sabato 3 novembre 2012



CONVEGNO

Sabato 1° dicembre alle ore 16,30, 
presso la sala dei convegni dell'Hotel Astoria, piazza Brignole 4, Genova

 verrà presentato il libro

GLI ITALIANI DI CRIMEA. NUOVI DOCUMENTI E TESTIMONIANZE SULLA DEPORTAZIONE E LO STERMINIO

A cura di Giulio Vignoli
professore di Diritto Internazionale nell'Università di Genova

Il libro rievoca la deportazione della Comunità italiana di Crimea avvenuta nel 1942 per
ordine di Stalin. Circa 1300 persone, uomini, donne, vecchi, bambini, vennero deportati in Kazakistan. Quasi
tutti i bambini morirono di stenti durante il viaggio nei vagoni piombati. Il freddo e la fame
nel luogo di deportazione decimò gli altri. Solo 300 persone sono tornate in Crimea dove
vivono tuttora in miseria nel disinteresse del Governo italiano.

Interverranno:

gli storici Aldo A. Mola e Alberto Rosselli
lo scrittore Piero Vassallo
la Presidente dell'Associazione Voltar Pagina Miriam Pastorino
il Presidente UMI Sergio Boschiero

Seguirà rinfresco

Per ulteriori informazioni (relative anche al genocidio degli Italiani di Crimea) telefonare allo
0185/669510 o scrivere a vignolirusso@libero.it

domenica 21 ottobre 2012




Novità editoriali. ‘L’Ultima Colonia – La guerra in Africa Orientale Tedesca 1914 – 1918′, di Alberto Rosselli (Prefazione di Marco Cimmino).


Bibliografia:
Giuseppe Scortecci, Guerra nella boscaglia equatoriale (1914-1918), A. Mondadori Editore, Verona, 1933
 Henri Wesseling, La spartizione dell’Africa 1880-1914, Corbaccio, Milano, 1991
 Ross Anderson, The battle of Tanga 1914, Tempus Publishing,Charleston, 2002
 Ross Anderson, The forgotten front – The East African campaign 1914-1918, Tempus Publishing,Charleston, 2004
 Edwin P. Hoyt, The Germans Who Never Lost – The Story of the Königsberg. Funk & Wagnalls, 1968
 Paul Lettow-Vorbeck, My Reminiscences of East Africa, London, Hurst and Blackett, 1920
 Paul Lettow-Vorbeck, Heia Safari, v. Hafe & Koehler, 1920
 R. Meinertzhagen, Army Diary 1899-1926, London, Oliver Boyd, 1960
 Roger Sibley, Tanganyikan Guerrilla – East Africa Campaign 1914-1918. Ballantine Books Inc., 1971
 Brigadier CharlesP. Fendall, The East African Force, The Battery Press, Nashville, Ed. 1992
 Malcolm Page, A History of the King’s African Rifles and East African Forces, Hardcover, January, 1998
 Brian Gardner, German East: The Story of the First World War in East Africa, C. Tinling & Co. Ltd., London, 1963
 Edwin P. Hoyt Guerilla, “Colonel von Lettow-Vorbeck and Germanys East African Empire”, Macmillan Publishing, New York, 1981
 The Incredible War of Gen. Paul von Lettow-Vorbeck The Barnes Review Vol. II, No.1, January 1996
 Keegan, John. The First World War. New York, Alfred A. Knopf, 1999
 Wilhelm Arning, Deutsch-Ostafrika Gestern und Heute, (Verlag von D. Reimer) Berlin, 1942.
 Paul Schmalenbach, A history of auxiliary cruisers in the German Navy 1895-1945, editori vari, 1977, 1979
 Estratégias Políticas na Entrada de Portugal na Grande Guerra, Lisboa, Estampa (“Histórias de Portugal,25”), 1996
 General Ferreira Martins, História do Exército Português, Lisboa, Inquérito, 1945
 The German East African Campaign, 1914-1918, Military History Journal, 6 December 1985
 War Office Statistics of the Military Effort of the British Empire during the Great War, 1914-1920. London, 1922
 D.R. Woodward, The Imperial Strategist. Jan Christiaan Smuts and British Military Policy, 1917-1918, Military History Journal, 5 Dec 1981
 António Simões Rodrigues (coord.), História de Portugal em Datas, 3.ª ed., Lisboa, Temas & Debates, 2000 (1.ª ed., 1997)
 Nuno Severiano Teixeira, O Poder e a Guerra, 1914 -1918. Objectivos Nacionais e Estratégias Políticas na Entrada de Portugal na Grande Guerra, Lisboa, Estampa (“Histórias de Portugal,25”), 1996
 Conde Falcão, Imagens da I Guerra Mundial, Lisboa, Estado Maior do Exército, 1998
 Peter Abbott, Armies in East Africa 1914 – 18, Osprey Publishing, Great Britain, 2002
 Byron Farwell, The Great War in Africa (1914 – 1918), W. W. Norton & Company, New York, USA, 1986
 CharlesHordern, Military Operations East Africa Aug. 1914 – Sept. 1916, Battery Press, Nashville, USA, 1990
 CharlesStienon, La Campagne Anglo-Belge de l’Afrique Orientale Allemande, Berger-Levrault, Libraires-Editeurs, Paris, 1918
 Kurt Wahle, Erinnerungen an meine Kriegsjahre in Deutsch-Ostafrika 1914- 1918, O.Ortsang, 1920
 Annuaire des Officiers de la Garde Civique, 1914. Kingdom of Belgium. L’Imprimerie Moderne, Bruxelles, 1914
 Annuaire Officiel de l’Armée Belge, 1914, Ministère dela Guerre. Bruxelles, 1914
 Les Campagnes Coloniales Belges, 1914-1918. Ministère dela Défense Nationale, État-major Général de l’Armée, Section de l’Historique, Bruxelles, 1927
General Emile Janssens, Histoire de la Force Publique, Ghesquière & Partners, Bruxelles, 1979
 Colonel Emmanuel Muller, Les Troupes du Katanga et Les Campagnes d’Afrique, 1914-1918, Office de Publicité, Bruxelles, 1937
 Général Gorges Howard, La Guerre dans l’Ouest africain (Togo, Août 1914 – Cameroun, 1914-1916), Payot, Paris, 1933
 Colonel Georges Moulaert, La Campagne du Tanganika (1916-1917), L’Édition Universelle, Bruxelles, 1934
 Heinrich Schnee, Deutsch-Ostafrika in Weltkrieg, Wie wir lebten und kampften, Quelle & Meyer, Leipzig, 1919
 Kurt Wahle, Erinnerungen an meine Kriegsjahre in Deutsch-Ostafrika 1914- 1918, O.Ortsang, 1920
 B.H. Liddle Hart, La Prima Guerra Mondiale, Rizzoli Editore, Milano, Quinta Edizione, 1972
 Martin Gilbert, La grande storia della Prima Guerra Mondiale, Mondadori, Milano, 1998
 Keith Robbins, La Prima Guerra Mondiale, Oscar Mondatori, Milano, 1999
 Ken Delve, World War One in the Air, A Pictorial History, Crowood Press Ltd, Ramsbury, 1997
 Storia Fotografica della Prima Guerra Mondiale, Edizione Club su licenza Vallardi Industrie Grafiche, Milano, 1993
 Ken Delve, World War One in the Air – A pictorial History –Crowood Press Ltd, Ramsbury, Marlborough, 1997
 Arch Whitehouse, Le battaglie degli Zeppelin, Longanesi & C., Milano, 1968
 Alberto Rosselli, Il Tramonto della Mezzaluna, L’Impero Ottomano nella Prima Guerra Mondiale, Ed. Rizzoli BUR, Milano, 2003
 Alberto Rosselli, La campagna del Camerun 1914-1916, mensile Storia & Battaglie, Editoriale Lupo, Vicchio (Firenze), n.43, gennaio 2005
 Roberto Ivaldi, Storia del colonialismo, Newton & Compton, Roma, 1997
 Arthur Banks, A military atlas of the First World War, Leo Cooper Publishing, Barnsley, 1998

