venerdì 11 novembre 2022

Riflessioni.

 Il cosiddetto 'Pensiero Debole', nota corrente filosofica che tanto abbaglia il mondo progressista, fa assurgere, proprio per il suo stesso essere, il niente a Verità, relegando il coraggio ad una sorta di malessere dell'animo. Essere imbelli e proni, abbassarsi come canne al vento, diventa il soul di un non agire: viatico perfetto per chi desideri essere schiavo e non uomo libero.

Libri e articoli.


 

Il “Grande Gioco” e il “fattore Afghanistan”. Di Alberto Rosselli.

Arthur Conolly (ritratto).

Per comprendere appieno il valore geopolitico della contesa centro-asiatica, prima tra Gran Bretagna e impero russo e poi tra Russia, Stati Uniti, Turchia, Iran e perfino Cina, occorre soffermarci nuovamente sulle strategie adottate nel tempo dalle potenze in lizza per il predominio sull’Asia Centrale e sulle regioni limitrofe: stati che, volenti o nolenti, si trovarono coinvolti nel cosiddetto “Grande Gioco”.

L’espressione “Grande Gioco” venne coniata nella prima metà del XIX secolo dall’ufficiale dell’esercito britannico Arthur Connolly per definire lo strisciante conflitto, mai esplicito e fatto soprattutto di azioni spionistiche e di alleanze strategiche, tra Gran Bretagna e Russia per il controllo del Medio Oriente e dell’Asia Centrale. Pur trovandosi, all’inizio del XIX secolo, alleate contro Napoleone Bonaparte, Inghilterra e Russia ebbero sempre rapporti difficili proprio per la contesa in atto per il predominio sugli immensi territori centro-asiatici confinanti con l’India. Tensioni che culminarono con le prime due guerre anglo-afghane: quella del 1839-1842, che si concluse con la distruzione di un intero esercito britannico, e quella del 1878-1880, scoppiata in seguito al rifiuto dell’emiro Shir Alì di accettare l’invio di una missione britannica a Kabul. Questo scontro, che consentirà all’emiro Abdur Rahman Khan di salire sul trono afghano, permetterà una momentanea pacificazione del territorio e, nel 1887, la firma dell’intesa russo-inglese relativa alla delimitazione dei confini tra Afghanistan e Turkestan russo.

In questi ultimi anni, la locuzione “Grande Gioco” è tornata in voga per identificare le azioni geopolitiche e militari di USA e Russia per il controllo dell’area centro-asiatica, dalle ex repubbliche sovietiche (Azerbaigian, Turkmenistan, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan) fino ad Afghanistan e Pakistan. Uno dei massimi studiosi di geopolitica, Harold Mackinder (1861-1947), sosteneva che chi detiene la potestà d’imperio sulla zona centrale controlla il continente eurasiatico e che chi ha il potere su quest’ultimo è in grado di dominare il mondo. Opportunità che, attualmente, sia la Russia che gli Stati Uniti non vorrebbero farsi sfuggire. La teoria di Mackinder venne illustrata per la prima volta nell’articolo The Geographical Pivot of History (Il perno geografico della storia) presentato il 25 gennaio 1904 alla Royal Geographical Society e successivamente pubblicato dal Geographical Journal.

Occorre però ora ripercorrere, almeno a grandi linee, gli ultimi ottant’anni di storia dell’Afghanistan, paese, assieme all’Iran, dal quale direttamente o indirettamente sono dipese (e continuano a dipendere) le sorti delle regioni centro-asiatiche oggetto del nostro studio.

Dalla fine del XIX secolo al 1918, l’Afghanistan godette di una relativa tranquillità. paese neutrale, nonostante le simpatie espresse durante la Prima Guerra Mondiale nei confronti degli Imperi Centrali (Germania in primis) da parte della popolazione, l’Afghanistan ([1]) venne governato nell’ordine da Abdur Rahman, dal figlio Habibullah, assassinato nel 1919, probabilmente da alcuni membri della famiglia reale che lo ritenevano troppo remissivo nei confronti dell’Inghilterra, che aveva appoggiato l’avvento al trono del padre, e da Amanullah che riconquistò il controllo della politica estera afghana (gestita per anni da Londra), dopo aver provocato, sempre nel 1919, con un attacco all’India, la terza guerra anglo-afghana, al termine della quale Londra preferì rinunciare definitivamente al controllo sulla politica estera di questo paese afghana, stipulando nell’agosto 1919 il Trattato di Rawalpindi.

