lunedì 25 novembre 2019

Novità in libreria. 'La rivolta anti inglese in Iraq del 1941', di Alberto Rosselli. Edizioni Mattioli 1885 (Fidenza). Prefazione di Fabio Bozzo.





Prefazione di Fabio Bozzo.



Alberto Rosselli, affermato storico genovese ed ex inviato di guerra nei Balcani e in Medio Oriente, affronta con questo sintetico, ma esaustivo testo un tema fondamentale per chiunque voglia comprendere gli eventi dell’Iraq contemporaneo: la rivolta anti britannica che interessò il Paese delle Mille e una notte nel 1941. Lo scrittore ligure introduce il lettore all’argomento attraverso riassunto della storia della Mesopotamia, la Terra tra i fiumi Tigri ed Eufrate, culla di antichissime civiltà ed eterno crocevia culturale e geopolitico.
Partendo dalle ere più remote il testo ripercorre gli epici incontri scontri tra il mondo greco e quello persiano, con il primo che, dopo essere stato sulla difensiva, conquistò il secondo grazie ad Alessandro Magno. In seguito all’emergere della dinastia sassanide, artefice di un vero Rinascimento persiano, l’Oriente si liberò dalla tutela culturale dell’Occidente, prima rappresentata da Roma e poi da Bisanzio poi. Ne seguirono guerre devastanti che confermarono una leggera superiorità bellica, ma non un vero predominio, della parte occidentale della famiglia etnica indoeuropea su quella orientale. In concomitanza con il declino di Bisanzio a scapito dei persiani, la Mesopotamia venne poi interessata dalla conquista islamica. Quando, nel VII secoli, i seguaci di Maometto emersero prepotentemente dalle sabbie della penisola araba, ebbero la meglio nell’affrontare e sconfiggere i due imperi (bizantino e persiano): soggetti caratterizzati da un livello statuale e culturale elevato, ma che nel frattempo si erano logorati a vicenda, complici le continue dispute militari ed altrettanto perniciose epidemie (come la Peste di Giustiniano che, pare, abbia falciato il 25 per cento della popolazione del Mediterraneo orientale). Il risultato fu che l’intero Medio Oriente cadde in mano araba, dando origine a califfati (come quelli di Damasco e di Baghdad) che imposero con la forza alle preesistenti popolazioni arabe cristiane il credo maomettano. In questo contesto l'Impero Bizantino, ormai ridotto al dominio della sola penisola anatolica, riuscì a respingere, seppure a fatica, ogni assalto arabo islamico, per poi crollare definitivamente nel 1453 –dopo ben sei secoli di resistenza– sotto l’impeto di una nuova e feroce potenza musulmana, ma non araba: i turchi ottomani. Per inciso, fu grazie alla disperata resistenza dell’Impero Bizantino che l’Europa orientale non venne investita dall'invasione araba. Anche in questo caso le orde della mezzaluna conquistarono i Balcani solo sotto le bandiere ottomane.
Il destino dei sassanidi fu ancor più crudele di quello bizantino. Non soltanto l’attuale Iraq, ma anche l’intera Persia venne occupata dagli arabi, che vi importarono a forza la fede coranica, spazzando via i retaggi culturali e religiosi della gloriosa civiltà zoroastriana. Il risultato fu che un’entità imperiale di natura prettamente asiatica, ma in grado in grado di sviluppare un certo dialogo con l’Occidente, venne sostituita dalla cultura musulmana, che per sua stessa ammissione punta alla totale conquista ed alla conversione del mondo intero. Con l’espansione turca tutto il Medio Oriente, ad eccezione della Persia, cadde sotto il controllo della suddetta popolazione altaica attraverso il Califfato Ottomano, nato nel 1517 con l'assunzione del titolo di Califfo da parte del Sultano e durato fino al 1924. All’indomani della disastrosa sconfitta subita nel 1918 dall’Impero Ottomano (alleato di Germania, Austria-Ungheria e Bulgaria), e con la conseguente disgregazione dei suoi possedimenti mediorientali conquistati dalle forze dell’Intesa (Gran Bretagna e Francia), il Medio Oriente venne spartito tra Londra e Parigi. L’Iraq, in particolare, divenne un “mandato” britannico, ovvero un regno arabo autonomo, ma posto sotto stretta tutela dell’Inghilterra. Questo perché le enormi riserve petrolifere e la posizione a metà strada tra l’India ed il Canale di Suez imposero alla diplomazia inglese una presenza diretta sul territorio. Già a partire dai primi anni Venti i rapporti tra britannici ed iracheni non risultarono facili. I problemi, infatti, erano spinosi, in parte a causa della costituzione di un regno composito dal punto di vista etnico-religioso (con il Nord a prevalenza curda sunnita; il Centro, con Baghdad, a maggioranza arabo-sunnita ed il Sud, con Bassora, a maggioranza arabo-sciita), in parte perché buona parte della nuova classe dirigente irachena ambiva in tempi rapidi ad acquisire la totale indipendenza (già prevista dalle clausole mandatarie, ma ritenuta troppo lontana). Ben presto, la brama indipendentista di alcuni leader iracheno, tra cui Rashid Al Galiani, portarono parte dell’esercito e della burocrazia a cercare alleati all’estero per ottenere l’autodeterminazione. E fu proprio nella primavera del 1941 – approfittando del fatto che l’Inghilterra si trovava in stato di guerra con la Germania e con l’Italia - che Rashid Al Galiani, a capo degli elementi nazionalisti iracheni, attuò un colpo di stato, rovesciando il governo filo britannico di Nuri Al-Said, e chiedendo, nel contempo, il riconoscimento diplomatico e aiuto militare alle potenze dell’Asse.