Bibliografia aggiuntiva per la terza edizione del testo:

Norbert Aas, Werena Rosenke (Hrsg.): Kolonialgeschichte im Familienalbum. Frühe Fotos aus der Kolonie Deutsch-Ostafrika. Münster: Unrast, 1992.
Martin Baer, Olaf Schröter: Eine Kopfjagd. Deutsche in OstafrikaBerlin: Christoph Links Verlag, 2001.
Felicitas Becker, Jigal Beez: Der Maji-Maji-Krieg in Deutsch-Ostafrika 1905–1907.Berlin: Christoph Links Verlag, 2005.
Tanja Bührer: Die Kaiserliche Schutztruppe für Deutsch-Ostafrika. Koloniale Sicherheitspolitik und transkulturelle Kriegführung, 1885 bis 1918. Beiträge zur Militärgeschichte, Bd. 70. München: Oldenbourg Wissenschaftsverlag 2011.


PREFAZIONE:

 L’operazione di revisione e ristampa de “L’ultima colonia” di Alberto Rosselli potrebbe dare, a chi non conoscesse l’autore, l’idea di un lavoro, di semplice restauro di un’opera, tutto sommato un po’ obsoleta e, comunque, eccentrica, rispetto alle rotte solitamente battute dalla storia militare. E sarebbe un errore di valutazione madornale. In Italia si scrivono molti libri di storia e, massime, sul Novecento e sui due conflitti mondiali: sovente, si tratta di opere, queste sì eccentriche, dedicate a temi monografici estremamente circoscritti o, addirittura, a cimeli memoriali di famiglia. Assai più spesso, però, si tratta di lavori superflui, su temi abusati o ovvi, in cui non ci si discosta di un centimetro da un’opprimente vulgata, che venne tracciata negli anni Ottanta e Novanta da una legione di ricercatori politicamente impegnati, il cui principale obiettivo non era raccontare la storia ma dimostrare al lettore che la guerra è un male. Certo che la guerra è un male: ci mancherebbe! Tuttavia, bisognerebbe, a questo punto, dare la cosa per dato acquisito e cercare, finalmente, di spiegare al pubblico che legge i libri anche la sostanza del conflitto, che, non dimentichiamocelo, è un fenomeno storico come qualunque altro. Anche per questa ragione, la nostra storiografia militare,  fatta salva qualche valorosa eccezione, non gode di particolare stima all’estero. L’immediato effetto di questa diffusa disistima consiste in un comune atteggiamento di sottovalutazione dell’importanza del fronte italiano nell’economia della Grande Guerra e, più in generale, in una impressione di antiscientificità della nostra storiografia: tanto da considerare anche saggi di una notevole profondità (mi viene in mente l’opera di Antonio Sema sul fronte isontino) come afflitti da questa sorta di “tabe” italiana. Quando, nel mondo anglosassone, venivano scritte le opere fondamentali di Mosse, di Fussel, di Keegan, solo per citarne alcuni, in Italia eravamo ancora inchiodati ad un’epistemologia strumentale e ad una saggistica in cui si paragonava Garibaldi a Cossutta e che andava a cercare testimonianze sui plotoni d’esecuzione, trascurando la strategia, la tattica e, nonostante qualche titolo accattivante, perfino la mitologia della Grande Guerra. Va da sé che Rosselli non si è mai posto in questa scia: anzi, per la verità, è uno storico che ha sempre cercato di farsela da sé, la propria scia. Raramente, questa operazione si è rivelata in sintonia con le più interessanti avanguardie della storiografia militare come nel caso di questo libro: il che ne fa un’opera tutt’altro che eccentrica o marginale, ma la colloca a pieno diritto nel mainstream della saggistica di questa generazione, per fortuna, a quanto pare, più libera dalle pastoie della correttezza politica. Ci si è, alla fine, resi conto che, a furia di spaccare il capello in quattro su due o tre temi centrali della ricerca storica sulla Grande Guerra, ci si era clamorosamente incartati: la storia basata sul Materialschacht, la storia che parta dalla letteratura, la storia delle classi sociali attraverso la guerra, hanno da tempo esaurito il proprio filone aurifero. L’attenzione dei più avvertiti tra i ricercatori della nuova generazione si è rivolta al concetto di “mondialità” della Grande Guerra. Autori di assoluto valore, come Stevenson e, soprattutto, Hew Strachan, si sono dedicati alla stesura di storie della prima guerra mondiale che tengano conto in maniera rilevante anche del panorama extrauropeo e coloniale, nel tentativo di restituire a quel conflitto il suo carattere autentico, di guerra totale. Insomma, si è sempre parlato di guerra mondiale e, alla fine,  ci si è ritrovati a parlare di un fazzoletto di terra che sta tra la Svizzera e il Mare del Nord, tra lo Stelvio e Monfalcone o tra la Masuria e i Carpazi. Al massimo, ci si è spinti ad analizzare la guerra navale nell’Atlantico, in qualche capitoletto accessorio. Invece, la Grande Guerra venne combattuta in quattro continenti e, se pure le forze schierate furono molto modeste, rispetto ai milioni di uomini impegnati in Francia o in Galizia, essa ebbe un’importanza notevole e, in certi casi, decisiva, per le linee di approvvigionamento, per la logistica globale del conflitto e, nel caso di cui si parla in questo libro, anche per i suoi effetti psicologici, durante e, addirittura, dopo la fine delle ostilità. Per questa ragione, la scelta di Rosselli di riproporre, con ampie revisioni, il suo libro sulla guerra anglo-tedesca nell’ Africa sudorientale è del tutto comprensibile: si tratta di un lavoro di settore, attento e documentato, che, quando