domenica 15 dicembre 2019

'La rivolta nazionalista irachena del 1941 - Antefatto dei conflitti che hanno sconvolto il Paese mediorientale', di Alberto Rosselli. Edizioni Mattioli 1885, Fidenza (PR).



 Cover del testo.


Sommario

Prefazione  di Fabio Bozzo                                                                          

Breve storia dell’Iraq, dalle origini fino agli anni Trenta/Quaranta del Novecento                
Brevi cenni geografici, idrografici e morfologici del Paese                            
Cenni etnico-religiosi                                                                    
L’Iraq post ottomano, il ‘mandato’ britannico e il fattore petrolio                         
L’importanza economica e geopolitica dell’Iraq nel corso della Storia                  
La Germania nazista e l’Italia fascista guardano con interesse al Medio Oriente            
Rashid Ali e il suo progetto indipendentista                                                  
La grande rivolta del 1920                                                                      
I volontari sceriffiani appoggiano Rashid Ali                                                 
Il ruolo della Francia di Vichy                                                               
L’esercito iracheno passa all’offensiva e attacca la base inglese di Habbaniyya              
I britannici prendono l’iniziativa                                                           
I britannici liberano Habbaniyya, conquistano Falluja e puntanosu Baghdad               
Verso Baghdad e il nord del Paese: la strategia britannica                            
La grande persecuzione anti ebraica                                                              
Il sogno indipendentista di Rashid Ali svanisce nel nulla                             
L’Iraq allo stato attuale                                                                          

Appendice
         Iraq: cronologia storica dal 1920 al 2002                                      
         Il panarabismo                                                                    
         Il panislamismo                                                                         

Note                                                                                     

Bibliografia                                                                                   
 
Sitografia  

domenica 8 dicembre 2019

Appuntamenti culturali a Genova. 'I costi del malessere sociale'.


Locandina.



San Tommaso e Aristotele. Brevi considerazioni di Alberto Rosselli.

San Tommaso d'Aquino.


Qualche asino si stupisce dell’interesse di San Tommaso per Aristotele e per la sua filosifia, accusandolo persino di mutare il vino della Sacra Scrittura nell’acqua della filosofia; egli risponde che, al contrario, egli converte l’acqua della filosofia nel vino della Scrittura. La sacra dottrina di Tommaso non si ritroverà alterata da Aristotele; sarà Aristotele a ritrovarsi “filosofo cristiano”. Da un lato, il dottore angelico è convinto che «ogni verità, da chiunque venga affermata, proviene dallo Spirito Santo», essendo Dio l’unica fonte della verità, sia essa naturale o rivelata (e Tommaso ha una grande stima dell’intelligenza e della ragione). Dall’altro lato, non teme di dichiarare che «una vecchietta ora sa di più nel campo della fede, che non una volta tutti i filosofi. La fede è molto più potente della filosofia, per cui, la filosofia non va accolta, se in contrasto con la fede».

domenica 1 dicembre 2019

L’Europa alla deriva. 'Quando il laicismo si fa religione'. (Fonte: Rivista 'Storia Verità', Dicembre 2017).



L’Europa alla deriva. 'Quando il laicismo si fa religione'. (Fonte: Rivista 'Storia Verità', Dicembre 2017).