Qui entriamo nel cuore del testo di Alberto Rosselli che, con dovizia di particolari, ma senza inutili digressioni, narra le vicende della Prima Grande Rivolta Araba anti occidentale della Storia. Una Rivolta, in realtà, assai breve e poco onorevole per gli insorti nazionalisti iracheni, poiché le forze britanniche presenti sul territorio, pur numericamente molto inferiori, riuscirono in breve tempo a schiacciare un esercito bene armato (quello di Rashid Ali), ma debolmente rifornito da Germania e Italia, le quali tentennarono a lungo prima di decidersi ad intervenire con il solo appoggio aereo. Ciò non significa che Londra, almeno per un paio di mesi, non abbia tremato all’idea di una vera e propria invasione del Medio Oriente da parte dell’Asse. Tale rischio in realtà era improbabile, data la distanza geografica che separava l’Europa e la Libia italo-tedesche dall’Iraq. Tuttavia presso il Quartier Generale dell'Impero Britannico il timore fu reale.
In effetti la Grande Rivolta Araba irachena analizzata da Rosselli avrebbe potuto, almeno in teoria, creare pericolosi contraccolpi in Medio Oriente ai danni della Gran Bretagna, interrompendo gli approvvigionamenti petroliferi che dall’Iraq sfociavano nel porto palestinese di Haifa, per poi essere ridistribuiti sui vari fronti, e mettere in serio pericolo la sicurezza del Canale di Suez ed i collegamenti tra l’Egitto britannico e l’India. Fu talassocrazia anglosassone ad impedire questi sviluppi poiché, avendo il controllo di buona parte del Mediterraneo, la Royal Navy non permise alle forze dell’Asse di avvicinarsi alle coste mediorientali, costringendo la Regia Aviazione e la Luftwaffe (che avevano le loro basi più vicine a Rodi) a consegnare ai ribelli iracheni un aiuto poco più che simbolico, sia sotto il profilo logistico che militare vero e proprio. Gli inglesi al contrario, pur essendo nel pieno di una delle loro fasi buie della seconda guerra mondiale, riuscirono a dar vita ad una strategia globale. Per prima cosa aumentarono la consistenza della loro flotta nel Golfo Persico, attingendo magri rinforzi da vari settori navali, poi inviarono verso il porto di Bassora una serie di reparti di truppe indiane già predisposte per il trasferimento in Malesia, dove la minaccia giapponese si stava facendo sempre più concreta (mancavano appena sette mesi a Pearl Harbor). La rapidità della reazione britannica sorprese il Governo golpista iracheno e lasciò all'Asse poco tempo per fornire un aiuto concreto al nuovo alleato. Il 2 maggio 1941, esaurite le oggettivamente scarse vie diplomatiche, gli inglesi passarono alle armi. Come già accennato l'esercito iracheno, pur in netta superiorità numerica, non si rivelò un granché. I suoi ufficiali risultarono impreparati, poco combattivi ed incerti sul da fare, senza contare che – salvo qualche eccezione – dopo i primi scontri molti reparti soldati sbandarono, spesso gettando armi e divise. A nulla servì nemmeno l’incitamento alla ‘guerra santa islamica’, proclamato dal Gran Muftì di Gerusalemme, Amīn al-Ḥusaynī (sodale ideologico del leader Rashid Ali). A conti fatti, in meno di un mese di combattimenti la rivolta nazionalista irachena venne domata dai britanniche e l'Iraq tornò sotto un Governo filo occidentale, ovviamente guardato a vista dai soldati britannici. Con la vittoria delle forze inglesi, il conflitto mondiale riprese il suo corso, ma malgrado il trionfo finale l’Impero britannico ne uscì esausto, iniziando un progressivo e quasi sempre volontario smantellamento di un impero divenuto troppo costoso da gestire. In Iraq, con il progressivo abbandono degli insegnamenti politico-amministrativi inglesi, la leadership locale divenne sempre più nazionalista ed anti occidentale. Fino al colpo di Stato di Saddam Hussein, prima cliente mediorientale numero uno dei sovietici e scheggia impazzita poi. Ritornando al libro di Rosselli, tutto ciò, e quello che la storia ci riserverà nel prossimo futuro, risulterebbe incomprensibile senza un attento studio della Rivolta irachena del 1941: il tentativo maldestro di una leadership non più coloniale, ma non ancora pronta all’indipendenza, di affrancarsi dal predominio europeo. Un predominio, giova ricordarlo, non solo militare, ma anche politico e culturale. In ultima analisi, la repressione britannica del 1941, fu un capitolo dell’eterno confronto tra Occidente (ovvero la sintesi di civiltà classica, cristianesimo ed illuminismo) ed islam, religione nata tra le sabbie e votata alla sottomissione del globo.
Fabio Bozzo