godette della sua prima pubblicazione, passò sotto un colpevole silenzio, da parte di un mondo accademico tutto concentrato sulla solita vulgata. Perché, va detto, esistono molteplici vulgate: non si deve credere che la “vulgata resistenziale” denunciata dal De Felice, sia la sola ad affliggere atenei e ricerche storiografiche. Ogni fenomeno della storia moderna e contemporanea possiede, qui in Italia, la sua brava vulgata: viene, per così dire, addomesticato ai fini di una sua decisiva spendibilità politica. Fu naturale, ai tempi, che il saggio di uno storico come Alberto Rosselli, intellettuale del tutto non allineato con questo sistema, e dedicato ad un argomento estraneo al mondo della ricerca italiana, non ricevesse l’attenzione che meritava. E’ brutto dirlo, ma è la verità. Questa nuova edizione, pur coi limiti oggettivi di un’opera di nicchia e di una materia che incontra i favori del botteghino assai meno di altre (Dan Brown, con la sua fantastoria usa e getta, fa scuola, in questo senso), è un libro di godibilissima lettura e di profonda scienza: c’è da scommettere che, se raggiungesse il grande pubblico, potrebbe ottenere un notevole successo. Il punto è sempre quello: arrivare alla gente. La storiografia gode di un formidabile impianto di filtraggio: filtraggio all’origine, quando le università selezionano i ricercatori secondo criteri di omogeneizzazione, e filtraggio alla fine, quando la distribuzione snobba le opere che non abbiano un certo imprimatur. Così è la vita, almeno nel nostro Paese. Chi scrive nutre la speranza che questa ed altre fatiche di Alberto Rosselli possano godere del meritato successo, perché si tratta di lavori intelligenti, chiari, illuminati: ma sa bene che è una cosa un po’ difficile. Venendo, ora, alla materia di questa breve prefazione, “L’ultima colonia”, l’opera di Rosselli procede, con encomiabile organicità, alla descrizione e, molto più, alla spiegazione di uno scampolo di Grande Guerra che, in qualche modo, potrebbe assurgere a simbolo di due concetti contrapposti di tattica militare: da un parte, infatti, i protagonisti furono i soldati, metropolitani ed indigeni, delle truppe germaniche del Tanganika (Tanzania), comandati dal celeberrimo colonnello Lettow-Vorbeck, grossomodo dell’entità di una divisione (circa 3.000 europei ed 11.000 indigeni), mentre, dall’altra, si contrappose loro un’intera (sebbene assai composita) armata britannica, di più di 150.000 uomini. Le ragioni dei successi di Lettow-Vorbeck vengono analizzate con scrupolo, ma Rosselli fa anche qualcosa d’altro: cerca di entrare nel ventre di questa guerra, così lontana, geograficamente e psicologicamente, da quella che si combatteva nelle Fiandre e, com’è nel suo costume, di restituirci uno Stimmung, lo spirito di un evento. Sarebbe semplice, per qualunque storico militare, riassumere il senso di questa battaglia, che si protrasse, con alterne vicende, dal 1914 a oltre la fine della guerra (quando Lettow-Vorbeck si arrese, l’armistizio era scattato da due settimane e egli venne salutato, al suo arrivo a Berlino, come un trionfatore), risolvendola in un mero scontro di tattiche: ogni battaglia, anche la più diluita nel tempo, ha il suo Schwerpunkt e, in fondo, basta individuarlo per spiegarne il senso. Questa, tra tedeschi ed inglesi, però, non fu soltanto una battaglia: fu uno scontro di sistemi, di esperienze e di intelligenze. E una della ragioni dei successi germanici consistette proprio nel sistema: i britannici affidavano i comandi subalterni delle loro truppe coloniali (che erano professionali, va ricordato) a dei funzionari, che, spesso, incarnavano il carattere burocratico e pedante tipico del colonialismo inglese. Lettow-Vorbeck era un soldato: uno Junker che si era fatto le ossa in mezzo mondo, facendo la guerra. Da una parte, insomma, c’era la burocrazia e, dall’altra, c’erano l’addestramento e la capacità di adattarsi al campo di battaglia: un campo di battaglia enorme ed ambientalmente variegato e complesso. C’erano i “diavoli della foresta”, capaci di marciare per decine di chilometri in un territorio impossibile. D’altronde, questa diversa mentalità era già apparsa molto chiaramente durante il conflitto boero del 1899, quando le truppe di Smuts e di Botha tennero in scacco per anni i celebrati reggimenti di sua maestà, con una guerra fatta di rapidi spostamenti, di agguati, di sorprese e di taglio delle linee di rifornimento. Non a caso, Lettow-Vorbeck partecipò come osservatore (e, forse, come suggeritore) a quel conflitto, dal quale apprese gli elementi chiave della sua tattica militare, fondata sulla guerriglia. E, sempre non a caso, gli Inglesi, durante la guerra, dopo una serie di insuccessi, mandarono proprio Smuts a  contrastare l’avversario in Tanganika. La logistica è l’elemento chiave della condotta di una guerra: interromperla significa accecare, affamare, disorientare e, infine, sconfiggere il nemico. Questo facevano i boeri e  questo fece Lettow-Vorbeck: questo, su scala enormemente più vasta, stava cercando di fare l’impero britannico alla Germania, con il blocco navale; e la guerra in Africa ne fu una diretta conseguenza. Le note vicende del Koenigsberg, di cui Rosselli, in questo libro, ci dà puntuale notizia, si collocano, a loro volta, in questo contesto: nella lotta per mantenere o togliere gli attracchi africani alle navi da trasporto e da guerra. Suez era fuori portata, per la Germania, e la vecchia rotta circumafricana era l’unico modo per ottenere rifornimenti: di qui l’importanza vitale di mantenere una rete costiera e di non perdere una testa di ponte nell’Africa subequatoriale. Bisognerebbe dire che, probabilmente, 14.000 uomini per perseguire questo obiettivo erano troppo pochi: si tenga però presente che i contatti tra quelle truppe e la Madrepatria furono, salvo un paio di casi fortunati, del tutto impossibili. Lettow-Vorbeck fu solo, a condurre la sua lunghissima campagna. Dunque, molte sono le cose da comprendere e di cui tener debito conto: a partire dalla politica coloniale e dalla corsa all’Africa, in cui la Germania guglielmina giunse buon’ultima. Proprio da questo snodo, prende le mosse questo libro: opportunamente, Rosselli ci introduce gradualmente nel centro della questione, dipingendo, con tratto rapido ed efficace, un mondo, un’epoca scomparsa, che è l’epoca delle grandi colonie africane. Non si tratta di un merito da poco: le rotte coloniali della seconda metà del XIX secolo e dei primi anni del XX seguirono linee complicate, costellate di crisi internazionali e di trattati, la cui conseguenza più evidente sono quei confini subsahariani che paiono tracciati con la squadra, indipendentemente da etnie e popoli: molte catastrofi recenti sono derivate da quella caotica spartizione del bottino. Poi, l’autore procede seguendo i dettami della più classica storiografia militare, dimostrando, una volta di più, la sua formidabile duttilità ed il suo eclettismo: Rosselli scende in campo e descrive, per così dire, l’ordine di battaglia, ossia le forze contrapposte; da questo anche il lettore più sprovveduto può facilmente constatarne la sproporzione e cogliere la statura militare di Lettow-Vorbeck. Esaurita l’approfondita disamina delle truppe e delle dotazioni, il libro passa dalla storia annalistica alla storia narrativa e prende a dipanarsi come un appassionante romanzo di guerra: e da romanzo fu, senza dubbio l’epopea delle Schutztruppen africane, con continui colpi di scena e funamboliche manovre. La maggior parte di questo libro è, dunque, dedicata ad un’analisi capillare, ma mai noiosa, degli avvenimenti e dei vari protagonisti e comprimari della lunghissima campagna: e non è una parte che faccia rimpiangere, per esattezza ed acutezza, il Rosselli storiografo annalista. Anche il sottpscritto, pure essendo, purtroppo, costretto dal mestiere a consultare centinaia di opere specialistiche sulla Grande Guerra, resta ogni volta ammirato, di fronte a questa capacità straordinaria di Rosselli di raccontare, sintetizzando, ma senza mai togliere nulla che non sia degno di ablazione: una lunga frequentazione e collaborazione mi lega all’autore, eppure è sempre con un misto di invidia e di sincera ammirazione che leggo le sue pagine, scorrevoli e, al contempo, dense di storia. Tra tutti i suoi libri, questo “L’ultima colonia” è forse quello che più si avvicina ad un ideale romantico di racconto storico: un Michelet, si parva licet, che, però non concede nulla alla fantasia. Non mancano, naturalmente, gli episodi particolari, in questo racconto: la storia è fatta anche di curiosità e di aneddoti, non soltanto di cicli che si ripetano o di meccanismi automatici. Tra questi, citiamo quello, che ha veramente dell’incredibile, della spedizione di rifornimento e soccorso effettuata dallo Zeppelin L59/17, che avrebbe dovuto percorrere, senza prevedere un ritorno, la distanza tra il campo bulgaro di Jambol e l’Ost-Afrika, circa 7.000 chilometri, trasportando decine di tonnellate di rifornimenti e di armi. Il grande dirigibile venne fermato a metà strada, per la falsa notizia della resa di Lettow-Vorbeck e tornò indietro, dopo aver percorso quasi 3.500 chilometri, nel novembre del 1917: un romanzo nel romanzo, si potrebbe dire. Numerosi sono gli aneddoti che meriterebbero spazio in questa prefazione: nulla, però, si vuole togliere al paicere del lettore nello scoprirli. Con lo spostamento delle Schutztruppen in Mozambico, il conflitto si avviò verso l’epilogo: mentre, in Europa, l’offensiva Hindenburg si arenava definitivamente sui vecchi campi di battaglia del 1914, in Africa, il destino della colonna Lettow-Vorbeck andava delineandosi; e, forse, questo epilogo era previsto fin dall’inizio dal comandante germanico, che non era uno sprovveduto. Il che rende ancora più nobile ed interessante la sua figura. Di nuovo, i tedeschi puntarono verso nord, in questa gara a rimpiattino che aveva caratterizzato tutta la condotta della guerra, tra colpi di mano audacissimi ed agguati feroci, finchè, con qualche giorno di ritardo rispetto al resto del mondo, giunse anche a Lettow-Vorbeck la notizia della cessazione delle ostilità. Come detto, il 25 novembre, il contingente tedesco dell’Ost-Afrika si arrese al generale Edwards e a Van Deventer, il grande avversario di Lettow-Vorbeck: il Kaiser aveva lasciato la Germania già da 17 giorni e da 14 la prima guerra mondiale era finita. Questa scritta da Rosselli, insomma, è la storia di un crepuscolo, di un Goetterdaemmerung: ma si tratta, pur sempre di un bellissimo crepuscolo. E, va da sé, di un bellissimo libro.