di Alberto Rosselli

Predomina ormai in Occidente una nuova pseudocultura laicista che vorrebbe porsi come ‘credo’ universale e autosufficiente, generando un nuovo costume di vita e una nuova morale. Una cultura per la quale risulta razionalmente valido soltanto ciò che è sperimentabile e calcolabile, mentre sul piano della prassi la libertà individuale viene eretta ed imposta alla stregua di un valore metafisico fondamentale ed intaccabile. Di conseguenza, dio rimane escluso dalla vita pubblica, e la fede diventa addirittura un optional, anche perché il mondo in cui viviamo viene presentato quasi sempre come opera e conseguenza della sola volontà umana, come ‘creazione’ laica nella quale le religioni – ad esempio, il cristianesimo, il credo europeo per eccellenza - vengono rappresentati da questa specie di nuovo deismo panteistico ipercritico alla John Toland (ma fino a che punto gli attuali soloni laicisti sono al corrente dell’opera del filosofo nord-irlandese vissuto a cavallo tra il XVII e il XVIII secolo?), come punti di riferimento ‘non culturali’: concetti superati, superflui, e di intralcio al ‘progresso’.
La discutibile presa di posizione della Corte europea (tra i cui membri spicca pure il nome di un giudice turco: fino a prova contraria, non ci risulta che la Turchia faccia già parte della UE) nei confronti del simbolo del cristianesimo, cioè, l’abolizione del Crocifisso in nome di un esasperato anelito laicista, va purtroppo a minare il fondamento stesso di una Civiltà – non solo di una Religione - quella continentale, che nel corso dei secoli proprio dal cristianesimo ha tratto valori ampiamente condivisi da una vasta seppure variegata e talvolta litigiosa aggregazione di nazioni. In nome del laicismo e del relativismo filosofico e culturale, la Corte europea ha tuttavia annullato questa pratica esperienza, sentenziando con grande disinvoltura la presunta inutilità di uno dei valori fondanti del nostro modo di essere e di concepire la vita: atto destinato a provocare gravi ripercussioni e, soprattutto, a creare un precedente a dire poco imbarazzante. In nome di un multiculturalismo tendenzialmente demagogico che nulla a che fare con il vero progresso, le forti lobbies laiciste ed atee che largo potere esercitano all’interno delle istituzioni europee, hanno quindi deciso (ma – alla luce delle violente e comprensibili reazioni popolari scatenate - bisognerà vedere se ci riusciranno) di sbarazzarsi di un simbolo che, aldilà dei suoi significati metafisici, rappresenta la Storia, o meglio l’anima della Storia di un Continente. Ciò che più colpisce di questo puerile, ma pernicioso colpo di mano promosso dagli epigoni di un mal assimilato credo illuminista è e rimane la superficialità con la quale esso è stato compiuto: superficialità tipica della mentalità relativista. Ciò che i giudici europei non sembrano avere colto è infatti la netta distinzione esistente tra due termini, in senso positivo e negativo: pluralismo e, appunto, relativismo laicista. Come ebbe modo di sottolineare il 17 gennaio 2003 - nella nota dottrinale sull’impegno dei cattolici in politica (documento pubblicato dalla congregazione per la dottrina della fede)- l’allora cardinale Joseph Ratzinger, in politica il pluralismo è un concetto lecito e naturale in quanto in relazione alle molteplici questioni ‘politiche’ dibattute non esiste mai una risposta preconfezionata e condivisa, ma, al contrario, sussistono diverse possibilità di operare su base pratica e possibilmente etica, mentre il relativismo (in quanto prassi culturale e filosofica applicata anche alla politica) ha la pretesa di affermare che non esistendo alcuna verità etica e morale assoluta e vincolante per la coscienza, le risposte ai problemi possono esimersi dal tenere in debita considerazione la sfera spirituale dell’individuo, unico artefice del progresso, della libertà e della felicità. Ora, pur lasciando agli uomini di Chiesa e di fede ogni giudizio circa la necessità – si veda il ‘caso’ del Crocifisso – di conservare gli elementi fondanti della tradizione religiosa, ogni individuo non necessariamente di fede- ma realmente tollerante - non può fare a meno di riflettere circa l’intrinseca pericolosità di un credo laicista portatore di ‘valori’ che di fatto vengono imposti con la forza, non ‘offrono’, o lasciano scegliere. Trattasi, infatti, di una nuova ‘religione storica’ e contingentista quella neolaicista europea, che è legata unicamente all’evolversi di un antropocentrismo spinto, svincolato da ogni naturale anelito e riferimento metafisico e metastorico: una religione materialista a tutto tondo che, sbandierando il vessillo della democrazia, tende, paradossalmente, a sopprimere ogni libertà. Proseguire su questa strada, cioè permettere di continuare a supporre – come fanno i laicisti – che il vero pluralismo combaci con il relativismo, significa per l’Europa perdere i fondamenti dell’umanesimo e della stessa democrazia che, come si sa, si basano sul rispetto di norme condivise (non soltanto giuridicamente, ma culturalmente) a tutela della giustizia e della verità. Conseguente, in questo senso (ci si consenta una breve divagazione: la distinzione tra la laicità (necessaria, delle istituzioni) e il laicismo, inteso come esasperazione del concetto ‘storico’ di esistenza: credo ateo secondo il quale i contenuti morali cristiani debbono essere totalmente esclusi dalla politica, o dalle istituzioni. Alla luce della sentenza della Corte europea - sciagurata e paradigmatica (anzi, sintomatica) - non sono dunque soltanto i religiosi, ma i difensori della Ragione Illuminata (non illuminista), cioè i laici che hanno a cuore la Tradizione occidentale a dover scendere in campo. In gioco vi è infatti il futuro non soltanto economico o sociale, ma morale di un Continente che, nel corso dei secoli, sui fondamenti della filosofia cristiana ha costruito le sue alterne - ma in realtà uniche -vere fortune. I valori metastorici del Vangelo, se ben compresi ed assimilati, rappresentano, infatti, un’opportunità di crescita morale e culturale, non certo un pericolo per la democrazia o il progresso. Anzi, essi responsabilizzano e orientano gli individui, chiarendo dubbi e soprattutto dissipando equivoci derivanti dalla finta e speculativa contrapposizione tra ragione e religione. Contrariamente alla cultura laicista per la quale il concetto di ‘neutralità’ e di agnosticismo coincidono di fatto con un modernismo ateo incatenato al ‘contingente’ e al banale, anche se ineluttabile, ciclo morfologico di culture senz’anima che mai potranno trasformarsi in Civiltà.

