarsi in quanto è e sussiste in
Cristo e nella sua parola. In buona sostanza, la società civile si vede costretta per forza di cose a vivere
in una dimensione prettamente terrena, contingente,
cioè nella Storia, mentre l’istituzione
ecclesiastica può, al di là delle apparenze, eludere questa costrizione
possedendo la dimensione dell’Eterno
che è Dio. Per questa ragione essa quindi avanza nei secoli vivendo
sempre una medesima, immutabile realtà. Anche a dispetto di violente crisi, la
Chiesa può fare conto su un suo secolo e su un suo tempo. Vive
cioè nel mondo, ma non si nutre
affatto del mondo.
Agli albori del
XXI secolo, allo schiudersi di questo nuovo millennio denso di incertezze
esistenziali, il Cristianesimo si trova ad affrontare un grave dilemma:
adeguarsi alla mentalità di un epoca intrisa di materialismo e mondanità,
mettendo da parte tutto ciò che caratterizza il suo credo in quanto religione
(magari per ottenere nuovi spazi, per immergersi maggiormente nel sociale e per
tentare di avvicinarsi di più alla gente risolvendone più che altro le ansie
economiche, cioè le problematiche terrene), oppure può continuare a mantenere
salda la propria, insostituibile e imprescindibile vocazione soprannaturale scontando con l’incomprensione e
perfino con la persecuzione la fedeltà ai propri eterni principi. Data la
natura e le finalità della religione
cristiana, appare subito evidente che con il perseguire di eccessivi
(seppure idealmente giusti) e arditi compromessi
terreni i generosi fautori del Cristianesimo Sociale rischiano con
la loro azione di sfigurare in realtà il vero volto della Chiesa, cioè quello di
Cristo. Il Cristianesimo è e rimane, almeno per chi crede, una fede. Quindi, o
lo si accetta in toto o lo si rifiuta
in toto. In un epoca tecnologica in
cui tutto è possibile e lecito, tutto è in sostanza diritto, mentre il dovere
viene concepito come un faticoso optional, sussistono margini di
discrezionalità o di capriccio assai ampi e impropri nell’affrontare e nel fare
propria questa delicata scelta
Da decenni, alcuni
intellettuali marxisti, post marxisti e cattolici progressisti sono
infatti soliti proporre un’ipotesi assolutamente infondata.
Se Gesù - essi sostengono - tornasse fra noi e decidesse di buttarsi in
politica, si assocerebbe al credo egualitario marxista? Non sono infatti i comunisti
una sorta di inconsapevoli cristiani in cerca a di una nuova Chiesa più “umana”
e più giusta che soddisfi appieno le loro aspirazioni di eguaglianza? E in fin
dei conti non sono sempre stati i seguaci di Marx a schierarsi in prima fila
dalla parte dei poveri e a predicare la parità
come in fondo fece Gesù? E ancora. Non è forse tempo che la Chiesa, che si è
compromessa per lungo tempo con il Potere (almeno dall’ascesa al trono dell’imperatore
Costantino), avvii un’opera di purificazione
affinché ritrovi il vero senso del
Vangelo?
Di fronte a
questi interrogativi sorge però spontanea una contro domanda. Può in realtà
sussistere la condizione di conciliazione reale tra cristianesimo e marxismo?
Da un’attenta e non polemica analisi razionale sembrerebbe proprio di no, e con
buona pace di quei cattolici “storicisti” che sono adusi ad interpretare il verbo
evangelico in chiave esclusivamente sociale
e terrena, tentando di
depurarne la reale essenza trascendentale
e metastorica.
Ma vediamo i
motivi di tale incompatibilità di fondo. Tanto per cominciare la decisa negazione
del concetto di “al di là”, caratteristica del credo marxista, annullerebbe di
fatto uno dei pilastri della fede e rischierebbe di incidere, lentamente ma
inesorabilmente, nei comportamenti intellettuali e fattuali del militante
cattolico, soprattutto quello impegnato nel sociale, allontanandolo dal
concetto di dogma e quindi di fede. Anche se, come è noto, dalla caduta del
Muro di Berlino, cioè dalla fine del sogno comunista, i neo marxisti, ormai
orfani di una chiesa materialista estinta, sono passati dal rifiuto a priori
dell’oppio della religione ad un atteggiamento di graduale assimilazione dello
stesso credo cristiano, facilitati in questa manovra proprio dalla ingenuità
(in parecchi casi dalla connivenza) di molti cattolici impegnati nell’azione esclusivamente
sociale e materiale. Comunque sia, partendo dal
presupposto, ovviamente teorico, dell’esattezza delle analisi socioeconomiche
marxiste, i teologi della “liberazione” non farebbero altro che accettare
presupposti ideologici e che li condizionerebbero, cosicché quella che in
ultima analisi dovrebbe essere una semplice integrazione o rivalutazione
del pensiero cristiano tenderebbe, invece, di trasformarsi in una palese conversione
dal cristianesimo al marxismo o a qualcosa di simile. Senza considerare che
parlare oggi di marxismo è un po’ come parlare dell’esperanto e della sua
utilità come strumento di comunicazione universale; significa cioè discutere
circa l’utilità di una lingua in effetti reale,
ma la cui applicazione pratica non risulta più che teorica,
cioè impossibile.
Posto il valore ideale supremo di una
rivoluzione sociale (ci riferiamo sempre a quella marxista in senso storico)
che nel suo slancio emotivo ha preteso di attuarsi attraverso la lotta di classe e mediante il
sovvertimento o la modifica di una scala sociale, l’idea di una contestuale
attribuzione trascendentale nella quale immergersi (quella legata al credo
cristiano), perderebbe inevitabilmente il suo significato; anche perché nella
prassi e nell’azione ideologica, la stessa Verità piuttosto che “essere” (cioè come è
intesa nel Vangelo) tenderebbe ad “attuarsi”, proprio nel contesto di un
divenire puramente e limitatamente storico. Più precisamente, il primato
esclusivo del divenire materiale sull’essere metastorico relativizzerebbe e
vanificare tutti i valori metafisici del cristianesimo. Scompenso che si
riscontrerebbe anche nella disamina del carattere trascendente della
distinzione tra bene e male, laddove, secondo il materialismo, l’etica viene
obbligatoriamente dissolta nell’azione sovvertitrice delle gerarchie e delle
prassi socio economiche. E con questo, il passaggio all’immanentismo
storicistico diventa quindi inevitabile. Dio
inizia, erroneamente, ad essere identificato con la Storia
intesa come travagliato processo di auto-redenzione dell’uomo tramite la lotta di classe. L’uomo e le sue idee prendono il posto di Dio
e del suo progetto trascendente e salvifico. Anche se, come è noto, il cristianesimo
non trova mai nella Storia il criterio
della sua verità, ma al contrario lo ricerca nella Rivelazione: A differenza del marxismo (ma anche del liberismo)
il cristianesimo non vive, infatti, nel
tempo che scorre poiché questa fede nel suo profondo custodisce già una
verità trascendente che si sottrae al ciclo morfologico delle culture e delle
società: soggetti terreni che hanno per loro natura un inizio e una fine. Tutto
infatti scorre, rimane soltanto la verità di Cristo. L’assolutizzazione della rivoluzione classista corrisponde poi
ad una assolutizzazione della
politica, dove ogni affermazione della fede e della teologia viene subordinata
ad un criterio politico. In sintonia con l’opposizione marxista della “filosofia
della prassi” a quella speculativa, i teoreti della liberazione sono
soliti sostituire l’ortoprassi all’ortodossia,
con lo scopo di elevare il metodo rivoluzionario
a criterio supremo della verità
teologica. Di conseguenza, e non a caso, alla nozione di povero delle Sacre Scritture si è
tentato (e si tenta ancora, anche se in maniera surrettizia) di sostituire
quella marxista di proletario. Ma
attenzione, la miseria del proletariato viene comunque intesa dai marxisti come
una forza rivoluzionaria capace di creare una nuova società dopo averne
distrutta un’altra, adoperando in questo contesto finalità e metodi assolutamente
distanti e contrastanti dal pensiero di Cristo. La vagheggiata “Chiesa del
Popolo” altro non è che una “Chiesa di Classe”, mentre, al contrario, la Chiesa è di tutti, poiché tutti
gli uomini, poveri e ricchi,
sono “figli di un unico riscatto”.