mercoledì 20 novembre 2019

'L'Olocausto Armeno' (quarta edizione ampliata), di Alberto Rosselli verrà presentato e discusso a Genova (17 Gennaio 2020, presso la Biblioteca Berio) con il patrocinio dell'Associazione 'Domus Cultura'.










L’olocausto armeno (quarta edizione).

PREFAZIONE DI MARCO CIMMINO



Ricorrendo quest’anno il centenario della ‘strage armena’, Alberto Rosselli, già autore di quel capolavoro di sintesi che fu Sulla Turchia e l’Europa, si è trovato, quasi inevitabilmente, costretto a ‘ritornare’ sull’argomento ‘Armenia’, rielaborando questo libro, L’olocausto armeno (giunto, grazie alla lungimiranza della Mattioli 1885, alla sua quarta riedizione, ampliata ed arricchita da corredo iconografico): testo che del citato Sulla Turchia e l’Europa è, al tempo stesso, corollario ed approfondimento. E’, infatti, impossibile affrontare il tema dell’europeità della Turchia moderna, senza affrontare quello che ne è, evidentemente, il nodo storico e civile fondamentale: il massacro del popolo armeno, iniziato negli anni 1894-95 dai Sultani ottomani e poi portato a compimento dal Partito ‘modernista’ dei  ‘Giovani Turchi’ durante la Prima Guerra Mondiale. Crediamo che la spinta interiore che ha determinato questa necessitante scrittura, appartenga al carattere personale di Rosselli oltre che alla deontologia di ogni storiografo degno di questo nome. Il bisogno di capire, la volontà di sapere, il dovere di spiegare, sono, infatti, le concause dell’opera ultima di questo autore genovese. Perché Alberto Rosselli è un ricercatore caparbio e, al tempo stesso, un eccellente divulgatore. Egli ama entrare nelle pieghe più riposte di certe nostre memorie, diafane all’apparenza, per poi percorrerle da capo a fondo. Per capire, prima, per aiutarci a capire, poi. Riteniamo che L’olocausto armeno sia un’opera civile nel senso più alto del termine: essa è l’analisi circostanziata di una tragedia che non può rimanere entro i confini della storiografia tabellare, ma che impone, a chi scrive e a chi legge, un’attenzione viva e partecipe, un’umana compassione ed una riflessione sull’immutabilità dell’umana condizione. Si tratta, in definitiva, di un libro da leggere con l’anima, oltre che con la mente, perché scende fino al fondo di un inferno che non è opera di un dio, ma di uomini come noi. Per questo, ad un certo punto, i due saggi (Sulla Turchia e l’Europa e L’olocausto armeno) si toccano e si incrociano. Non si può infatti valutare la Turchia d’oggi, senza considerare il suo atteggiamento verso la Turchia di ieri. Per questo, in maniera assai efficace, l’autore mescola alla storia del genocidio armeno la “storia della storia” di quell’olocausto, arrivando fino a giorni vicinissimi a noi. E se vi è una parvenza di freddezza in Rosselli, essa non risiede affatto nella scarsa adesione emotiva ad un’immane sciagura collettiva di uno studioso di cui personalmente conosciamo ed apprezziamo l’indubbia umanità. Piuttosto, essa sta a significare lo sforzo costante dello storico, che non può accettare le sole ragioni dell’empatia nell’emettere i propri giudizi e che cerca di osservare la natura delle cose, e il mondo dei fenomeni, senza lasciarsi condizionare dall’entità dei fenomeni stessi. Perché un giudizio, disincantato e dolente, sulla capacità dell’uomo di straziare, oltre ogni immaginazione, altri uomini, è presente in ogni pagina di questo libro. Troppo acuto è l’autore per poter credere nelle magnifiche sorti e progressive, dopo avere