Brevi considerazioni: 'Contro la falsa chiesa', di Alberto Rosselli.

Dipinto di Hieronymus Bosch.


Contro la 'falsa Chiesa'.

Di Alberto Rosselli

Pane al pane, vino al vino. La Chiesa non può essere 'sociale', mondana o filo marxista (come desidera papa Bergoglio, apostata conclamato), ma nemmeno capitalista in senso speculativo finanziario e mondialista, poiché entrambi questi sistemi storici hanno dimostrato di non essere capaci di di assicurare a tutti gli uomini i diritti fondamentali professati da Cristo e dal Diritto Naturale. Ma a quanto pare l’Occidente (ormai contaminato dalla lue nichilista e relativista atea) sembra essersi fatto sordo alla parola di Dio. Non a caso la deforma, la adultera (attraverso buonismi ipocriti), la scompone, la tradisce (attraverso un finto agire 'umanitario'); ne fa - in sostanza - oro per gli sciocchi, secolarizzandone il contenuto. “In seguito alla morte di Dio, tutti i falsi profeti si considerano eredi di Dio”. Di qui le nuove, fragili escatologie proiettate in un futuro esclusivamente mondano e telematico; di qui il proliferare di improbabili, nuove dottrine basate sul relativismo egoistico, sulle mode globalizzatrici e 'scientiste', frutto anch’esse della 'storicizzazione' radicale del cristianesimo. Di di qui la corsa folle verso l’utopia della tecnologia intesa come nuova ed unica Religione. E il tutto nell’illusione collettiva di avere imboccato una facile scorciatoia in nome di una sorta di “antropocentrismo illuminato”, utile forse a garantire interessi diplomatici e commerciali di potenti e di gruppi finanziari, a tutelare gli investimenti, a distruggere i salari, le pensioni, ma a mantenere sempre più l’uomo-schiavo nella sua permanente e sostanziale incertezza esistenziale, cioè preda inerme del Male.

lunedì 25 novembre 2019

Novità in libreria. 'La rivolta anti inglese in Iraq del 1941', di Alberto Rosselli. Edizioni Mattioli 1885 (Fidenza). Prefazione di Fabio Bozzo.





Prefazione di Fabio Bozzo.