Marco Cimmino

martedì 25 settembre 2012

Monarchici Toscana: Olocausto Armeno

Monarchici Toscana: Olocausto Armeno: --> Lucca, Convento San Cerbone – Lucca 15 settembre 2012 “L'Olocausto Armeno” Organizzata dal vicecoordinatore della Toscana...

venerdì 14 settembre 2012

Martini: il Cardinale che preferiva gli applausi alla Chiesa

Il Cardinale che preferiva gli applausi alla Chiesa

(di Antonio Socci su Libero del 02-09-2012) 
Vedendo il mare di sperticati elogi ed esaltazioni sbracate del cardinale Martini sui giornali di ieri, mi è venuto in mente il discorso della Montagna dove Gesù ammonì i suoi così:  “Guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi” (Luca 6, 24-26).  
I veri discepoli di Gesù infatti sono segno di contraddizione: “Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo (…) il mondo vi odia. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi” (Gv 16, 18-20).
Poi Gesù indicò ai suoi discepoli questa beatitudine: “Beati voi quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e v’insulteranno e respingeranno il vostro nome come scellerato, a causa del Figlio dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate, perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nei cieli” (Luca 6,20-23).
Una cosa è certa, Martini è sempre stato portato in trionfo sui mass media di tutto il mondo, da decenni, e incensato specialmente su quelli più anticattolici e più ostili a Gesù Cristo e alla sua Chiesa.Che vorrà dire? Obiettate che non dipendeva dalla sua volontà? Ma i fatti dicono che Martini ha sempre cercato l’applauso del mondo, ha sempre carezzato il Potere (quello della mentalità dominante) per il verso del pelo, quello delle mode ideologiche dei giornali laicisti, ottenendo applausi ed encomi.
E’ stato un ospite assiduo e onorato dei salotti mediatici fino ai suoi ultimi giorni. O vi risulta che abbia rifiutato l’esaltazione strumentale dei media che per anni lo hanno acclamato come l’Antipapa, come il contraltare di Giovanni Paolo II e poi di Benedetto XVI?
A me non risulta. Eppure avrebbe potuto farlo con parole ferme e chiare come fece don Lorenzo Milani quando la stampa progressista e la sinistra intellettuale e politica diceva: “è dei nostri”.
Lui rispondeva  indignato: “Ma che dei vostri! Io sono un prete e basta!”. Quando cercavano di usarlo contro la Chiesa, lui ribatteva a brutto muso: “in che cosa la penso come voi? Ma in che cosa?”, “questa Chiesa è quella che possiede i sacramenti. L’assoluzione dei peccati non me la dà mica L’Espresso. E la comunione e la Messa me la danno loro? Devono rendersi conto che loro non sono nella condizione di poter giudicare e criticare queste cose. Non sono qualificati per dare giudizi”.
E ancora: “Io ci ho messo 22 anni per uscire dalla classe sociale che scrive e legge L’Espresso e Il Mondo. Devono snobbarmi, dire che sono ingenuo e demagogo, non onorarmi come uno di loro. Perché di loro non sono”, “l’unica cosa che importa è Dio, l’unico compito dell’uomo è stare ad adorare Dio, tutto il resto è sudiciume”.
Queste meravigliose parole di don Milani, avremmo voluto ascoltare dal cardinale, ma non le abbiamo mai sentite. Mai. Invece ne abbiamo sentite altre che hanno sconcertato e confuso noi semplici cattolici. Parole in cui egli faceva il controcanto puntuale all’insegnamento dei Papi e della Chiesa.
Tanto che ieri “Repubblica” si è potuta permettere di osannarlo così: “non aveva mai condannato l’eutanasia”, “dal dialogo con l’Islam al sì al preservativo”.
Tutto quello che le mode ideologiche imponevano trovava Martini dialogante e possibilista: “non è male che due persone, anche omosessuali, abbiano una stabilità e che lo Stato li favorisca”, aveva detto.
E’ del tutto legittimo – per chiunque – professare queste idee. Ma per un cardinale di Santa Romana Chiesa? Non c’è una contraddizione clamorosa? Cosa imporrebbe la lealtà?
Quando un cardinale afferma: “sarai felice di essere cattolico, e altrettanto felice che l’altro sia evangelico o musulmano” non proclama l’equivalenza di tutte le religioni?
Chi ricorda qualche vibrante pronunciamento di Martini che contraddiceva le idee “politically correct”? O chi ricorda un’ardente denuncia in difesa dei cristiani perseguitati?
Io non li ricordo. Preferiva chiacchierare con Scalfari e – sottolinea costui – “non ha mai fatto nulla per convertirmi”. Lo credo. Infatti Scalfari era entusiasta di sentirsi così assecondato nelle sue fisime filosofiche.
Nella seconda lettera a Timoteo, san Paolo – ingiungendo al discepolo di predicare la sana dottrina – profetizza: “Verranno giorni, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità, per volgersi alle favole” (Tm 4, 3-4).
Nella sua ultima intervista, critica con la Chiesa, Martini si è chiesto dove sono “uomini che ardono”, persone “che hanno fede come il centurione, entusiaste come Giovanni Battista, che osano il nuovo come Paolo, che sono fedeli come Maria di Magdala?”.
Evidentemente non ne vede fra i suoi adepti, ma nella Chiesa ce ne sono tantissimi. Peccato che lui li abbia tanto combattuti, in qualche caso perfino portandoli davanti al suo Tribunale ecclesiastico. Sì, questa è la tolleranza dei tolleranti.
Martini ha incredibilmente firmato la prefazione a un libro di Vito Mancuso che – scrive “Civiltà cattolica” – arriva “a negare o perlomeno svuotare di significato circa una dozzina di dogmi della Chiesa cattolica”.
Ma il cardinale incurante definì questo libro una “penetrazione coraggiosa” e si augurò che venisse “letto e meditato da tante persone” (del resto Mancuso definisce Martini “il mio padre spirituale”).
Dunque demolire i dogmi della fede non faceva insorgere Martini. Ma quando due giornalisti – in difesa della Chiesa – hanno criticato certi intellettuali cattoprogressisti, sono stati da Martini convocati davanti alla sua Inquisizione milanese e richiesti di abiura.
Che paradosso. L’unico caso, dopo il Concilio, di deferimento di laici cattolici all’Inquisizione per semplici tesi storiografiche porta la firma del cardinale progressista. “Il cardinale del dialogo”, come lo hanno chiamato Corriere e Repubblica.
I giornali sono ammirati per le sue massime. Devo confessare che io le trovo terribilmente banali . Per esempio: “emerge il bisogno di lotta e impegno, senza lasciarci prendere dal disfattismo”.
Sembra Napolitano. Grazie al cielo nella Chiesa ci sono tanti veri maestri di spiritualità e amore a Cristo. L’altro ritornello dei media è sull’erudizione biblica di Martini. Senz’altro vera.
Ma a volte il buon Dio mostra un certo umorismo. E proprio venerdì, il giorno del trapasso di Martini, la liturgia proponeva una Parola di Dio che sembra la demolizione dell’erudizione e della “Cattedra dei non credenti” voluta da Martini, dove pontificavano Cacciari e altri geni simili.
Scriveva dunque san Paolo che Cristo lo aveva mandato “ad annunciare il Vangelo, non con sapienza di parola, perché non venga resa vana la croce di Cristo. La parola della croce infatti è stoltezza per quelli che si perdono, ma per quelli che si salvano, ossia per noi, è potenza di Dio.
Sta scritto infatti: ‘Distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò l’intelligenza degli intelligenti’. Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dov’è il sottile ragionatore di questo mondo? Dio non ha forse dimostrato stolta la sapienza del mondo? Poiché… è piaciuto a Dio salvare i credenti con la stoltezza della predicazione… Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1Cor 1, 17-25).
E il Vangelo era quello delle dieci vergini, dove Gesù – ribaltando i criteri mondani – proclama “sagge” quelle che hanno conservato la fede fino alla fine e “stolte” quelle che l’hanno perduta.
Spero che il cardinale abbia conservato la fede fino alla fine. Le esaltazioni di Scalfari, Dario Fo, “Il Manifesto”, Cacciari gli sono inutili davanti al Giudice dell’universo (se non saranno aggravanti).
Io, come insegna la Chiesa, farò dire delle messe e prenderò l’indulgenza perché il Signore abbia misericordia di lui. E’ la sola pietà di cui tutti noi peccatori abbiamo veramente bisogno. E’ il vero amore. Tutto il resto è vanità.

EDWARD LUTTWAK: “INUTILE DIALOGARE CON L’ISLAM”



 

 

 

EDWARD LUTTWAK: “INUTILE DIALOGARE CON L’ISLAM”

di Andrea Cuomo
fonte: Il Giornale

Per Edward Luttwak l’ideologia musulmana è incompatibile con la democrazia: "Il conflitto non è tra il mondo islamico e gli Usa, ma tra il mondo islamico e l’intero mondo non islamico"
Professor Edward Luttwak, l'attentato di Bengasi riapre il conflitto tra l'islam e gli Stati Uniti?
«Il conflitto non è tra il mondo islamico e gli Stati Uniti, ma tra il mondo islamico e l'intero mondo non islamico. A Mindanao attaccano i filippini cristiani, il Pakistan è in conflitto con l'India, ovunque c'è l'islam in contatto con il non-islam, l'incitamento alla violenza da parte dei predicatori ha il suo effetto. Per fortuna in pochi ricorrono alla violenza, ma tutti gli altri stanno a guardare, compresi eserciti e forze dell'ordine».
È molto carico l'economista statunitense di origine romena, 69 anni, conosciuto per le sue pubblicazioni sulla strategia militare e la geopolitica, che segue con grande attenzione le vicende italiane e parla benissimo la nostra lingua. Pessimista e provocatorio lo è sempre stato; che sia contrario al buonismo del dialogo con i sordi e alle missioni di pace in genere non è certo una novità.
Eppure stavolta c'è qualcosa di più: a migliaia di chilometri di distanza da noi, la sua rabbia serena, se si può dire così, stavolta si percepisce anche attraverso il filo del telefono. Forte e chiara. Per lui ogni sforzo di venire a patti con l'islamismo è sciocco e vano. E inutilmente cercheremo raggi di luce nel corso dell'intervista.

Un quadro cupo, il suo...
«Ma non è mica un quadro cupo, è la realtà».
Dove potrà arrivare la reazione degli Stati Uniti?
«Guardi, c'è un macrotrend evidente, che è quello di lasciare gli islamici cuocere nel loro brodo. Gli Stati Uniti sono riluttanti a intervenire in Libia, in Siria, perché è chiara ormai l'inutilità di certe azioni. Basti pensare all'Irak, all'Afghanistan. Grandi spese, nessun risultato. Una perdita di soldi e di tempo. Me lo lasci dire, in alcuni casi si tratta di barbari che governano selvaggi. È tutto inutile. L'ambasciatore Chris Stevens rappresentava quell'entusiasmo per la questione mediorientale che ora, con la sua uccisione, sarà sempre meno convincente e avrà sempre meno riscontro nella realtà».
Questo è il macrotrend, come lo chiama lei. Ma nell'immediato qualcosa l'Occidente può fare?
«Certo: possiamo liberarci del linguaggio falsificante. Ad esempio non c'è una nuova democrazia in Libia, perché se non c'è rispetto della persona non può esserci democrazia. E non credo che le cose potranno cambiare per un secolo o due. Per ora islam e democrazia sono due parole incompatibili».
Ma ci sono esempi di islam democratico, pensi alla Turchia...
«Certo, ma lì c'è democrazia nella misura in cui ci sono regimi anti-islamici. Ma appena sale al potere un partito islamico, e con Erdogan ci siamo quasi, bye-bye alla democrazia turca».
L'attentato all'ambasciata Usa a Bengasi ha colpito l'Occidente senza varcare i confini libici. Possiamo attenderci di essere colpiti prossimamente anche all'interno dei nostri confini? Ci potrebbe essere un altro 11 settembre?
«Solo nei limiti delle possibilità degli islamisti, che per fortuna solo limitate. Del resto l'11 settembre è stato “fabbricato” in Occidente, basti pensare a Mohammed 'Atta, uno degli attentatori, un ingegnere egiziano che lavorava in Germania. Quando invece gli attentati sono progettati in questi Paesi non arrivano a questo livello di organizzazione. Gli islamici sono incapaci anche nella violenza».
Neanche l'Italia corre rischi a suo giudizio?
«L'Italia e tutta l'Europa non hanno nulla da temere, soprattutto se agiranno con moderazione».
Ecco, qual è il ruolo in tutto questo dei Paesi che affacciano sul Mediterraneo e in particolare dell'Italia?
«Nessun ruolo. I Paesi del Mediterraneo hanno solo la sfortuna di essere più vicini geograficamente all'islam, dovranno turarsi il naso per non sentire la puzza di integralismo, di ideologia, di selvaggeria. Mentre noi negli Stati Uniti abbiamo il lusso di essere lontani da tutto ciò».
Beh, c'è sempre la diplomazia. Possibile non possa fare nulla?
«Certo, bisogna essere diplomatici, ma non cretini. Quando trattiamo con i Paesi islamici è giusto essere cauti e moderati. Ma quando parliamo tra di noi occidentali è meglio non prenderci in giro, almeno nell'uso delle parole».

giovedì 30 agosto 2012

GIAMPAOLO VISETTI: ‘EL GRANDE PLAGIATOR DE LA REPUBBLICA’

GIAMPAOLO VISETTI: ‘EL GRANDE PLAGIATOR DE LA REPUBBLICA’

Antonio Talia è un giornalista abbastanza oscuro, almeno ai non addetti ai lavori, ma molto serio, che resoconta di Cina dalla Cina (cioè non lo fa seduto sulla poltrona di casa sua con internet a portata di mano). Un bel giorno, al povero Talia accade però una cosa un po’ stranina; scopre, infatti, che Giampaolo Visetti, s
trombazzato corrispondente per La Repubblica da Pechino, saccheggia regolarmente il suo lavoro e lo ripropone come proprio. Il fattaccio si ripete svariate volte e Talia, ovviamente, si incazza. Prova prima a farlo presente a Repubblica, apre poi un blog, ed inizia soprattutto a prestare maggiore attenzione a quanto verga e riporta dal lontano Oriente l’indomito quanto disinvolto Visetti, solito non solo a scopiazzare i temi altrui, ma a distorcere parecchio i fatti, condendoli con straordinarie fresche. Il tutto, ovviamente, con risultati a dire poco imbarazzanti.

Ora, ai nostri occhi la questione appare pesantuccia, oltre che penosa. Non si tratta, infatti, del frequente fenomeno italiota per il quale anche firme note e stralodate armano la loro sagace penna per sparare dotte fesserie. Se Visetti copia di sana pianta articoli e/o servizi (come è accaduto. E le prove abbondano) senza manco citare di striscio l’autore, trattasi ovviamente di un’occhiuta rapina, premeditata, ragionata e pure pericolosa poiché foriera di possibili danni a carico della stessa vittima. Pur essendo un ottimo professionista, il povero Talia non gode, come si è detto, di vasta notorietà (non lo si vede in televisione, non va a colazione con Di Pietro, non frequenta Capalbio) ragion per cui a molti pensosi lettori di ‘Repubblica’ potrebbe apparire lui il vile plagiatore del ‘grande’ Visetti. Considerazione, la nostra, che va posta al netto dei fantasiosi (democratico eufemismo) servizi composti da quest’ultimo e di cui si diceva: ‘opere’ (si veda il visettiano ‘resoconto del terremoto in Giappone’, capolavoro che avrebbe fatto scoppiare il fegato dall’invidia al povero Verne) che da sole dovrebbero bastare a suggerire al compassato timoniere di ‘Repubblica’, Ezio Mauro, di dirottare l’estro grafomane del Visetti dai resoconti del Far East a quelli di Sgurgola Marsicana (trattasi di un Comune già segnato dalla sfiga, e quindi sacrificabile: la salvezza di molti in cambio del sacrificio di pochi).