perlustrato tante linee d’ombra e tanti cuori di tenebra. Così, L’olocausto armeno diventa opera figlia dell’esperienza di chi ne ha operato, capoverso per capoverso, la stesura: opera matura di un autore che padroneggia con sicurezza tanto lo strumento quanto la materia. Trattasi di un lavoro che sa dove andare a parare, fino dalle pagine di esordio e che conduce il lettore, con discrezione, com’è costume di Rosselli, fino al centro della Geenna, quasi a dirgli: vedi? Anche di questo siamo stati capaci! Se pregevole, pur nella sintesi, è la visione storiografica e la documentazione delle tappe di questo genocidio, ancora più degna di menzione è la capacità di questo libro di contestualizzare, in un felice gioco di scale e di primi e secondi piani, un avvenimento che parrebbe, nella sua cruda ferocia, del tutto incontestualizzabile. Ecco, dunque, che la strage del popolo armeno appare animata da una sua spietata logica, al pari di ogni altro consimile scempio novecentesco. E, allo stesso modo di altri, analoghi, massacri, vi sono, nel genocidio armeno inconfondibili prodromi ed identificabili segnali. Certo, alla Turchia del 1915 mancava l’implacabile e cronometrica precisione di un apparto nazista o l’inumano cinismo di quello staliniano, ma le ragioni dell’odio, dello sterminio e dell’oblio sono le stesse. E sono ragioni eminentemente pratiche, di opportunità politica e sociale. E’ probabilmente questo il dato più aberrante dei genocidi del XX secolo, da quello degli armeni a quello perpetrato da un delirante dittatore marxista come Pol Pot. La loro pianificazione è infatti assolutamente “moderna”, quasi “industriale”, con tanto di calcolo dei danni collaterali e delle economie di scala. Colpisce, a tale proposito, il fatto che gli argomenti dei ‘negazionisti’ di tutte le stragi siano assai simili tra loro. La versione secondo cui le vittime non sarebbero state uccise scientemente, ma per conseguenza di disagiate situazioni oggettive, che avrebbero aumentato a dismisura il normale tasso di mortalità in situazioni di per sé difficili (la deportazione, la detenzione in lager, la prigionia di guerra, eccetera), è, ad esempio, comune a quasi tutte le versioni negazioniste degli olocausti. Lo stesso dicasi per la tristissima conta delle vittime, che, a seconda della convenienza, moltiplicano o riducono il proprio numero in maniera eclatante. Ebbene, nulla di tutto questo è nell’opera di Rosselli. Egli appare, come sempre, animato dall’intento di avvicinarsi il più possibile al vero e alla ragione, senza pregiudizi di sorta e, soprattutto, senza quelle finalità educativo-pedagogiche per cui la Storia dovrebbe essere emendata di tutti i particolari che non siano funzionali ad un progetto manipolatorio delle coscienze. Rosselli non vuole convincere nessuno: egli si limita a mostrare le cose nella loro cruda realtà, lasciando che sia il lettore a trarne, eventualmente, delle conclusioni. Per questo, L’olocausto armeno è, prima di tutto, un libro onesto, in mezzo a tante opere che, se non sono mendaci in senso stretto, sono, quanto meno, compiacenti verso l’una o l’altra dottrina. Ma all’autore queste compiacenze non sono mai interessate. Egli si limita a raccontare, in poche, puntuali e significative pagine, un passato terribile che si riverbera su di un presente che, per molti versi, non gli è preferibile. E come al solito, ci impartisce, forse senza saperlo, una lezione di sana ed autentica storiografia, cosa di cui gli siamo grati.