Alberto Rosselli, affermato storico genovese ed ex inviato di guerra nei Balcani e in Medio Oriente, affronta con questo sintetico, ma esaustivo testo un tema fondamentale per chiunque voglia comprendere gli eventi dell’Iraq contemporaneo: la rivolta anti britannica che interessò il Paese delle Mille e una notte nel 1941. Lo scrittore ligure introduce il lettore all’argomento attraverso riassunto della storia della Mesopotamia, la Terra tra i fiumi Tigri ed Eufrate, culla di antichissime civiltà ed eterno crocevia culturale e geopolitico.
Partendo dalle ere più remote il testo ripercorre gli epici incontri scontri tra il mondo greco e quello persiano, con il primo che, dopo essere stato sulla difensiva, conquistò il secondo grazie ad Alessandro Magno. In seguito all’emergere della dinastia sassanide, artefice di un vero Rinascimento persiano, l’Oriente si liberò dalla tutela culturale dell’Occidente, prima rappresentata da Roma e poi da Bisanzio poi. Ne seguirono guerre devastanti che confermarono una leggera superiorità bellica, ma non un vero predominio, della parte occidentale della famiglia etnica indoeuropea su quella orientale. In concomitanza con il declino di Bisanzio a scapito dei persiani, la Mesopotamia venne poi interessata dalla conquista islamica. Quando, nel VII secoli, i seguaci di Maometto emersero prepotentemente dalle sabbie della penisola araba, ebbero la meglio nell’affrontare e sconfiggere i due imperi (bizantino e persiano): soggetti caratterizzati da un livello statuale e culturale elevato, ma che nel frattempo si erano logorati a vicenda, complici le continue dispute militari ed altrettanto perniciose epidemie (come la Peste di Giustiniano che, pare, abbia falciato il 25 per cento della popolazione del Mediterraneo orientale). Il risultato fu che l’intero Medio Oriente cadde in mano araba, dando origine a califfati (come quelli di Damasco e di Baghdad) che imposero con la forza alle preesistenti popolazioni arabe cristiane il credo maomettano. In questo contesto l'Impero Bizantino, ormai ridotto al dominio della sola penisola anatolica, riuscì a respingere, seppure a fatica, ogni assalto arabo islamico, per poi crollare definitivamente nel 1453 –dopo ben sei secoli di resistenza– sotto l’impeto di una nuova e feroce potenza musulmana, ma non araba: i turchi ottomani. Per inciso, fu grazie alla disperata resistenza dell’Impero Bizantino che l’Europa orientale non venne investita dall'invasione araba. Anche in questo caso le orde della mezzaluna conquistarono i Balcani solo sotto le bandiere ottomane.
Il destino dei sassanidi fu ancor più crudele di quello bizantino. Non soltanto l’attuale Iraq, ma anche l’intera Persia venne occupata dagli arabi, che vi importarono a forza la fede coranica, spazzando via i retaggi culturali e religiosi della gloriosa civiltà zoroastriana. Il risultato fu che un’entità imperiale di natura prettamente asiatica, ma in grado in grado di sviluppare un certo dialogo con l’Occidente, venne sostituita dalla cultura musulmana, che per sua stessa ammissione punta alla totale conquista ed alla conversione del mondo intero. Con l’espansione turca tutto il Medio Oriente, ad eccezione della Persia, cadde sotto il controllo della suddetta popolazione altaica attraverso il Califfato Ottomano, nato nel 1517 con l'assunzione del titolo di Califfo da parte del Sultano e durato fino al 1924. All’indomani della disastrosa sconfitta subita nel 1918 dall’Impero Ottomano (alleato di Germania, Austria-Ungheria e Bulgaria), e con la conseguente disgregazione dei suoi possedimenti mediorientali conquistati dalle forze dell’Intesa (Gran Bretagna e Francia), il Medio Oriente venne spartito tra Londra e Parigi. L’Iraq, in particolare, divenne un “mandato” britannico, ovvero un regno arabo autonomo, ma posto sotto stretta tutela dell’Inghilterra. Questo perché le enormi riserve petrolifere e la posizione a metà strada tra l’India ed il Canale di Suez imposero alla diplomazia inglese una presenza diretta sul territorio. Già a partire dai primi anni Venti i rapporti tra britannici ed iracheni non risultarono facili. I problemi, infatti, erano spinosi, in parte a causa della costituzione di un regno composito dal punto di vista etnico-religioso (con il Nord a prevalenza curda sunnita; il Centro, con Baghdad, a maggioranza arabo-sunnita ed il Sud, con Bassora, a maggioranza arabo-sciita), in parte perché buona parte della nuova classe dirigente irachena ambiva in tempi rapidi ad acquisire la totale indipendenza (già prevista dalle clausole mandatarie, ma ritenuta troppo lontana). Ben presto, la brama indipendentista di alcuni leader iracheno, tra cui Rashid Al Galiani, portarono parte dell’esercito e della burocrazia a cercare alleati all’estero per ottenere l’autodeterminazione. E fu proprio nella primavera del 1941 – approfittando del fatto che l’Inghilterra si trovava in stato di guerra con la Germania e con l’Italia - che Rashid Al Galiani, a capo degli elementi nazionalisti iracheni, attuò un colpo di stato, rovesciando il governo filo britannico di Nuri Al-Said, e chiedendo, nel contempo, il riconoscimento diplomatico e aiuto militare alle potenze dell’Asse.