Affrancatosi di fatto dai britannici, re Amanullah (1919-1929) pose fine al tradizionale isolamento dell’Afghanistan del suo paese e stabilì relazioni diplomatiche con numerose nazioni. Tra il 1920 e il 1922, in occasione della grande rivolta antibolscevica dei basmachi musulmani del Turkmenistan (di cui parleremo più avanti), pur parteggiando idealmente per questi ultimi, Amanullah preferì non scendere apertamente in campo per non mettersi contro Mosca. Dopo avere visitato, nel 1937, la Turchia, prese a modello il sistema laicista e modernista di Kemal Atatürk, introducendo l’abolizione del velo islamico per le donne e favorendo l’apertura di scuole miste: iniziative che gli alienarono le simpatie di molti capi tribali e religiosi che nel gennaio 1929 lo costrinsero ad abdicare, anche in concomitanza con la conquista di Kabul da parte delle bande del fuorilegge tagiko Bacha-i-Saqao.

Il successore di Amanullah, il principe Mohammed Nadir Khan suo cugino, riprese il controllo del paese, sconfisse nell’ottobre del ‘29 Bacha-i-Saqao e, grazie all’appoggio delle tribù di lingua pashtun, ascese al trono con il nome di Nadir Shah. Temendo le sette religiose, egli abolì le riforme di Amanullah in favore di un approccio più graduale alla modernizzazione, ma malgrado tutto ciò, nel 1933, fu assassinato. Gli successe suo figlio Mohammad Zahir Shah destinato a regnare per molto tempo, dal 1933 al 1973. Durante la Seconda Guerra Mondiale, il sovrano (che fino al 1946 si avvarrà dell’assistenza dello zio Sardar Mohammad Hashim Khan, che in qualità di primo ministro continuerà le politiche di Nadir Shah) mantenne il paese neutrale, pur parteggiando con buona parte del popolo per la causa della Germania nazista. Anche durante la Seconda Guerra Mondiale, lo spionaggio tedesco inviò diversi emissari in Afghanistan per cercare, seppur inutilmente, di convincere il sovrano a schierarsi apertamente con l’Asse in funzione anti-inglese.

Nel 1964, Zahir Shah promulgò una costituzione liberale, inaugurando un parlamento bicamerale. L’esperimento democratico di Zahir produsse poche riforme durature ed in compenso permise la crescita di partiti estremisti non riconosciuti, sia a destra che a sinistra. Tra questi, il Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan (PDPA), di ispirazione dichiaratamente comunista e con stretti legami ideologici con l’Unione Sovietica. Nel 1967, il PDPA si spaccò in due fazioni rivali: la fazione Khalq (“Popolo”) capeggiata da Nur Muhammad Taraki e da Hafizullah Amin e sostenuto da elementi interni all’esercito, e la fazione Parcham (“Bandiera”) guidata da Babrak Karmal. La spaccatura rifletteva le divisioni di classe, etniche e ideologiche della società afghana.

Il 17 luglio 1973 l’ex primo ministro Mohammed Daoud Khan conquistò il potere con un colpo di stato militare e Zahir Shah dovette fuggire dal paese, trovando alla fine rifugio in Italia. Daoud abolì la monarchia, abrogò la costituzione del 1964, e proclamò la repubblica, autonominandosi presidente e primo ministro. I suoi tentativi di portare a compimento le più urgenti riforme economiche e sociali incontrarono scarso successo, e la nuova costituzione promulgata nel febbraio 1977 sortì scarsi consensi. Approfittando della pessima situazione economica, il 27 aprile 1978, il PDPA effettuò un violento golpe che si concluse con il rovesciamento e l’assassinio di Daoud e di gran parte della sua famiglia. Nur Muhammad Taraki, segretario generale del PDPA, divenne così presidente del Consiglio rivoluzionario e primo ministro di una Repubblica Democratica dell’Afghanistan fortemente sostenuta e asservita all’Unione Sovietica.