La ragione di fondo che spinge ad una socializzazione
della Chiesa sta nel fatto che il marxismo e certo cattolicesimo sociale considerano ancora la Chiesa universale e la teologia
tradizionale come espressione di un organismo sostanzialmente reazionario e oppressivo. E sulla
base di questa errata considerazione le cosiddette teologie della liberazione
sono solite formulare risposte, ovviamente sbagliate, ad un problema a tutti
gli effetti reale, cioè quello della povertà e dell’ingiustizia. Questione, quest’ultima,
che, soprattutto in certe nazioni come quelle del Terzo Mondo, economicamente
depresse o sfruttate da regimi militari (di destra e di sinistra) o da
dittature capitaliste o comunque fondanti su quei concetti di modernismo e produttività riferibili sia al liberismo sia allo stesso marxismo,
appare dolorosamente reale. D’altro canto, laddove i valori dello spiritualismo
cristiano hanno ceduto il passo a quelli dello storicismo e del materialismo l’uomo
ha cessato di fatto di essere persona
ed unico irripetibile
imboccando, in cambio di migliorie sociali ed economiche, il tunnel dell’incertezza.
Allo stesso modo in cui un benestante cittadino europeo è solito barattare per
un “cellulare” alla moda gli eterni valori derivanti dalla cultura ebraico-cristiana.
Ciò che i marxisti e i cattolici della “liberazione” non sembrano comprendere è
che il cristianesimo non ha nulla da imparare da alcuno o da chicchessia, se
non dal verbo. E questo vale anche e soprattutto sotto il profilo della
condotta sociale. I cattolici possono infatti contare su una propria, completa
e soddisfacente “dottrina sociale” convalidata da un’esperienza secolare, a
cominciare da S. Tommaso, passando poi per la Rerum Novarum
e le varie Encicliche. Purtroppo, le Sacre Scritture vengono lette spesso con
superficialità, e soprattutto decrittandole attraverso categorie interpretative
della “propria epoca” per scovarvi una soluzione ad uno dei tanti drammatici
problemi ‘materiali’ del momento. Storicizzando totalmente la portata del
messaggio cristiano, molti tendono infatti ad eliminare dal Vangelo qualsiasi
autenticità ed eternità. La parola di Dio, come è noto, si rivolge agli uomini
di ogni contesto sociale ed epoca. Cristo, come sosteneva Kierkegaard, è il “contemporaneo
di ogni epoca” in quanto non coincide con nessuna epoca, cioè non coincide
con il tempo. Tentare di rendere “contemporaneo”
il Vangelo, cercare di storicizzarlo a tutti i costi, non significa
santificarlo nel modo giusto, ma al contrario attualizzarlo e quindi annullarlo.
Senza considerare che Gesù, nelle sue predicazioni, non ha mai inteso
distruggere o sovvertire alcun sistema sociale. Egli proclamò la sua fedeltà
alla Legge di Dio che non voleva certo abolire, ma al contrario completare ed
osservare (lo testimoniano gli scritti di Matteo e Luca). Il non ben compreso
episodio del “tributo” e la snobbata (poiché non politicamente corretta) parabola dei talenti forniscono l’immagine
di un Cristo egualmente lontano sia dai “collaborazionisti” sadducei e dagli “ambigui”
farisei che dai “rivoluzionari” zeloti. Anche se in più occasioni Gesù lancia
pesanti strali contro l’iniquità dell’ingiustizia sociale (“Guai ai ricchi…”).
Ma pur tuttavia questa sua condanna non viene compiuta da un punto di vista
sociale, ma religioso in quanto Egli non pensa affatto ad una rivoluzione
sociale e quindi “storica”, bensì interiore, anche se da essa si possono auspicare
positive conseguenze sociali. Come insegnano le scritture, Cristo non è venuto
sulla terra per sovvertire un determinato ordinamento politico-sociale; Egli vi
è giunto - gesto unico e metafisico - per redimere i peccatori e liberare
l’uomo dalle catene del male. Ciò che, come è noto, Gesù condanna non è un
ordine socio-politico come quello imperiale romano, ma “l’attaccamento ai beni di questo mondo”. In quest’ottica, il cristianesimo
è una vera Rivoluzione, epocale, ma soltanto nel senso che allontana i
cuori degli uomini dal mondo,
cioè dalla materia, per chiamarli a Dio. E in questo senso, forse, trattasi più
di una Conversione che di una Rivoluzione. Gesù, infatti,
raccomanda agli uomini la fede nella Provvidenza e li esorta ad accontentarsi
del minimo indispensabile. Egli ammonisce - è vero - i ricchi ed esalta i poveri,
in ispirito. Ma attenzione, i poveri evangelici non sono affatto i “non
ricchi” desiderosi di diventarlo. Non si tratta quindi di poveri in senso sociologico,
ma in senso religioso. Si
tratta di coloro i quali hanno scelto liberamente la povertà in maniera solare,
come S. Francesco. La povertà annunciata da Gesù è sempre gioiosa e volontaria e agli uomini
illuminati che l’hanno scelta la lotta
di classe non si addice affatto. In questo contesto, in Cristo si
colgono alcune anticipazioni precristiane socratiche e platoniche. Ma anche a
tal riguardo gli equivoci da parte dei teorici marxisti non mancano. Essi hanno
intravisto infatti in alcuni testi contenuti nella “Repubblica” di Platone una
traccia di comunismo, dimenticando che l’eguaglianza
marxista ha uno scopo prettamente economico, mentre quella platonica si fonda,
similmente a quella evangelica, alla
rinuncia spontanea ai beni terreni. Trattasi di una prescrizione per
saggi o per uomini spiritualmente superiori alla media, cioè migliori nella loro singolarità. In altre parole, l’eguaglianza platonica non ha alcun
fondamento materialistico, bensì spiritualistico e morale. Il filosofo greco,
ispiratore, per certi versi, della teologia cristiana, guarda in sostanza alle Idee, mentre i marxisti, ma anche i
capitalisti, i globalizzatori e
gli anti globalizzatori guardano
soltanto alla Terra. Osservare
il Cielo è diventata un’inutile fatica o meglio una possibilità come tante
altre. E ciò che più incuriosisce è che a sostenere questa tesi sono i
cattolici progressisti più degli stessi marxisti che, in quanto atei, sono in
qualche modo giustificati ad assumere questa posizione.
Ma torniamo a
Gesù. Egli, è vero, amò frequentare i poveri e gli emarginati, ma anche i
ricchi, i gabellieri e i soldati. E quando Maria di Betania, colta nell’ungere
i capelli di Cristo con olio prezioso, venne accusata da un gruppo di seguaci
di avere sperperato “trecento denari” che si sarebbero potuti donare ai poveri,
Gesù così rispose: “I poveri li avrete sempre, me, invece, non mi avrete sempre”
(Matteo, Marco, Giovanni).
Insomma, trovare
identità di vedute tra il Vangelo, il dogma marxista o l’escamotage cattolico-sociale
appare impresa ardua. Basti pensare al concetto di “amore per i nemici”,
presente in tutti i Vangeli. Ben difficilmente tale sovrumano concetto potrebbe
accordarsi a quello di lotta di classe (professato apertamente anche da taluni
preti del “dissenso”), ma anche di liberalismo economico. Teorie queste ultime
che come è ovvio si basano su un sottinteso concetto di “supremazia” che non ha
nulla a che vedere con la parola di Cristo. L’inconciliabilità appare
indiscutibile, sia sul piano dottrinale che pratico. Ritornando alla inesatta
interpretazione del Vangelo compiuta dai marxisti ricordiamo che le Sacre
Scritture vanno sempre assunte in toto et sine glossa; cioè non vanno
interpretate attraverso la lente deformante del contingentismo storico. Interpretare il cristianesimo come una
sorta di semplice messaggio sociale e rivoluzionario risulta infatti un puro e
semplice non senso, anche perché il cristianesimo, sic et simpliciter,
non si interpreta. Esso non è un credo sociale o antisociale, non fa
riferimento ad un semplice condottiero, un politico o a un sindacalista, ma
addirittura ad un Redentore. L’idolatria
del sociale si rivela, in ultima analisi, come una conseguenza del
travisamento della figura del Cristo, della sua riduzione sociologica, dimenticando che Gesù considerò
sempre il potere politico alla stregua di una tentazione diabolica (Matteo e
Luca). Al Messia interessa, insomma, la Rivoluzione Interiore, ossia la Conversione. Egli
propugna una salvezza escatologica. Ed è soltanto questo carattere di genuina,
innovativa Rivoluzione Interiore
che interessa il singolo nella sua unicità che potrà in futuro preservare il cristianesimo
dalla fallimentare sorte toccata ad ogni rivoluzione sociale: quella di
degenerare inevitabilmente nella violenta repressione e nell’inganno,
suscitando reazioni altrettanto violente e portatrici di altrettanto falsi
valori. “Ogni rivoluzione - scrisse Albert Camus - per essere
creatrice non può fare a meno di una norma morale e metafisica che ne equilibri
il delirio storico”.
Nell’ambito di
questa breve analisi, un altro punto risulta fondamentale. L’atteggiamento del
cristianesimo nei confronti dell’impegno socio-politico è necessariamente critico in quanto Gesù non accetta la
società, ma non la condanna neppure (“Date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio
ciò che è di Dio”). Mentre, al contrario, l’accettazione totale della politica e dell’ideologia rientra in
una prassi acritica. Ma come si
è accennato non sono le dispute terrene ad interessare a Gesù il cui compito è
quello di aprire la strada ad un Regno futuro, metafisico. E d’altra parte agli
occhi del Salvatore tutte le istituzioni mondane sono per loro natura
intrinseca provvisorie e caduche e non suscettibili di fondamentali
miglioramenti, anche perché sostituibili con altre istituzioni egualmente
negative e provvisorie. Tentare quindi di ridurre il Vangelo ad un
semplice messaggio sociale, ad una sorta di pseudo manifesto politico, significa
distorcerne il suo significato più profondo e interpretarlo attraverso un
sistema di categorie sostanzialmente
anticristiane. La Chiesa non può quindi essere marxista, ma nemmeno
capitalista, poiché entrambi questi sistemi storici non sono stati capaci
di assicurare a tutti gli uomini i diritti fondamentali professati da
Cristo. Ma a quanto pare l’Occidente sembra essersi fatto sordo alla parola del
Salvatore: non a caso la deforma, la adultera, la scompone, la tradisce, ne fa oro
per gli sciocchi, secolarizzandone il contenuto. “In seguito alla morte di
Dio, tutti i falsi profeti si considerano eredi di Dio”. Di qui le nuove,
fragili escatologie proiettate in un futuro esclusivamente mondano; di qui il
proliferare di improbabili, nuove dottrine basate sul Relativismo spinto, sul
Nichilismo ateo, e di mode globalizzatrici e antiglobalizzatrici, frutto anch’esse
della storicizzazione radicale
del cristianesimo; di qui la corsa folle verso il relativismo, l’utopia della
tecnologia e del profitto, nell’illusione collettiva di avere imboccato una
facile scorciatoia in nome di una sorta di “antropocentrismo illuminato”, utile
forse a garantire interessi diplomatici e commerciali, a tutelare gli
investimenti, i salari, le pensioni, i derelitti e i panda cinesi, ma a
mantenere comunque l’uomo nella sua permanente e sostanziale incertezza
esistenziale. E probabilmente - almeno per chi ha fede - nel peccato.
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