Qui entriamo nel cuore del testo di Alberto Rosselli che, con dovizia di particolari, ma senza inutili digressioni, narra le vicende della Prima Grande Rivolta Araba anti occidentale della Storia. Una Rivolta, in realtà, assai breve e poco onorevole per gli insorti nazionalisti iracheni, poiché le forze britanniche presenti sul territorio, pur numericamente molto inferiori, riuscirono in breve tempo a schiacciare un esercito bene armato (quello di Rashid Ali), ma debolmente rifornito da Germania e Italia, le quali tentennarono a lungo prima di decidersi ad intervenire con il solo appoggio aereo. Ciò non significa che Londra, almeno per un paio di mesi, non abbia tremato all’idea di una vera e propria invasione del Medio Oriente da parte dell’Asse. Tale rischio in realtà era improbabile, data la distanza geografica che separava l’Europa e la Libia italo-tedesche dall’Iraq. Tuttavia presso il Quartier Generale dell'Impero Britannico il timore fu reale.
In effetti la Grande Rivolta Araba irachena analizzata da Rosselli avrebbe potuto, almeno in teoria, creare pericolosi contraccolpi in Medio Oriente ai danni della Gran Bretagna, interrompendo gli approvvigionamenti petroliferi che dall’Iraq sfociavano nel porto palestinese di Haifa, per poi essere ridistribuiti sui vari fronti, e mettere in serio pericolo la sicurezza del Canale di Suez ed i collegamenti tra l’Egitto britannico e l’India. Fu talassocrazia anglosassone ad impedire questi sviluppi poiché, avendo il controllo di buona parte del Mediterraneo, la Royal Navy non permise alle forze dell’Asse di avvicinarsi alle coste mediorientali, costringendo la Regia Aviazione e la Luftwaffe (che avevano le loro basi più vicine a Rodi) a consegnare ai ribelli iracheni un aiuto poco più che simbolico, sia sotto il profilo logistico che militare vero e proprio. Gli inglesi al contrario, pur essendo nel pieno di una delle loro fasi buie della seconda guerra mondiale, riuscirono a dar vita ad una strategia globale. Per prima cosa aumentarono la consistenza della loro flotta nel Golfo Persico, attingendo magri rinforzi da vari settori navali, poi inviarono verso il porto di Bassora una serie di reparti di truppe indiane già predisposte per il trasferimento in Malesia, dove la minaccia giapponese si stava facendo sempre più concreta (mancavano appena sette mesi a Pearl Harbor). La rapidità della reazione britannica sorprese il Governo golpista iracheno e lasciò all'Asse poco tempo per fornire un aiuto concreto al nuovo alleato. Il 2 maggio 1941, esaurite le oggettivamente scarse vie diplomatiche, gli inglesi passarono alle armi. Come già accennato l'esercito iracheno, pur in netta superiorità numerica, non si rivelò un granché. I suoi ufficiali risultarono impreparati, poco combattivi ed incerti sul da fare, senza contare che – salvo qualche eccezione – dopo i primi scontri molti reparti soldati sbandarono, spesso gettando armi e divise. A nulla servì nemmeno l’incitamento alla ‘guerra santa islamica’, proclamato dal Gran Muftì di Gerusalemme, Amīn al-Ḥusaynī (sodale ideologico del leader Rashid Ali). A conti fatti, in meno di un mese di combattimenti la rivolta nazionalista irachena venne domata dai britanniche e l'Iraq tornò sotto un Governo filo occidentale, ovviamente guardato a vista dai soldati britannici. Con la vittoria delle forze inglesi, il conflitto mondiale riprese il suo corso, ma malgrado il trionfo finale l’Impero britannico ne uscì esausto, iniziando un progressivo e quasi sempre volontario smantellamento di un impero divenuto troppo costoso da gestire. In Iraq, con il progressivo abbandono degli insegnamenti politico-amministrativi inglesi, la leadership locale divenne sempre più nazionalista ed anti occidentale. Fino al colpo di Stato di Saddam Hussein, prima cliente mediorientale numero uno dei sovietici e scheggia impazzita poi. Ritornando al libro di Rosselli, tutto ciò, e quello che la storia ci riserverà nel prossimo futuro, risulterebbe incomprensibile senza un attento studio della Rivolta irachena del 1941: il tentativo maldestro di una leadership non più coloniale, ma non ancora pronta all’indipendenza, di affrancarsi dal predominio europeo. Un predominio, giova ricordarlo, non solo militare, ma anche politico e culturale. In ultima analisi, la repressione britannica del 1941, fu un capitolo dell’eterno confronto tra Occidente (ovvero la sintesi di civiltà classica, cristianesimo ed illuminismo) ed islam, religione nata tra le sabbie e votata alla sottomissione del globo.
Fabio Bozzo