Il PDPA mise in atto un programma di governo che comprendeva l’abolizione dell’usura, il divieto dei matrimoni forzati, il riconoscimento del diritto di voto per le donne, la sostituzione delle leggi tradizionali e religiose con altre laiche e marxiste, la messa al bando dei tribunali tribali e la riforma agraria. Gli uomini furono obbligati a tagliarsi la barba, alle donne fu proibito il burqa, e a tutti fu vietato di entrare nelle moschee. L’URSS inviò a Kabul ingenti mezzi, tecnici e militari per costruire strade, ospedali e scuole, per scavare pozzi d’acqua e per addestrare ed equipaggiare l’esercito afghano. Le riforme e il monopolio del PDPA sul potere iniziarono ad essere duramente contrastati dai membri della classe dirigente tradizionale che diede vita ad un movimento di resistenza. Ma il governo rispose con estrema durezza mandando in esilio e giustiziando molti mujaheddin,  i “guerrieri santi dell’islam” (mujaheddin è il plurale di mujahid che in lingua araba significa “combattente”)

A partire dal 24 dicembre 1979, l’Unione Sovietica inviò in Afghanistan un enorme quantitativo di soldati e mezzi militari per per sostenere un nuovo governo alleato di Mosca e per soggiogare di fatto l’intero paese. Il 25 dicembre dello stesso anno l’esercito sovietico entrò a Kabul, dando inizio ad una vera e propria occupazione militare che si concluderà, dopo alterne vicende e grande spargimento di sangue (1,5 milioni di militari e civili afghani uccisi, tre milioni di feriti e mutilati e cinque milioni di profughi) il 15 febbraio 1989 con la sconfitta e il completo ritiro delle truppe russe che lasciarono sul campo 13.833 soldati e un ingente quantitativo di armi e mezzi.

Come è noto, per oltre nove anni, l’Armata Rossa condusse operazioni militari contro i mujaheddin afghani ribelli, appoggiati dalla CIA, dal Pakistan e dall’Arabia Saudita. Un personaggio destinato a diventare molto famoso, Osama Bin Laden, fu uno dei principali organizzatori e finanziatori dei mujaheddin. Il suo Maktab al-Khadamat (MAK, “Ufficio d’Ordine”) forniva infatti ai ribelli denaro, armi e volontari musulmani provenienti da tutto il Medio Oriente. Il tutto grazie all’assistenza e il supporto dei governi americano, pakistano e saudita. Nel 1988 Bin Laden abbandonò il MAK insieme ad alcuni dei suoi membri più militanti per formare l’organizzazione Al-Qaida (la Base), con lo scopo di espandere la lotta di resistenza antisovietica, per creare un nuovo Movimento fondamentalista islamico mondiale, antioccidentale e antirusso.

Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, il 18 aprile 1992 il governo Najibullah fu rovesciato e Abdul Rashid Dostum si alleò con Ahmad Shah Massoud per riprendere il controllo del paese e per proclamare la Repubblica Islamica dell’Afghanistan. Quando i mujaheddin vittoriosi entrarono a Kabul per assumere il controllo della città e del governo centrale, cominciarono però le lotte intestine tra le diverse fazioni, che avevano convissuto con difficoltà durante l’occupazione sovietica. Con la scomparsa del loro comune nemico, le differenze etniche, religiose, personali e di clan delle milizie riemersero nuovamente, scatenando  una dura guerra civile che sfociò nella presa del potere, alla fine del 1988, da parte dei talebani (movimento settario ultra-puritano, fortemente influenzato dal pensiero wahabita saudita, propugnatore di una guerra permanente contro gli infedeli e gli altri musulmani, soprattutto sciiti) che ormai controllavano la quasi totalità del paese, tranne una piccola porzione di territorio, prevalentemente abitato da tagiki, nel nord-est e nella valle del Panshir.

