"La tragedia dei polacchi deportati dai sovietici in Iran, 1941".
di Alberto Rosselli
Un terrificante ed oscuro capitolo della Seconda Guerra
Mondiale è sepolto nel cimitero cattolico romano situato ai margini della
povera periferia di Teheran. Qui riposano 1.892 polacchi, tra donne vecchi e
bambini, deportati da Stalin tra la fine del 1939 e il 1942. Come è noto, nel
Settembre 1939, Hitler e il dittatore di Mosca, forti dell’intesa
precedentemente raggiunta nel mese di agosto con il Patto Ribbentrop-Molotov,
si avventarono sulla Polonia, smembrandola, e dando inizio ad uno dei capitoli
più neri della storia di questa sfortunata nazione cattolica incuneata tra
Germania luterana e la Russia ortodossa. Completata l’occupazione e la
spartizione della Polonia, l’Unione Sovietica, che, come è noto, si era annessa
la parte orientale del paese, provvide subito a russificare questa regione, non prima di avere disarmato ed
internato l’esercito polacco ivi presente (formato da circa 250.000 uomini).
Nel 1940, in barba a tutti i trattati e le convenzioni internazionali, Stalin
si rifiutò di liberare gli ufficiali e i soldati catturati, raggruppandoli in
una decina di campi di concentramento situati in Ucraina. Ma quando un anno dopo,
nel giugno 1941, la Germania invase l’Unione Sovietica, il dittatore decise di
liberare tutti i polacchi garantendo ad essi un equo trattamento e,
addirittura, “una nuova terra”, in cambio del loro aiuto nella lotta contro il
nazismo. Più precisamente, gli emissari di Stalin concessero agli ufficiali
polacchi di continuare a combattere nell’ambito di una Nuova Armata che i
russi, assieme ai britannici, stavano formando in Persia settentrionale
Decisi a riconquistare la libertà e a contribuire allo sforzo
degli Alleati, i polacchi accettarono la proposta di Mosca e, su lunghi
convogli ferroviari, iniziarono a partire alla volta della lontana e neutrale
Persia che, proprio in seguito all’attacco tedesco e alla firma del trattato di
alleanza tra Russia e Gran Bretagna, era stata preventivamente occupata dalle
forze armate delle due potenze, preoccupate da possibili infiltrazioni nemiche
in quest’area strategica. Nell’arco di alcune settimane, molte migliaia di
soldati (ma anche di civili) polacchi rinchiusi nei campi sovietici firmarono
la loro adesione al nuovo, ma dai lineamenti assai vaghi “Esercito di
Liberazione Polacco in Persia”. Secondo dati provenienti dagli archivi segreti
russi (1999), si calcola che, tra il luglio e il dicembre 1941, le tradotte sovietiche
trasferirono in Persia dai 114.000 ai 300.000 polacchi (le cifre sono molto
discordi). E a prova di questo massiccio e sconosciuto esodo non sono rimasti
soltanto i documenti, tenuti accuratamente nascosti dalle autorità di Mosca per
diversi decenni, ma addirittura una dozzina di testimoni ancora in vita e
residenti alla periferia di Teheran. La scoperta di questi reduci è stata fatta
da Anwar Faruqi, bravo giornalista della Associated Press, che, qualche anno
fa, essendosi recato in Iran per motivi di lavoro, è riuscito a ricostruire
l’intera, oscura, e per certi versi straordinaria, vicenda. Visitando la
periferia della capitale iraniana, Faruqi ha avuto modo di conoscere Helena
Stelmach, una settantenne polacca, da anni sposata con un iraniano. La donna, assieme
ad Anna Borkowska, di anni 83, sembra essere una delle ultime sopravvissute
alla deportazione ordinata da Stalin nel lontano 1941. Non senza iniziali
reticenze, le due anziane signore (“che
parlano un iraniano con uno strano accento”) hanno accettato di raccontare
a Faruqi la loro avventura. “Entrambe le
scampate vivono in modeste abitazioni, adornate da qualche mobile, i
tradizionali tappeti e, appese alle pareti, le foto dell’ayatollah Ruhollah
Khomeini, quella di papa Giovanni Paolo II e alcune effigi di Gesù e Maria”.
Come racconta la Helena Stelmach - che quando iniziò
l’invasione russa viveva in un villaggio della Polonia orientale - “nel settembre del 1939, molti civili, tra
cui la sottoscritta, vennero rinchiusi, assieme ai soldati polacchi, in campi
di concentramento provvisori. Poi, un giorno, venimmo tutti trasferiti, con
tradotte ferroviarie, nella fitta foresta di Basharova, non distante dalla
città di Arcangelo. E lì i russi ci tennero, costringendoci ai lavori forzati.
Ma nell’estate del 1941, sorprendenti notizie iniziarono a circolare nel mio
campo. Le armate tedesche avevano invaso l’Ucraina e stavano avvicinandosi a
Leningrado. Pochi giorni dopo, il comandante russo ci convocò, che eravamo
appena tornate dalla foresta dove eravamo impiegate nel taglio degli alberi.
L’ufficiale ci disse che saremmo stati liberi a condizione di partecipare alla ‘Grande
guerra patriottica’ contro la Germania nazista. Sapemmo poi che, prima
dell’arrivo dei tedeschi, Stalin aveva provveduto a fare trasferire dalla
Polonia orientale alla Russia e alla Siberia la quasi totalità della
popolazione, per impedire ai tedeschi di fare bottino di mano d’opera”. Sempre
secondo i documenti degli archivi moscoviti, nell’estate del 1941, da tutti i
campi di concentramento dell’Unione Sovietica (tra cui Vorkuta, Kolyma e
Novosibirsk e Kazakistan) defluirono in direzione della Persia decine di
migliaia di polacchi fino a pochi giorni prima utilizzati nei campi, nelle
foreste e nelle miniere. “Eravamo
praticamente degli schiavi di Stalin”. “Il
viaggio a bordo dei convogli sovietici risultò spaventoso: un vero incubo”,
ricorda la Stelmach, che a quel tempo aveva dieci anni e viaggiava con la
madre. “Eravamo pigiati a decine a bordo
di carri bestiame. Il freddo era terribile e non avevamo nulla all’infuori dei
nostri stracci per coprirci. Ogni duecento, trecento chilometri il convoglio si
fermava e le guardie ci davano qualche secchio di rape e pane secco, e un
bidone d’acqua. Durante il viaggio morirono per la fame e il gelo decine di
bambini e vecchi. Dopo giorni giungemmo a Taskent, capitale dell’Uzbekistan
sovietico, e lì ci fecero salire su un altro treno diretto in Persia”. Dopo
un mese dalla partenza da Arcangelo, la Stelmach e gli altri profughi giunsero
ad una stazione ferroviaria situata sulle sponde orientali del Mar Caspio. “Venimmo trasbordati su piccole navi dirette
verso il porto iraniano di Enzeli. Ma quel viaggio per mare, che credevamo
migliore del precedente, si rivelò forse peggiore. Le navi erano vecchie e
sovraccariche. Ci cacciarono nelle stive che erano piene di topi ed insetti
repellenti. Una volta al giorno le guardie ci passavano dell’acqua e la solita
zuppa di rape, radici e pane secco. Facevamo i nostri bisogni in un angolo
della stiva. L’odore era insopportabile. Scoppiò un’epidemia di febbre
tifoidea; molti morirono e i loro corpi vennero scaraventati in mare. Alla
fine, in un freddo mattino, la nave giunse nel porto iraniano di Enzeli
(l’attuale Bandar Anzali), e ci fecero sbarcare. Era il gennaio 1942. Duemila
806 rifugiati morirono entro pochi mesi dall’arrivo e furono sepolti in varie
fosse comuni nei dintorni della città”.
La maggior parte dei
polacchi in migliori condizioni di salute venne subito avviata verso i campi di
addestramento dell’interno dove - così dicevano i sovietici - stava formandosi
il nuovo Esercito polacco guidato dal generale Wladyslaw Anders. La quasi
totalità dei polacchi venne trasferita su camion a Teheran, Isfahan e in altre
città iraniane. ”Il nostro primo approccio
con il popolo iraniano fu molto caloroso, e inaspettato. Si affollavano intorno
ai nostri camion e autobus. Ci passavano attraverso i finestrini aperti
datteri, noci, piselli tostati, uva passa e melograni”, racconta Krystyna
Skwarko, un’insegnante polacca che in seguito, dopo la fine della guerra,
sarebbe diventata la direttrice dell’orfanotrofio di Isfahan.
La Skwarko scrisse
poi un curioso ed introvabile libro “L’ospite”, in cui ella fece, tra l’altro,
un dettagliato resoconto del suo viaggio da Enzeli fino ai campi di raccolta.
La donna visse in Iran fino agli anni Sessanta e poi emigrò in Nuova Zelanda,
dove morì nel 1995.
Più di 13.000 bambini
polacchi giunti in Iran erano orfani, anche perché una parte di loro aveva
perso i genitori durante le terribili trasferte ferroviarie sovietiche. All’interno
dei campi iraniani, un’organizzazione assistenziale sionista si prendeva cura
degli orfani polacchi di religione ebraica. In seguito, parecchi di essi
vennero trasferiti in Palestina, mentre altri – dopo la guerra - emigrarono
negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Australia, Sud Africa, Nuova Zelanda e
altrove.
I CAMPI BRITANNICI E SOVIETICI
Nell’autunno del
1941, nei pressi della città di Ahvaz, nell’Iran sud-occidentale, i britannici
costruirono il cosiddetto “Campo Polonia”: una struttura piuttosto efficiente e
decorosa destinata ad accogliere i profughi polacchi e i futuri volontari
dell’Armata Anders. Il campo – ben differente da quelli sovietici - era molto
esteso e dotato di baracche con servizi, mense, ospedali, scuole e orfanotrofi.
La struttura funzionò per circa due, tre anni e poi venne smantellata. Il
destino dei profughi polacchi raccolti ad Ahvaz fu infinitamente migliore
rispetto a quello dei loro compagni rinchiusi negli spaventosi campi del nord
dell’Iran, quelli gestiti dai russi. Questi ultimi, infatti, erano molto simili
a dei gulag. D’altra parte, lo stesso Stalin, che aveva accettato di malavoglia
di reintegrare gli odiati polacchi in un’Armata Nazionale (egli avrebbe
preferito - come in realtà poi farà - inquadrare eventuali volontari
nell’Esercito sovietico), aveva dato disposizioni affinché ai polacchi, sia i
miliari che i civili, destinati ai campi iraniani, venisse riservato un
trattamento “non di favore”. Ordine che, stando alle testimonianze dei reduci
polacchi, venne interpretato dai gestori dei campi alla lettera. Nei gulag
sovietici dell’Iran settentrionale la vita era infatti durissima. I
baraccamenti (circondati da reti con filo spinato e torrette di guardia, erano
pessimi. Il cibo era scarso, l’assistenza sanitaria quasi inesistente e le
angherie frequentissime. Per le migliaia di sfortunati profughi giunti in
Persia dalla Russia si apriva un nuovo, drammatico capitolo. I principali campi
sovietici si trovavano nei pressi di Teheran e di Tabriz. E in essi i russi
raccolsero, tra il 1941 e il 1944, non meno di 250.000 profughi. Contrariamente
a quanto accadde nei campi inglesi del sud della Persia, a nessun polacco di
sesso maschile venne mai permesso di uscire o, meno che mai, di venire
addestrato militarmente per poi unirsi all’Armata Anders che, come è noto,
dipendeva dal governo polacco in esilio a Londra che Stalin non voleva affatto
riconoscere (1). Per il futuro della
Polonia il dittatore russo aveva ben altri programmi. Non a caso, per tutta la
durata della guerra, i profughi polacchi vennero tenuti chiusi nei campi
iraniani e adoperati dai russi per pesanti lavori quali la costruzione di
strade e linee ferrate. E a nulla valsero le proteste dell’Inghilterra che si accorse
troppo tardi della “truffa” messa in atto dal dittatore sovietico. Come è noto,
nella seconda metà del 1944, allorquando l’Armata Rossa stava avvicinandosi
alla Vistola, Stalin acconsentì a che un certo numero di ufficiali e soldati
polacchi addestrati in Russia partecipasse - integrato in divisioni sovietiche
- all’offensiva finale contro la Germania. Finita la guerra, poco prima del
ritiro dall’Iran delle truppe sovietiche e britanniche, i russi permisero ai
reduci polacchi di fare rientro in patria o di raggiungere il sud del paese per
imbarcarsi alla volta di altre destinazioni. Oggi, a distanza di quasi un
secolo, alla periferia di Teheran quasi 2.000 tombe incise con una croce e
riportanti strani nomi rimangono a testimoniare il passaggio e le sofferenze
dei profughi polacchi giunti al termine di una lunga, terribile e sconosciuta
odissea. Incredibilmente, dopo tanti decenni, all’ambasciata polacca di Teheran
continuano a giungere dalla madrepatria (ma anche dall’Inghilterra, dagli Stati
Uniti e dalla Nuova Zelanda) numerose lettere di persone o emigrati di origine
polacca che chiedono alle autorità iraniane notizie dei propri parenti dispersi
in Iran durante il Secondo Conflitto mondiale.
(1) L’ARMATA POLACCA “ANDERS”
Quando nel settembre 1939 la Germania e l’Unione
Sovietica - sulla base del Patto Ribbentrop-Molotov del 23 agosto 1939 -
invasero e si spartirono la Polonia, il generale Wladislaw Anders e parte
dell’esercito polacco furono presi prigionieri dalle forze occupanti russe.
Anders che come moltissimi altri ufficiali e soldati dell’ex esercito di
Varsavia rifiutò di entrare a fare parte dell’Armata Rossa, venne imprigionato
nella prigione della Lubianka (in seguito, come è noto, circa 9.000 ufficiali
polacchi “ribelli” verranno, per ordine di Stalin, fucilati e sepolti nelle
fosse di Katyn: eccidio che, nel 1945, i sovietici tentarono di addossare ai
nazisti). In seguito all’invasione tedesca della Russia (22 giugno 1941), il
dittatore sovietico - dietro pressioni dell’Inghilterra - fu costretto ad
addivenire ad un accordo con il governo polacco in esilio a Londra, per la
costituzione in Russia di un nuovo esercito Polacco Libero che il Comando di
Mosca avrebbe dovuto formare e favorire, e il cui comando sarebbe stato
affidato al generale Anders. L’obiettivo era quello di utilizzare le truppe
polacche sia a fianco dei sovietici che a fianco dei britannici, entrambi
impegnati contro le forze del Reich. E pur non vedendo di buon occhio la
ricostituzione di un esercito polacco autonomo, Stalin fu costretto a
collaborare. Una volta liberato dal carcere, Anders si mise subito in contatto
con i vertici militari sovietici per chiedere notizie circa il destino degli
oltre 250.000 soldati (e 750.000 civili) polacchi deportati in Russia. Ma ad Anders
non occorse molto per capire che una gran parte di questi erano misteriosamente
“scomparsi” nei campi di concentramento russi. Dietro ordine di Stalin, il
Comando russo lesinò al generale polacco sia informazioni che aiuti o mezzi,
giustificando il tutto con l’emergenza guerra nella quale si stava dibattendo
il paese. Senza considerare che, pochi mesi dopo l’inizio del suo lavoro, ad
Anders venne fatto capire che il dittatore di Mosca non aveva alcuna intenzione
di equipaggiare, armare e fare combattere alcun soldato polacco in difesa dello
stesso suolo russo minacciato dalle armate tedesche. E fu così che nella
primavera del 1942 Anders chiese a Stalin almeno il permesso di trasferire
159.000 ex prigionieri polacchi (gli unici trovati ancora in vita nei gulag) in Persia e successivamente, con
l’aiuto dei britannici, Palestina, dove il locale Comando inglese avrebbe
provveduto ad addestrarli, armarli ed inserirli nelle armate impegnate in
Africa Settentrionale. Anders stimava che oltre un milione di polacchi
venissero lasciati in Russia. Dopo le note vicissitudini, ciò che rimaneva
dell’”Armata” di Anders raggiunse finalmente la Palestina, dove venne
acquartierato in appositi campi. La nuova Armata polacca concluse il suo ciclo
di addestramento nel dicembre 1943, venendo poi trasferita dapprima a
Quassassin (Egitto) e in seguito (gennaio 1944) in Italia, dove andò ad
affiancarsi all’8ª Armata inglese. Nel corso della campagna d’Italia, i reparti
del generale Anders ebbero modo di distinguersi sulle alture di Monte Cassino,
maggio 1944, e, nell’agosto dello stesso anno, sul fronte adriatico. Dopo la
resa tedesca (8 maggio 1945), l’Esercito di Anders, che in seguito
all’occupazione sovietica della Polonia era diventato per gli Alleati un
“serio” imbarazzo politico, venne smobilitato. E dei suoi 123.000 uomini,
soltanto 77 ufficiali e 14.000 soldati accettarono di fare ritorno in patria.
BIBLIOGRAFIA:
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Gilbert, Martin. The Second World War: A Complete History. New York: Henry Holt and Company, 1991.
Keegan, John. The Second World War. New
York: Penguin Books, 1990.
James Sontag and James Stuart Biddie Nazi-Soviet Relations, 1939-1941: Documents
from the archives of the German Foreign Office. Ed. Raymond. US Dept. of
State, 1948.
U.S. War Dept. General Staff. Digest and Lessons of Recent Military
Operations: The German Campaign in Poland,
September 1 to October 4,
1939. Wash, 1942
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