mercoledì 20 novembre 2019

'L'Olocausto Armeno' (quarta edizione ampliata), di Alberto Rosselli verrà presentato e discusso a Genova (17 Gennaio 2020, presso la Biblioteca Berio) con il patrocinio dell'Associazione 'Domus Cultura'.










L’olocausto armeno (quarta edizione).

PREFAZIONE DI MARCO CIMMINO



Ricorrendo quest’anno il centenario della ‘strage armena’, Alberto Rosselli, già autore di quel capolavoro di sintesi che fu Sulla Turchia e l’Europa, si è trovato, quasi inevitabilmente, costretto a ‘ritornare’ sull’argomento ‘Armenia’, rielaborando questo libro, L’olocausto armeno (giunto, grazie alla lungimiranza della Mattioli 1885, alla sua quarta riedizione, ampliata ed arricchita da corredo iconografico): testo che del citato Sulla Turchia e l’Europa è, al tempo stesso, corollario ed approfondimento. E’, infatti, impossibile affrontare il tema dell’europeità della Turchia moderna, senza affrontare quello che ne è, evidentemente, il nodo storico e civile fondamentale: il massacro del popolo armeno, iniziato negli anni 1894-95 dai Sultani ottomani e poi portato a compimento dal Partito ‘modernista’ dei  ‘Giovani Turchi’ durante la Prima Guerra Mondiale. Crediamo che la spinta interiore che ha determinato questa necessitante scrittura, appartenga al carattere personale di Rosselli oltre che alla deontologia di ogni storiografo degno di questo nome. Il bisogno di capire, la volontà di sapere, il dovere di spiegare, sono, infatti, le concause dell’opera ultima di questo autore genovese. Perché Alberto Rosselli è un ricercatore caparbio e, al tempo stesso, un eccellente divulgatore. Egli ama entrare nelle pieghe più riposte di certe nostre memorie, diafane all’apparenza, per poi percorrerle da capo a fondo. Per capire, prima, per aiutarci a capire, poi. Riteniamo che L’olocausto armeno sia un’opera civile nel senso più alto del termine: essa è l’analisi circostanziata di una tragedia che non può rimanere entro i confini della storiografia tabellare, ma che impone, a chi scrive e a chi legge, un’attenzione viva e partecipe, un’umana compassione ed una riflessione sull’immutabilità dell’umana condizione. Si tratta, in definitiva, di un libro da leggere con l’anima, oltre che con la mente, perché scende fino al fondo di un inferno che non è opera di un dio, ma di uomini come noi. Per questo, ad un certo punto, i due saggi (Sulla Turchia e l’Europa e L’olocausto armeno) si toccano e si incrociano. Non si può infatti valutare la Turchia d’oggi, senza considerare il suo atteggiamento verso la Turchia di ieri. Per questo, in maniera assai efficace, l’autore mescola alla storia del genocidio armeno la “storia della storia” di quell’olocausto, arrivando fino a giorni vicinissimi a noi. E se vi è una parvenza di freddezza in Rosselli, essa non risiede affatto nella scarsa adesione emotiva ad un’immane sciagura collettiva di uno studioso di cui personalmente conosciamo ed apprezziamo l’indubbia umanità. Piuttosto, essa sta a significare lo sforzo costante dello storico, che non può accettare le sole ragioni dell’empatia nell’emettere i propri giudizi e che cerca di osservare la natura delle cose, e il mondo dei fenomeni, senza lasciarsi condizionare dall’entità dei fenomeni stessi. Perché un giudizio, disincantato e dolente, sulla capacità dell’uomo di straziare, oltre ogni immaginazione, altri uomini, è presente in ogni pagina di questo libro. Troppo acuto è l’autore per poter credere nelle magnifiche sorti e progressive, dopo avere perlustrato tante linee d’ombra e tanti cuori di tenebra. Così, L’olocausto armeno