Per reazione, l’opposizione formò l’Alleanza del Nord, che continuò a ricevere il riconoscimento diplomatico all’interno delle Nazioni Unite come il legittimo governo dell’Afghanistan. In risposta agli attentati negli Stati Uniti dell’11 settembre 2001, e all’assassinio del leader partigiano antitalebano Ahmad Shah Massoud, gli USA e una coalizione di alleati lanciarono una riuscita invasione dell’Afghanistan abbattendo il governo estremista islamico talebano. Sotto l’egida dell’ONU, le fazioni afghane si riunirono a Bonn e scelsero un’autorità provvisoria di 30 membri, guidata da Hamid Karzai. Dopo sei mesi di governo, l’ex re Zahir Shah convocò una Loya Jirga (grande assemblea del popolo afghano, originariamente aperta solo ai gruppi pashtun, ma che in seguito ha aperto le sue porte anche ai rappresentanti di altre etnie) elesse presidente Karzai e gli diede l’autorità di governare per altri due anni. Nato a Kandahar, Karzai proviene da una famiglia di etnia pashtun, una fra le maggiori sostenitrici del re Zahir Shah e parte dell’influente clan Popalzay. Anche per questo motivo Karzai si ritrovò molto presto coinvolto nelle questioni politiche afghane. In precedenza, dal dicembre 2001 Karzai aveva svolto il ruolo di capo dell’amministrazione transitoria afghana e, dal 2002, quella di presidente ad interim. Il 9 ottobre 2004 Karzai è stato confermato capo dello stato nelle prime elezioni presidenziali dirette della storia dell’Afghanistan. Oggi assistiamo, tuttavia, alla rinascita del movimento armato talebano: fenomeno che ha indotto gli USA e i suoi alleati ad intensificare la presenza militare in Afghanistan in difesa del legittimo governo moderato del leader Karzai.

L’importanza geografica, strategica ed economica dell’Asia Centrale

Dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica e  soprattutto in concomitanza della prima e seconda Guerra del Golfo (1991, 2001), gli Stati Uniti, fedeli alla teoria di Mackinder, hanno cercato di porre una sorta di ipoteca su alcune repubbliche centro-asiatiche e in particolare sul Tagikistan, ma anche sulla zona caucasica (vedi l’Azerbaigian).

Non a caso, secondo molti analisti, il destino degli USA come potenza mondiale dipenderà in buona misura dalle capacità di Washington di affrontare i complessi equilibri di forza euroasiatici, scongiurando soprattutto l’emergere di una realtà politica predominante e magari antagonista in questa vasta regione. Va notato in proposito che in quest’ultimo decennio anche Russia, Cina, Iran, Turchia, Arabia Saudita – ed in misura minore e con modalità diverse, l’Unione Europea – hanno cercato (e di fatto tutt’ora cercano) di ancorare al proprio carro una o più repubbliche centro-asiatiche, soprattutto quelle maggiormente ricche di petrolio e gas naturale. Secondo gli esperti di problemi energetici, una volta esauriti i pozzi mediorientali – eventualità che dovrebbe concretizzarsi entro venti, massimo trent’anni – saranno proprio le “riserve” di idrocarburi dell’Asia Centrale a giocare un ruolo decisivo per l’intera umanità. Va da sé che proprio per questa ragione quest’area è destinata ad attrarre e a fare probabilmente confliggere gli interessi delle principali potenze economiche e militari mondiali, e quelle regionali ad essa limitrofe


[1] Nel 1915, l’agente segreto Oscar Niedermayer e il diplomatico Werner-Otto von Hentig furono inviati dal Kaiser a Kabul per cercare di convincere l’emiro Habibullah a scatenare un’offensiva contro l’India britannica. A Kabul, i due rappresentanti tedeschi incontrarono anche due rivoluzionari indiani, Mohammed Barakatullah e Kumar Mahendrah Pratap, che stavano tentando di ottenere dall’’emiro il permesso di insediare a Kabul un governo provvisorio indiano anti-inglese. Tuttavia, temendo una reazione britannica, alla fine Habibullah preferì lasciare cadere nel vuoto sia le richieste indiane che tedesche, inducendo gli agenti del kaiser a fare ritorno a Berlino nella primavera del 1916.

domenica 6 novembre 2022


Gli articoli più recenti apparsi sulla Rivista telematica 'Storia Verità' (www.storiaverita.org).
 
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A Novembre in libreria. ‘I violatori di blocco’ italiani, Storia di Uomini e Navi. Prefazione di Marco Cimmino.
L’Inverno della Storia contemporanea. A proposito di Chiara Frugoni e del suo metodo. Di Giuseppe Moscatt.
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Novità in libreria. Mattioli Editore 1885. Sito web: https://mattioli1885.com/
L’Imperiale Regia Marina Veneta. Con il tramonto della Repubblica di Venezia, nel 1797, cessa di esistere di fatto anche la flotta che doveva tutelare la supremazia della Serenissima. Di Gualtiero Scapini Flangini.
La resistenza antisovietica in Ucraina, 1944-1956. Di Alberto Rosselli.
“Cancel culture”, ovvero squilli di pseudo storia. Di Giuseppe Moscatt.
Giovanni Battista Boetti, frate ma non solo. Personaggio multiforme: religioso domenicano, esploratore, viaggiatore, seduttore, condottiero militare e molto altro. Di Roberto Roggero.

 

 

L’Europa alla deriva. 'Quando il laicismo si fa religione'. (Fonte: Rivista 'Storia Verità', Dicembre 2017).
 
di Alberto Rosselli
 
Predomina ormai in Occidente una nuova pseudocultura laicista che vorrebbe porsi come ‘credo’ universale e autosufficiente, generando un nuovo costume di vita e una nuova morale. Una cultura per la quale risulta razionalmente valido soltanto ciò che è sperimentabile e calcolabile, mentre sul piano della prassi la libertà individuale viene eretta ed imposta alla stregua di un valore metafisico fondamentale ed intaccabile. Di conseguenza, dio rimane escluso dalla vita pubblica, e la fede diventa addirittura un optional, anche perché il mondo in cui viviamo viene presentato quasi sempre come opera e conseguenza della sola volontà umana, come ‘creazione’ laica nella quale le religioni – ad esempio, il cristianesimo, il credo europeo per eccellenza - vengono rappresentati da questa specie di nuovo deismo panteistico ipercritico alla John Toland (ma fino a che punto gli attuali soloni laicisti sono al corrente dell’opera del filosofo nord-irlandese vissuto a cavallo tra il XVII e il XVIII secolo?), come punti di riferimento ‘non culturali’: concetti superati, superflui, e di intralcio al ‘progresso’.
La discutibile presa di posizione della Corte europea (tra i cui membri spicca pure il nome di un giudice turco: fino a prova contraria, non ci risulta che la Turchia faccia già parte della UE) nei confronti del simbolo del cristianesimo, cioè, l’abolizione del Crocifisso in nome di un esasperato anelito laicista, va purtroppo a minare il fondamento stesso di una Civiltà – non solo di una Religione - quella continentale, che nel corso dei secoli proprio dal cristianesimo ha tratto valori ampiamente condivisi da una vasta seppure variegata e talvolta litigiosa aggregazione di nazioni. In nome del laicismo e del relativismo filosofico e culturale, la Corte europea ha tuttavia annullato questa pratica esperienza, sentenziando con grande disinvoltura la presunta inutilità di uno dei valori fondanti del nostro modo di essere e di concepire la vita: atto destinato a provocare gravi ripercussioni e, soprattutto, a creare un precedente a dire poco imbarazzante. In nome di un multiculturalismo tendenzialmente demagogico che nulla a che fare con il vero progresso, le forti lobbies laiciste ed atee che largo potere esercitano all’interno delle istituzioni europee, hanno quindi deciso (ma – alla luce delle violente e comprensibili reazioni popolari scatenate - bisognerà vedere se ci riusciranno) di sbarazzarsi di un simbolo che, aldilà dei suoi significati metafisici, rappresenta la Storia, o meglio l’anima della Storia di un Continente. Ciò che più colpisce di questo puerile, ma pernicioso colpo di mano promosso dagli epigoni di un mal assimilato credo illuminista è e rimane la superficialità con la quale esso è stato compiuto: superficialità tipica della mentalità relativista. Ciò che i giudici europei non sembrano avere colto è infatti la netta distinzione esistente tra due termini, in senso positivo e negativo: pluralismo e, appunto, relativismo laicista. Come ebbe modo di sottolineare il 17 gennaio 2003 - nella nota dottrinale sull’impegno dei cattolici in politica (documento pubblicato dalla congregazione per la dottrina della fede)- l’allora cardinale Joseph Ratzinger, in politica il pluralismo è un concetto lecito e naturale in quanto in relazione alle molteplici questioni ‘politiche’ dibattute non esiste mai una risposta preconfezionata e condivisa, ma, al contrario, sussistono diverse possibilità di operare su base pratica e possibilmente etica, mentre il relativismo (in quanto prassi culturale e filosofica applicata anche alla politica) ha la pretesa di affermare che non esistendo alcuna verità etica e morale assoluta e vincolante per la coscienza, le risposte ai problemi possono esimersi dal tenere in debita considerazione la sfera spirituale dell’individuo, unico artefice del progresso, della libertà e della felicità. Ora, pur lasciando agli uomini di Chiesa e di fede ogni giudizio circa la necessità – si veda il ‘caso’ del Crocifisso – di conservare gli elementi fondanti della tradizione religiosa, ogni individuo non necessariamente di fede- ma realmente tollerante - non può fare a meno di riflettere circa l’intrinseca pericolosità di un credo laicista portatore di ‘valori’ che di fatto vengono imposti con la forza, non ‘offrono’, o lasciano scegliere. Trattasi, infatti, di una nuova ‘religione storica’ e contingentista quella neolaicista europea, che è legata unicamente all’evolversi di un antropocentrismo spinto, svincolato da ogni naturale anelito e riferimento metafisico e metastorico: una religione materialista a tutto tondo che, sbandierando il vessillo della democrazia, tende, paradossalmente, a sopprimere ogni libertà. Proseguire su questa strada, cioè permettere di continuare a supporre – come fanno i laicisti – che il vero pluralismo combaci con il relativismo, significa per l’Europa perdere i fondamenti dell’umanesimo e della stessa democrazia che, come si sa, si basano sul rispetto di norme condivise (non soltanto giuridicamente, ma culturalmente) a tutela della giustizia e della verità. Conseguente, in questo senso (ci si consenta una breve divagazione: la distinzione tra la laicità (necessaria, delle istituzioni) e il laicismo, inteso come esasperazione del concetto ‘storico’ di esistenza: credo ateo secondo il quale i contenuti morali cristiani debbono essere totalmente esclusi dalla politica, o dalle istituzioni. Alla luce della sentenza della Corte europea - sciagurata e paradigmatica (anzi, sintomatica) - non sono dunque soltanto i religiosi, ma i difensori della Ragione Illuminata (non illuminista), cioè i laici che hanno a cuore la Tradizione occidentale a dover scendere in campo. In gioco vi è infatti il futuro non soltanto economico o sociale, ma morale di un Continente che, nel corso dei secoli, sui fondamenti della filosofia cristiana ha costruito le sue alterne - ma in realtà uniche -vere fortune. I valori metastorici del Vangelo, se ben compresi ed assimilati, rappresentano, infatti, un’opportunità di crescita morale e culturale, non certo un pericolo per la democrazia o il progresso. Anzi, essi responsabilizzano e orientano gli individui, chiarendo dubbi e soprattutto dissipando equivoci derivanti dalla finta e speculativa contrapposizione tra ragione e religione. Contrariamente alla cultura laicista per la quale il concetto di ‘neutralità’ e di agnosticismo coincidono di fatto con un modernismo ateo incatenato al ‘contingente’ e al banale, anche se ineluttabile, ciclo morfologico di culture senz’anima che mai potranno trasformarsi in Civiltà.