Marco Cimmino

‘Il massacro degli armeni è da considerarsi come il primo genocidio del XX secolo’.
Convenzione dei Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite.




mercoledì 6 novembre 2019

'Padre' Bergoglio si inginocchia alla Cina atea. Considerazioni, a latere, di Alberto Rosselli.


'Padre Bergoglio' acclamato dai suoi sostenitori cinesi.


Occidente e Cina - Cristianesimo e marxismo


“Il dialogo tra comunisti e cattolici è diventato possibile solo da quando i comunisti hanno iniziato a falsificare Marx, e i cattolici Cristo”.

(Nicolás Gómez Dávila)

La difficile convivenza tra Chiesa cattolica e regime comunista cinese, e soprattutto il tentativo (riuscito, grazie al Vaticano) di Pechino di ‘strutturare’ la fede cristiana in modo da adattarla in qualche modo alle esigenze ideologiche del Partito (papa Bergoglio si è dato molto da fare, abbastanza recentemente,  per consentire allo Stato ateo cinese di ‘inglobare’ ciò che rimaneva della ‘Libera Chiesa Cristiana) pone fine, semmai ce ne fosse stato bisogno, ad una vecchia e falsa vulgata, quella di una possibile ‘sovrapposizione’ per (falsa) similitudine tra la parola di Dio riportata nei Vangeli e quella di Marx ed Engels riportata nel Manifesto del 1948: tesi ed auspicio sostenuti da alcuni focosi ma alquanto confusi esponenti estremi della cosiddetta Chiesa della liberazione, come l’exl presbitero genovese Andrea Gallo, fondatore e animatore della comunità di San Benedetto al Porto di Genova.
Prima di affrontare lo spinoso. dibattuto e sempre attuale tema riguardante i rapporti e le suddette illusorie analogie tra cristianesimo e marxismo (ad esempio quello cinese), appare indispensabile porre una premessa, o meglio chiarire un punto. Occorre cioè distinguere l’essenza della cosiddetta società civile, quale espressione di una qualsivoglia struttura politico-organizzativa umana, dall’essenza della Chiesa in quanto espressione del cristianesimo, cioè di una fede religiosa. La prima entità, soggetta come è alle leggi dell’evoluzione storica e sociale, tende giocoforza - nel divenire del tempo - a trasformarsi; mentre la seconda, nella sua sostanza, tende invece a rimanere immutabile nello spazio temporale in quanto lo stesso concetto di tempo non le appartiene. Essa, infatti, non abbisogna di divenire o trasformarsi in quanto è e sussiste in Cristo e nella sua parola. In buona sostanza, la società civile si vede costretta per forza di cose a vivere in una dimensione prettamente terrena, contingente, cioè nella Storia, mentre l’istituzione ecclesiastica può, al di là delle apparenze, eludere questa costrizione possedendo la dimensione dell’Eterno che è Dio. Per questa ragione essa quindi avanza nei secoli vivendo sempre una medesima, immutabile realtà. Anche a dispetto di violente crisi, la Chiesa può fare conto su un suo secolo e su un suo tempo. Vive cioè nel mondo, ma non si nutre affatto del mondo.
Agli albori del XXI secolo, allo schiudersi di questo nuovo millennio denso di incertezze esistenziali, il Cristianesimo si trova ad affrontare un grave dilemma: adeguarsi alla mentalità di un epoca intrisa di materialismo e mondanità, mettendo da parte tutto ciò che caratterizza il suo credo in quanto religione (magari per ottenere nuovi spazi, per immergersi maggiormente nel sociale e per tentare di avvicinarsi di più alla gente risolvendone più che altro le ansie economiche, cioè le problematiche terrene), oppure può continuare a mantenere salda la propria, insostituibile e imprescindibile vocazione soprannaturale scontando con l’incomprensione e perfino con la persecuzione la fedeltà ai propri eterni principi. Data la natura e le finalità della religione cristiana, appare subito evidente che con il perseguire di eccessivi (seppure idealmente giusti) e arditi compromessi terreni i generosi fautori del Cristianesimo Sociale rischiano con la loro azione di sfigurare in realtà il vero volto della Chiesa, cioè quello di Cristo. Il Cristianesimo è e rimane, almeno per chi crede, una fede. Quindi, o lo si accetta in toto o lo si rifiuta in toto. In un epoca tecnologica in cui tutto è possibile e lecito, tutto è in sostanza diritto, mentre il dovere viene concepito come un faticoso optional, sussistono margini di discrezionalità o di capriccio assai ampi e impropri nell’affrontare e nel fare propria questa delicata scelta
Da decenni, alcuni intellettuali marxisti, post marxisti e cattolici progressisti sono infatti soliti proporre un’ipotesi assolutamente infondata. Se Gesù - essi sostengono - tornasse fra noi e decidesse di buttarsi in politica, si assocerebbe al credo egualitario marxista? Non sono infatti i comunisti una sorta di inconsapevoli cristiani in cerca a di una nuova Chiesa più “umana” e più giusta che soddisfi appieno le loro aspirazioni di eguaglianza? E in fin dei conti non sono sempre stati i seguaci di Marx a schierarsi in prima fila dalla parte dei poveri e a predicare la parità come in fondo fece Gesù? E ancora. Non è forse tempo che la Chiesa, che si è compromessa per lungo tempo con il Potere (almeno dall’ascesa al trono dell’imperatore Costantino), avvii un’opera di purificazione affinché ritrovi il vero senso del Vangelo?
Di fronte a questi interrogativi sorge però spontanea una contro domanda. Può in realtà sussistere la condizione di conciliazione reale tra cristianesimo e marxismo? Da un’attenta e non polemica analisi razionale sembrerebbe proprio di no, e con buona pace di quei cattolici “storicisti” che sono adusi ad interpretare il verbo evangelico in chiave esclusivamente sociale e terrena, tentando di depurarne la reale essenza trascendentale e metastorica.
Ma vediamo i motivi di tale incompatibilità di fondo. Tanto per cominciare la decisa negazione del concetto di “al di là”, caratteristica del credo marxista, annullerebbe di fatto uno dei pilastri della fede e rischierebbe di incidere, lentamente ma inesorabilmente, nei comportamenti intellettuali e fattuali del militante cattolico, soprattutto quello impegnato nel sociale, allontanandolo dal concetto di dogma e quindi di fede. Anche se, come è noto, dalla caduta del Muro di Berlino, cioè dalla fine del sogno comunista, i neo marxisti, ormai orfani di una chiesa materialista estinta, sono passati dal rifiuto a priori dell’oppio della religione ad un atteggiamento di graduale assimilazione dello stesso credo cristiano, facilitati in questa manovra proprio dalla ingenuità (in parecchi casi dalla connivenza) di molti cattolici impegnati nell’azione esclusivamente sociale e materiale. Comunque sia, partendo dal presupposto, ovviamente teorico, dell’esattezza delle analisi socioeconomiche marxiste, i teologi della “liberazione” non farebbero altro che accettare presupposti ideologici e che li condizionerebbero, cosicché quella che in ultima analisi dovrebbe essere una semplice integrazione o rivalutazione del pensiero cristiano tenderebbe, invece, di trasformarsi in una palese conversione dal cristianesimo al marxismo o a qualcosa di simile. Senza considerare che parlare oggi di marxismo è un po’ come parlare dell’esperanto e della sua utilità come strumento di comunicazione universale; significa cioè discutere circa l’utilità di una lingua in effetti reale, ma la cui applicazione pratica non risulta più che teorica, cioè impossibile.
Posto il valore ideale supremo di una rivoluzione sociale (ci riferiamo sempre a quella marxista in senso storico) che nel suo slancio emotivo ha preteso di attuarsi attraverso la lotta di classe e mediante il sovvertimento o la modifica di una scala sociale, l’idea di una contestuale attribuzione trascendentale nella quale immergersi (quella legata al credo cristiano), perderebbe inevitabilmente il suo significato; anche perché nella prassi e nell’azione ideologica, la stessa Verità piuttosto che “essere” (cioè come è intesa nel Vangelo) tenderebbe ad “attuarsi”, proprio nel contesto di un divenire puramente e limitatamente storico. Più precisamente, il primato esclusivo del divenire materiale sull’essere metastorico relativizzerebbe e vanificare tutti i valori metafisici del cristianesimo. Scompenso che si riscontrerebbe anche nella disamina del carattere trascendente della distinzione tra bene e male, laddove, secondo il materialismo, l’etica viene obbligatoriamente dissolta nell’azione sovvertitrice delle gerarchie e delle prassi socio economiche. E con questo, il passaggio all’immanentismo storicistico diventa quindi inevitabile. Dio inizia, erroneamente, ad essere identificato con la Storia intesa come travagliato processo di auto-redenzione dell’uomo tramite la lotta di classe. L’uomo e le sue idee prendono il posto di Dio e del suo progetto trascendente e salvifico. Anche se, come è noto, il cristianesimo non trova mai nella Storia il criterio della sua verità, ma al contrario lo ricerca nella Rivelazione: A differenza del marxismo (ma anche del liberismo) il cristianesimo non vive, infatti, nel tempo che scorre poiché questa fede nel suo profondo custodisce già una verità trascendente che si sottrae al ciclo morfologico delle culture e delle società: soggetti terreni che hanno per loro natura un inizio e una fine. Tutto infatti scorre, rimane soltanto la verità di Cristo. L’assolutizzazione della rivoluzione classista corrisponde poi ad una assolutizzazione della politica, dove ogni affermazione della fede e della teologia viene subordinata ad un criterio politico. In sintonia con l’opposizione marxista della “filosofia della prassi” a quella speculativa, i teoreti della liberazione sono soliti  sostituire l’ortoprassi all’ortodossia, con lo scopo di elevare il metodo rivoluzionario a criterio supremo della verità teologica. Di conseguenza, e non a caso, alla nozione di povero delle Sacre Scritture si è tentato (e si tenta ancora, anche se in maniera surrettizia) di sostituire quella marxista di proletario. Ma attenzione, la miseria del proletariato viene comunque intesa dai marxisti come una forza rivoluzionaria capace di creare una nuova società dopo averne distrutta un’altra, adoperando in questo contesto finalità e metodi assolutamente distanti e contrastanti dal pensiero di Cristo. La vagheggiata “Chiesa del Popolo” altro non è che una “Chiesa di Classe”, mentre, al contrario, la Chiesa è di tutti, poiché tutti gli uomini, poveri e ricchi, sono “figli di un unico riscatto”. La ragione di fondo che spinge ad una socializzazione della Chiesa sta nel fatto che il marxismo e certo cattolicesimo sociale considerano ancora la Chiesa universale e la teologia tradizionale come espressione di un organismo sostanzialmente reazionario e oppressivo. E sulla base di questa errata considerazione le cosiddette teologie della liberazione sono solite formulare risposte, ovviamente sbagliate, ad un problema a tutti gli effetti reale, cioè quello della povertà e dell’ingiustizia. Questione, quest’ultima, che, soprattutto in certe nazioni come quelle del Terzo Mondo, economicamente depresse o sfruttate da regimi militari (di destra e di sinistra) o da dittature capitaliste o comunque fondanti su quei concetti di modernismo e produttività riferibili sia al liberismo sia allo stesso marxismo, appare dolorosamente reale. D’altro canto, laddove i valori dello spiritualismo cristiano hanno ceduto il passo a quelli dello storicismo e del materialismo l’uomo ha cessato di fatto di essere persona ed unico irripetibile imboccando, in cambio di migliorie sociali ed economiche, il tunnel dell’incertezza. Allo stesso modo in cui un benestante cittadino europeo è solito barattare per un “cellulare” alla moda gli eterni valori derivanti dalla cultura ebraico-cristiana. Ciò che i marxisti e i cattolici della “liberazione” non sembrano comprendere è che il cristianesimo non ha nulla da imparare da alcuno o da chicchessia, se non dal verbo. E questo vale anche e soprattutto sotto il profilo della condotta sociale. I cattolici possono infatti contare su una propria, completa e soddisfacente “dottrina sociale” convalidata da un’esperienza secolare, a cominciare da S. Tommaso, passando poi per la Rerum Novarum e le varie Encicliche. Purtroppo, le Sacre Scritture vengono lette spesso con superficialità, e soprattutto decrittandole attraverso categorie interpretative della “propria epoca” per scovarvi una soluzione ad uno dei tanti drammatici problemi ‘materiali’ del momento. Storicizzando totalmente la portata del messaggio cristiano, molti tendono infatti ad eliminare dal Vangelo qualsiasi autenticità ed eternità. La parola di Dio, come è noto, si rivolge agli uomini di ogni contesto sociale ed epoca. Cristo, come sosteneva Kierkegaard, è il “contemporaneo di ogni epoca” in quanto non coincide con nessuna epoca, cioè non coincide con il tempo. Tentare di rendere “contemporaneo” il Vangelo, cercare di storicizzarlo a tutti i costi, non significa santificarlo nel modo giusto, ma al contrario attualizzarlo e quindi annullarlo. Senza considerare che Gesù, nelle sue predicazioni, non ha mai inteso distruggere o sovvertire alcun sistema sociale. Egli proclamò la sua fedeltà alla Legge di Dio che non voleva certo abolire, ma al contrario completare ed osservare (lo testimoniano gli scritti di Matteo e Luca). Il non ben compreso episodio del “tributo” e la snobbata (poiché non politicamente corretta) parabola dei talenti forniscono l’immagine di un Cristo egualmente lontano sia dai “collaborazionisti” sadducei e dagli “ambigui” farisei che dai “rivoluzionari” zeloti. Anche se in più occasioni Gesù lancia pesanti strali contro l’iniquità dell’ingiustizia sociale (“Guai ai ricchi…”). Ma pur tuttavia questa sua condanna non viene compiuta da un punto di vista sociale, ma religioso in quanto Egli non pensa affatto ad una rivoluzione sociale e quindi “storica”, bensì interiore, anche se da essa si possono auspicare positive conseguenze sociali. Come insegnano le scritture, Cristo non è venuto sulla terra per sovvertire un determinato ordinamento politico-sociale; Egli vi è giunto - gesto unico e metafisico - per redimere i peccatori e liberare l’uomo dalle catene del male. Ciò che, come è noto, Gesù condanna non è un ordine socio-politico come quello imperiale romano, ma “l’attaccamento ai beni di questo mondo”. In quest’ottica, il cristianesimo è una vera Rivoluzione, epocale, ma soltanto nel senso che allontana i cuori degli uomini dal mondo, cioè dalla materia, per chiamarli a Dio. E in questo senso, forse, trattasi più di una Conversione che di una Rivoluzione. Gesù, infatti, raccomanda agli uomini la fede nella Provvidenza e li esorta ad accontentarsi del minimo indispensabile. Egli ammonisce - è vero - i ricchi ed esalta i poveri, in ispirito. Ma attenzione, i poveri evangelici non sono affatto i “non ricchi” desiderosi di diventarlo. Non si tratta quindi di poveri in senso sociologico, ma in senso religioso. Si tratta di coloro i quali hanno scelto liberamente la povertà in maniera solare, come S. Francesco. La povertà annunciata da Gesù è sempre gioiosa e volontaria e agli uomini illuminati che l’hanno scelta la lotta di classe non si addice affatto. In questo contesto, in Cristo si colgono alcune anticipazioni precristiane socratiche e platoniche. Ma anche a tal riguardo gli equivoci da parte dei teorici marxisti non mancano. Essi hanno intravisto infatti in alcuni testi contenuti nella “Repubblica” di Platone una traccia di comunismo, dimenticando che l’eguaglianza marxista ha uno scopo prettamente economico, mentre quella platonica si fonda, similmente a quella evangelica, alla rinuncia spontanea ai beni terreni. Trattasi di una prescrizione per saggi o per uomini spiritualmente superiori alla media, cioè migliori nella loro singolarità. In altre parole, l’eguaglianza platonica non ha alcun fondamento materialistico, bensì spiritualistico e morale. Il filosofo greco, ispiratore, per certi versi, della teologia cristiana, guarda in sostanza alle Idee, mentre i marxisti, ma anche i capitalisti, i globalizzatori e gli anti globalizzatori guardano soltanto alla Terra. Osservare il Cielo è diventata un’inutile fatica o meglio una possibilità come tante altre. E ciò che più incuriosisce è che a sostenere questa tesi sono i cattolici progressisti più degli stessi marxisti che, in quanto atei, sono in qualche modo giustificati ad assumere questa posizione.
Ma torniamo a Gesù. Egli, è vero, amò frequentare i poveri e gli emarginati, ma anche i ricchi, i gabellieri e i soldati. E quando Maria di Betania, colta nell’ungere i capelli di Cristo con olio prezioso, venne accusata da un gruppo di seguaci di avere sperperato “trecento denari” che si sarebbero potuti donare ai poveri, Gesù così rispose: “I poveri li avrete sempre, me, invece, non mi avrete sempre” (Matteo, Marco, Giovanni).
Insomma, trovare identità di vedute tra il Vangelo, il dogma marxista o l’escamotage cattolico-sociale appare impresa ardua. Basti pensare al concetto di “amore per i nemici”, presente in tutti i Vangeli. Ben difficilmente tale sovrumano concetto potrebbe accordarsi a quello di lotta di classe (professato apertamente anche da taluni preti del “dissenso”), ma anche di liberalismo economico. Teorie queste ultime che come è ovvio si basano su un sottinteso concetto di “supremazia” che non ha nulla a che vedere con la parola di Cristo. L’inconciliabilità appare indiscutibile, sia sul piano dottrinale che pratico. Ritornando alla inesatta interpretazione del Vangelo compiuta dai marxisti ricordiamo che le Sacre Scritture vanno sempre assunte in toto et sine glossa; cioè non vanno interpretate attraverso la lente deformante del contingentismo storico. Interpretare il cristianesimo come una sorta di semplice messaggio sociale e rivoluzionario risulta infatti un puro e semplice non senso, anche perché il cristianesimo, sic et simpliciter, non si interpreta. Esso non è un credo sociale o antisociale, non fa riferimento ad un semplice condottiero, un politico o a un sindacalista, ma addirittura ad un Redentore. L’idolatria del sociale si rivela, in ultima analisi, come una conseguenza del travisamento della figura del Cristo, della sua riduzione sociologica, dimenticando che Gesù considerò sempre il potere politico alla stregua di una tentazione diabolica (Matteo e Luca). Al Messia interessa, insomma, la Rivoluzione Interiore, ossia la Conversione. Egli propugna una salvezza escatologica. Ed è soltanto questo carattere di genuina, innovativa Rivoluzione Interiore che interessa il singolo nella sua unicità che potrà in futuro preservare il cristianesimo dalla fallimentare sorte toccata ad ogni rivoluzione sociale: quella di degenerare inevitabilmente nella violenta repressione e nell’inganno, suscitando reazioni altrettanto violente e portatrici di altrettanto falsi valori. “Ogni rivoluzione - scrisse Albert Camus - per essere creatrice non può fare a meno di una norma morale e metafisica che ne equilibri il delirio storico”.
Nell’ambito di questa breve analisi, un altro punto risulta fondamentale. L’atteggiamento del cristianesimo nei confronti dell’impegno socio-politico è necessariamente critico in quanto Gesù non accetta la società, ma non la condanna neppure (“Date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”). Mentre, al contrario, l’accettazione totale della politica e dell’ideologia rientra in una prassi acritica. Ma come si è accennato non sono le dispute terrene ad interessare a Gesù il cui compito è quello di aprire la strada ad un Regno futuro, metafisico. E d’altra parte agli occhi del Salvatore tutte le istituzioni mondane sono per loro natura intrinseca provvisorie e caduche e non suscettibili di fondamentali miglioramenti, anche perché sostituibili con altre istituzioni egualmente negative e provvisorie. Tentare quindi di ridurre il Vangelo ad un semplice messaggio sociale, ad una sorta di pseudo manifesto politico, significa distorcerne il suo significato più profondo e interpretarlo attraverso un sistema di categorie sostanzialmente anticristiane. La Chiesa non può quindi essere marxista, ma nemmeno capitalista, poiché entrambi questi sistemi storici non sono stati capaci di assicurare a tutti gli uomini i diritti fondamentali professati da Cristo. Ma a quanto pare l’Occidente sembra essersi fatto sordo alla parola del Salvatore: non a caso la deforma, la adultera, la scompone, la tradisce, ne fa oro per gli sciocchi, secolarizzandone il contenuto. “In seguito alla morte di Dio, tutti i falsi profeti si considerano eredi di Dio”. Di qui le nuove, fragili escatologie proiettate in un futuro esclusivamente mondano; di qui il proliferare di improbabili, nuove dottrine basate sul Relativismo spinto, sul Nichilismo ateo, e di mode globalizzatrici e antiglobalizzatrici, frutto anch’esse della storicizzazione radicale del cristianesimo; di qui la corsa folle verso il relativismo, l’utopia della tecnologia e del profitto, nell’illusione collettiva di avere imboccato una facile scorciatoia in nome di una sorta di “antropocentrismo illuminato”, utile forse a garantire interessi diplomatici e commerciali, a tutelare gli investimenti, i salari, le pensioni, i derelitti e i panda cinesi, ma a mantenere comunque l’uomo nella sua permanente e sostanziale incertezza esistenziale. E probabilmente - almeno per chi ha fede - nel peccato.