diventa opera figlia dell’esperienza di chi ne ha operato, capoverso per capoverso, la stesura: opera matura di un autore che padroneggia con sicurezza tanto lo strumento quanto la materia. Trattasi di un lavoro che sa dove andare a parare, fino dalle pagine di esordio e che conduce il lettore, con discrezione, com’è costume di Rosselli, fino al centro della Geenna, quasi a dirgli: vedi? Anche di questo siamo stati capaci! Se pregevole, pur nella sintesi, è la visione storiografica e la documentazione delle tappe di questo genocidio, ancora più degna di menzione è la capacità di questo libro di contestualizzare, in un felice gioco di scale e di primi e secondi piani, un avvenimento che parrebbe, nella sua cruda ferocia, del tutto incontestualizzabile. Ecco, dunque, che la strage del popolo armeno appare animata da una sua spietata logica, al pari di ogni altro consimile scempio novecentesco. E, allo stesso modo di altri, analoghi, massacri, vi sono, nel genocidio armeno inconfondibili prodromi ed identificabili segnali. Certo, alla Turchia del 1915 mancava l’implacabile e cronometrica precisione di un apparto nazista o l’inumano cinismo di quello staliniano, ma le ragioni dell’odio, dello sterminio e dell’oblio sono le stesse. E sono ragioni eminentemente pratiche, di opportunità politica e sociale. E’ probabilmente questo il dato più aberrante dei genocidi del XX secolo, da quello degli armeni a quello perpetrato da un delirante dittatore marxista come Pol Pot. La loro pianificazione è infatti assolutamente “moderna”, quasi “industriale”, con tanto di calcolo dei danni collaterali e delle economie di scala. Colpisce, a tale proposito, il fatto che gli argomenti dei ‘negazionisti’ di tutte le stragi siano assai simili tra loro. La versione secondo cui le vittime non sarebbero state uccise scientemente, ma per conseguenza di disagiate situazioni oggettive, che avrebbero aumentato a dismisura il normale tasso di mortalità in situazioni di per sé difficili (la deportazione, la detenzione in lager, la prigionia di guerra, eccetera), è, ad esempio, comune a quasi tutte le versioni negazioniste degli olocausti. Lo stesso dicasi per la tristissima conta delle vittime, che, a seconda della convenienza, moltiplicano o riducono il proprio numero in maniera eclatante. Ebbene, nulla di tutto questo è nell’opera di Rosselli. Egli appare, come sempre, animato dall’intento di avvicinarsi il più possibile al vero e alla ragione, senza pregiudizi di sorta e, soprattutto, senza quelle finalità educativo-pedagogiche per cui la Storia dovrebbe essere emendata di tutti i particolari che non siano funzionali ad un progetto manipolatorio delle coscienze. Rosselli non vuole convincere nessuno: egli si limita a mostrare le cose nella loro cruda realtà, lasciando che sia il lettore a trarne, eventualmente, delle conclusioni. Per questo, L’olocausto armeno è, prima di tutto, un libro onesto, in mezzo a tante opere che, se non sono mendaci in senso stretto, sono, quanto meno, compiacenti verso l’una o l’altra dottrina. Ma all’autore queste compiacenze non sono mai interessate. Egli si limita a raccontare, in poche, puntuali e significative pagine, un passato terribile che si riverbera su di un presente che, per molti versi, non gli è preferibile. E come al solito, ci impartisce, forse senza saperlo, una lezione di sana ed autentica storiografia, cosa di cui gli siamo grati.

Marco Cimmino

‘Il massacro degli armeni è da considerarsi come il primo genocidio del XX secolo’.
Convenzione dei Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite.