Terza Edizione de "L'Ultima Colonia"
Autore: Alberto Rosselli
(ASI) L’operazione di revisione e ristampa de “L’ultima colonia” di Alberto
Rosselli potrebbe dare, a chi non conoscesse l’autore, l’idea di un
lavoro, di semplice restauro di un’opera, tutto sommato un po’ obsoleta
e, comunque, eccentrica, rispetto alle rotte solitamente battute dalla
storia militare. E sarebbe un errore di valutazione madornale. In Italia
si scrivono molti libri di storia e, massime, sul Novecento e sui due
conflitti mondiali: sovente, si tratta di opere, queste sì eccentriche,
dedicate a temi monografici estremamente circoscritti o, addirittura, a
cimeli memoriali di famiglia. Assai più spesso, però, si tratta di
lavori superflui, su temi abusati o ovvi, in cui non ci si discosta di
un centimetro da un’opprimente vulgata, che venne tracciata negli anni
Ottanta e Novanta da una legione di ricercatori politicamente impegnati,
il cui principale obiettivo non era raccontare la storia ma dimostrare
al lettore che la guerra è un male. Certo che la guerra è un male: ci
mancherebbe! Tuttavia, bisognerebbe, a questo punto, dare la cosa per
dato acquisito e cercare, finalmente, di spiegare al pubblico che legge i
libri anche la sostanza del conflitto, che, non dimentichiamocelo, è un
fenomeno storico come qualunque altro. Anche per questa ragione, la
nostra storiografia militare, fatta salva qualche valorosa eccezione,
non gode di particolare stima all’estero. L’immediato effetto di questa
diffusa disistima consiste in un comune atteggiamento di
sottovalutazione dell’importanza del fronte italiano nell’economia della
Grande Guerra e, più in generale, in una impressione di
antiscientificità della nostra storiografia: tanto da considerare anche
saggi di una notevole profondità (mi viene in mente l’opera di Antonio
Sema sul fronte isontino) come afflitti da questa sorta di “tabe”
italiana. Quando, nel mondo anglosassone, venivano scritte le opere
fondamentali di Mosse, di Fussel, di Keegan, solo per citarne alcuni, in
Italia eravamo ancora inchiodati ad un’epistemologia strumentale e ad
una saggistica in cui si paragonava Garibaldi a Cossutta e che andava a
cercare testimonianze sui plotoni d’esecuzione, trascurando la
strategia, la tattica e, nonostante qualche titolo accattivante, perfino
la mitologia della Grande Guerra. Va da sé che Rosselli non si è mai
posto in questa scia: anzi, per la verità, è uno storico che ha sempre
cercato di farsela da sé, la propria scia. Raramente, questa operazione
si è rivelata in sintonia con le più interessanti avanguardie della
storiografia militare come nel caso di questo libro: il che ne fa
un’opera tutt’altro che eccentrica o marginale, ma la colloca a pieno
diritto nel mainstream della saggistica di questa generazione, per
fortuna, a quanto pare, più libera dalle pastoie della correttezza
politica. Ci si è, alla fine, resi conto che, a furia di spaccare il
capello in quattro su due o tre temi centrali della ricerca storica
sulla Grande Guerra, ci si era clamorosamente incartati: la storia
basata sul Materialschacht, la storia che parta dalla
letteratura, la storia delle classi sociali attraverso la guerra, hanno
da tempo esaurito il proprio filone aurifero. L’attenzione dei più
avvertiti tra i ricercatori della nuova generazione si è rivolta al
concetto di “mondialità” della Grande Guerra. Autori di assoluto valore,
come Stevenson e, soprattutto, Hew Strachan, si sono dedicati alla
stesura di storie della prima guerra mondiale che tengano conto in
maniera rilevante anche del panorama extrauropeo e coloniale, nel
tentativo di restituire a quel conflitto il suo carattere autentico, di
guerra totale. Insomma, si è sempre parlato di guerra mondiale e, alla
fine, ci si è ritrovati a parlare di un fazzoletto di terra che sta tra
la Svizzera e il Mare del Nord, tra lo Stelvio e Monfalcone o tra la
Masuria e i Carpazi. Al massimo, ci si è spinti ad analizzare la guerra
navale nell’Atlantico, in qualche capitoletto accessorio. Invece, la
Grande Guerra venne combattuta in quattro continenti e, se pure le forze
schierate furono molto modeste, rispetto ai milioni di uomini impegnati
in Francia o in Galizia, essa ebbe un’importanza notevole e, in certi
casi, decisiva, per le linee di approvvigionamento, per la logistica
globale del conflitto e, nel caso di cui si parla in questo libro, anche
per i suoi effetti psicologici, durante e, addirittura, dopo la fine
delle ostilità. Per questa ragione, la scelta di Rosselli di riproporre,
con ampie revisioni, il suo libro sulla guerra anglo-tedesca nell’
Africa sudorientale è del tutto comprensibile: si tratta di un lavoro di
settore, attento e documentato, che, quando godette della sua prima
pubblicazione, passò sotto un colpevole silenzio, da parte di un mondo
accademico tutto concentrato sulla solita vulgata. Perché, va detto,
esistono molteplici vulgate: non si deve credere che la “vulgata
resistenziale” denunciata dal De Felice, sia la sola ad affliggere
atenei e ricerche storiografiche. Ogni fenomeno della storia moderna e
contemporanea possiede, qui in Italia, la sua brava vulgata: viene, per
così dire, addomesticato ai fini di una sua decisiva spendibilità
politica. Fu naturale, ai tempi, che il saggio di uno storico come
Alberto Rosselli, intellettuale del tutto non allineato con questo
sistema, e dedicato ad un argomento estraneo al mondo della ricerca
italiana, non ricevesse l’attenzione che meritava. E’ brutto dirlo, ma è
la verità. Questa nuova edizione, pur coi limiti oggettivi di un’opera
di nicchia e di una materia che incontra i favori del botteghino assai
meno di altre (Dan Brown, con la sua fantastoria usa e getta, fa scuola,
in questo senso), è un libro di godibilissima lettura e di profonda
scienza: c’è da scommettere che, se raggiungesse il grande pubblico,
potrebbe ottenere un notevole successo. Il punto è sempre quello:
arrivare alla gente. La storiografia gode di un formidabile impianto di
filtraggio: filtraggio all’origine, quando le università selezionano i
ricercatori secondo criteri di omogeneizzazione, e filtraggio alla fine,
quando la distribuzione snobba le opere che non abbiano un certo
imprimatur. Così è la vita, almeno nel nostro Paese. Chi scrive nutre la
speranza che questa ed altre fatiche di Alberto Rosselli possano godere
del meritato successo, perché si tratta di lavori intelligenti, chiari,
illuminati: ma sa bene che è una cosa un po’ difficile. Venendo, ora,
alla materia di questa breve prefazione, “L’ultima colonia”, l’opera di
Rosselli procede, con encomiabile organicità, alla descrizione e, molto
più, alla spiegazione di uno scampolo di Grande Guerra che, in qualche
modo, potrebbe assurgere a simbolo di due concetti contrapposti di
tattica militare: da un parte, infatti, i protagonisti furono i soldati,
metropolitani ed indigeni, delle truppe germaniche del Tanganika
(Tanzania), comandati dal celeberrimo colonnello Lettow-Vorbeck,
grossomodo dell’entità di una divisione (circa 3.000 europei ed 11.000
indigeni), mentre, dall’altra, si contrappose loro un’intera (sebbene
assai composita) armata britannica, di più di 150.000 uomini. Le ragioni
dei successi di Lettow-Vorbeck vengono analizzate con scrupolo, ma
Rosselli fa anche qualcosa d’altro: cerca di entrare nel ventre di
questa guerra, così lontana, geograficamente e psicologicamente, da
quella che si combatteva nelle Fiandre e, com’è nel suo costume, di
restituirci uno Stimmung, lo spirito di un evento. Sarebbe
semplice, per qualunque storico militare, riassumere il senso di questa
battaglia, che si protrasse, con alterne vicende, dal 1914 a oltre la
fine della guerra (quando Lettow-Vorbeck si arrese, l’armistizio era
scattato da due settimane e egli venne salutato, al suo arrivo a
Berlino, come un trionfatore), risolvendola in un mero scontro di
tattiche: ogni battaglia, anche la più diluita nel tempo, ha il suo Schwerpunkt
e, in fondo, basta individuarlo per spiegarne il senso. Questa, tra
tedeschi ed inglesi, però, non fu soltanto una battaglia: fu uno scontro
di sistemi, di esperienze e di intelligenze. E una della ragioni dei
successi germanici consistette proprio nel sistema: i britannici
affidavano i comandi subalterni delle loro truppe coloniali (che erano
professionali, va ricordato) a dei funzionari, che, spesso, incarnavano
il carattere burocratico e pedante tipico del colonialismo inglese.
Lettow-Vorbeck era un soldato: uno Junker che si era fatto le ossa in
mezzo mondo, facendo la guerra. Da una parte, insomma, c’era la
burocrazia e, dall’altra, c’erano l’addestramento e la capacità di
adattarsi al campo di battaglia: un campo di battaglia enorme ed
ambientalmente variegato e complesso. C’erano i “diavoli della foresta”,
capaci di marciare per decine di chilometri in un territorio
impossibile. D’altronde, questa diversa mentalità era già apparsa molto
chiaramente durante il conflitto boero del 1899, quando le truppe di
Smuts e di Botha tennero in scacco per anni i celebrati reggimenti di
sua maestà, con una guerra fatta di rapidi spostamenti, di agguati, di
sorprese e di taglio delle linee di rifornimento. Non a caso,
Lettow-Vorbeck partecipò come osservatore (e, forse, come suggeritore) a
quel conflitto, dal quale apprese gli elementi chiave della sua tattica
militare, fondata sulla guerriglia. E, sempre non a caso, gli Inglesi,
durante la guerra, dopo una serie di insuccessi, mandarono proprio Smuts
a contrastare l’avversario in Tanganika. La logistica è l’elemento
chiave della condotta di una guerra: interromperla significa accecare,
affamare, disorientare e, infine, sconfiggere il nemico. Questo facevano
i boeri e questo fece Lettow-Vorbeck: questo, su scala enormemente più
vasta, stava cercando di fare l’impero britannico alla Germania, con il
blocco navale; e la guerra in Africa ne fu una diretta conseguenza. Le
note vicende del Koenigsberg, di cui Rosselli, in questo libro, ci dà
puntuale notizia, si collocano, a loro volta, in questo contesto: nella
lotta per mantenere o togliere gli attracchi africani alle navi da
trasporto e da guerra. Suez era fuori portata, per la Germania, e la
vecchia rotta circumafricana era l’unico modo per ottenere rifornimenti:
di qui l’importanza vitale di mantenere una rete costiera e di non
perdere una testa di ponte nell’Africa subequatoriale. Bisognerebbe dire
che, probabilmente, 14.000 uomini per perseguire questo obiettivo erano
troppo pochi: si tenga però presente che i contatti tra quelle truppe e
la Madrepatria furono, salvo un paio di casi fortunati, del tutto
impossibili. Lettow-Vorbeck fu solo, a condurre la sua lunghissima
campagna. Dunque, molte sono le cose da comprendere e di cui tener
debito conto: a partire dalla politica coloniale e dalla corsa
all’Africa, in cui la Germania guglielmina giunse buon’ultima. Proprio
da questo snodo, prende le mosse questo libro: opportunamente, Rosselli
ci introduce gradualmente nel centro della questione, dipingendo, con
tratto rapido ed efficace, un mondo, un’epoca scomparsa, che è l’epoca
delle grandi colonie africane. Non si tratta di un merito da poco: le
rotte coloniali della seconda metà del XIX secolo e dei primi anni del
XX seguirono linee complicate, costellate di crisi internazionali e di
trattati, la cui conseguenza più evidente sono quei confini subsahariani
che paiono tracciati con la squadra, indipendentemente da etnie e
popoli: molte catastrofi recenti sono derivate da quella caotica
spartizione del bottino. Poi, l’autore procede seguendo i dettami della
più classica storiografia militare, dimostrando, una volta di più, la
sua formidabile duttilità ed il suo eclettismo: Rosselli scende in campo
e descrive, per così dire, l’ordine di battaglia, ossia le forze
contrapposte; da questo anche il lettore più sprovveduto può facilmente
constatarne la sproporzione e cogliere la statura militare di
Lettow-Vorbeck. Esaurita l’approfondita disamina delle truppe e delle
dotazioni, il libro passa dalla storia annalistica alla storia narrativa
e prende a dipanarsi come un appassionante romanzo di guerra: e da
romanzo fu, senza dubbio l’epopea delle Schutztruppen africane,
con continui colpi di scena e funamboliche manovre. La maggior parte di
questo libro è, dunque, dedicata ad un’analisi capillare, ma mai
noiosa, degli avvenimenti e dei vari protagonisti e comprimari della
lunghissima campagna: e non è una parte che faccia rimpiangere, per
esattezza ed acutezza, il Rosselli storiografo annalista. Anche il
sottpscritto, pure essendo, purtroppo, costretto dal mestiere a
consultare centinaia di opere specialistiche sulla Grande Guerra, resta
ogni volta ammirato, di fronte a questa capacità straordinaria di
Rosselli di raccontare, sintetizzando, ma senza mai togliere nulla che
non sia degno di ablazione: una lunga frequentazione e collaborazione mi
lega all’autore, eppure è sempre con un misto di invidia e di sincera
ammirazione che leggo le sue pagine, scorrevoli e, al contempo, dense di
storia. Tra tutti i suoi libri, questo “L’ultima colonia” è forse
quello che più si avvicina ad un ideale romantico di racconto storico:
un Michelet, si parva licet, che, però non concede nulla alla fantasia.
Non mancano, naturalmente, gli episodi particolari, in questo racconto:
la storia è fatta anche di curiosità e di aneddoti, non soltanto di
cicli che si ripetano o di meccanismi automatici. Tra questi, citiamo
quello, che ha veramente dell’incredibile, della spedizione di
rifornimento e soccorso effettuata dallo Zeppelin L59/17, che avrebbe
dovuto percorrere, senza prevedere un ritorno, la distanza tra il campo
bulgaro di Jambol e l’Ost-Afrika, circa 7.000 chilometri, trasportando
decine di tonnellate di rifornimenti e di armi. Il grande dirigibile
venne fermato a metà strada, per la falsa notizia della resa di
Lettow-Vorbeck e tornò indietro, dopo aver percorso quasi 3.500
chilometri, nel novembre del 1917: un romanzo nel romanzo, si potrebbe
dire. Numerosi sono gli aneddoti che meriterebbero spazio in questa
prefazione: nulla, però, si vuole togliere al paicere del lettore nello
scoprirli. Con lo spostamento delle Schutztruppen in Mozambico, il
conflitto si avviò verso l’epilogo: mentre, in Europa, l’offensiva
Hindenburg si arenava definitivamente sui vecchi campi di battaglia del
1914, in Africa, il destino della colonna Lettow-Vorbeck andava
delineandosi; e, forse, questo epilogo era previsto fin dall’inizio dal
comandante germanico, che non era uno sprovveduto. Il che rende ancora
più nobile ed interessante la sua figura. Di nuovo, i tedeschi puntarono
verso nord, in questa gara a rimpiattino che aveva caratterizzato tutta
la condotta della guerra, tra colpi di mano audacissimi ed agguati
feroci, finchè, con qualche giorno di ritardo rispetto al resto del
mondo, giunse anche a Lettow-Vorbeck la notizia della cessazione delle
ostilità. Come detto, il 25 novembre, il contingente tedesco
dell’Ost-Afrika si arrese al generale Edwards e a Van Deventer, il
grande avversario di Lettow-Vorbeck: il Kaiser aveva lasciato la
Germania già da 17 giorni e da 14 la prima guerra mondiale era finita.
Questa scritta da Rosselli, insomma, è la storia di un crepuscolo, di un
Goetterdaemmerung: ma si tratta, pur sempre di un bellissimo crepuscolo. E, va da sé, di un bellissimo libro.
Fonte: Redazione http://www.agenziastampaitalia.it
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