Detto questo, sarebbe, quindi, il caso – in primis - che il nostro Presidente dell’Ordine dei Giornalisti (dico ‘nostro’ poiché il sottoscritto giornalista è pure) richiamasse, diciamo, alla realtà il Visetti, rendesse poi nota la vicenda e, soprattutto, toccasse la spalla al direttore Mauro, inducendolo a prendere qualche provvedimento nei confronti del suo bizzarro puledro di razza. Senza dimenticarsi di vergare qualche sobria riga di scuse ad Antonio Talia, della cui falsa opera ‘Repubblica’ si è avvalsa a mani basse.

Bebe Alberto Rosselli

grande guerra - resistenza - repubblica sociale - storia della repubblica

grande guerra - resistenza - repubblica sociale - storia della repubblica

giovedì 23 agosto 2012

CONFERENZA SU: L' OLOCAUSTO ARMENO




SABATO 15 SETTEMBRE ORE 17.00 - PRESSO IL CONVENTO DI SAN CERBONE
                               VIA FORNACE, 1512 - MASSA PISANA - LUCCA

RAGGIUNGIBILE IN 15 MINUTI DA LUCCA, USCITA AUTOSTRADA  LUCCA,
                               PRENDENDO LA STATALE 12 IN DIREZIONE PISA.

                                                            CONFERENZA
                                                   L' OLOCAUSTO ARMENO

ORGANIZZATA DAL VICE COORDINATORE DELLA TOSCANA DI STELLA E CORONA
                                                  CAV. MAURO MAZZONI

                                                 DOTT: ALBERTO ROSSELLI
                DIRETTORE RESPONSABILE DELLA RIVISTA " STORIA E VERITA' " 
                          GIORNALISTA, SAGGISTA STORICO, EDITORE


                                            DOTT: EMANUELE ALIPRANDI
            RESPONSABILE PERIODICO " AKHTAMAR ON LINE"  SAGGISTA,
COORDINATORE DEL PROGETTO " INIZIATIVA ITALIANA PER IL KARABAKH"

            DURANTE LA CONFERENZA SARANNO PROIETTATE DIAPOSITIVE.
                  L' EVENTO SARA' ANTICIPATO DALLE SEGUENTI TESTATE:
                                                             IL GIORNALE 
                                                              LIBERO
                                                              IL FOGLIO

A FINE CONFERENZA, PER CHI VUOLE RESTARE , UNA CENA DI EURO 20,00
        PREPARATA DALLE SUORE " FIGLIE DI SAN FRANCESCO DI SALES"

martedì 14 agosto 2012

Occidente e Cina - Cristianesimo e marxismo:dialogo impossibile


Occidente e Cina - Cristianesimo e marxismo:dialogo impossibile


“Il dialogo tra comunisti e cattolici è diventato possibile solo da quando i comunisti hanno iniziato a falsificare Marx, e i cattolici Cristo”.

Nicolás Gómez Dávila

La difficile convivenza tra Chiesa cattolica e regime comunista cinese, e soprattutto il tentativo di Pechino di ‘strutturare’ la fede cristiana in modo da adattarla in qualche modo alle esigenze ideologiche del Partito pone fine, semmai ce ne fosse stato bisogno, ad una vecchia e falsa vulgata, quella di una possibile ‘sovrapposizione’ per (falsa) similitudine tra la parola di Dio riportata nei Vangeli e quella di Marx ed Engels riportata nel Manifesto del 1948: tesi ed auspicio sostenuti da alcuni focosi ma alquanto confusi esponenti estremi della cosiddetta Chiesa della liberazione, come il presbitero genovese Andrea Gallo, fondatore e animatore della comunità di San Benedetto al Porto di Genova.
Prima di affrontare lo spinoso. dibattuto e sempre attuale tema riguardante i rapporti e le suddette illusorie analogie tra cristianesimo e marxismo (ad esempio quello cinese), appare indispensabile porre una premessa, o meglio chiarire un punto. Occorre cioè distinguere l’essenza della cosiddetta società civile, quale espressione di una qualsivoglia struttura politico-organizzativa umana, dall’essenza della Chiesa in quanto espressione del cristianesimo, cioè di una fede religiosa. La prima entità, soggetta come è alle leggi dell’evoluzione storica e sociale, tende giocoforza - nel divenire del tempo - a trasformarsi; mentre la seconda, nella sua sostanza, tende invece a rimanere immutabile nello spazio temporale in quanto lo stesso concetto di tempo non le appartiene. Essa, infatti, non abbisogna di divenire o trasformarsi in quanto è e sussiste in Cristo e nella sua parola. In buona sostanza, la società civile si vede costretta per forza di cose a vivere in una dimensione prettamente terrena, contingente, cioè nella Storia, mentre l’istituzione ecclesiastica può, al di là delle apparenze, eludere questa costrizione possedendo la dimensione dell’Eterno che è Dio. Per questa ragione essa quindi avanza nei secoli vivendo sempre una medesima, immutabile realtà. Anche a dispetto di violente crisi, la Chiesa può fare conto su un suo secolo e su un suo tempo. Vive cioè nel mondo, ma non si nutre affatto del mondo.
Agli albori del XXI secolo, allo schiudersi di questo nuovo millennio denso di incertezze esistenziali, il Cristianesimo si trova ad affrontare un grave dilemma: adeguarsi alla mentalità di un epoca intrisa di materialismo e mondanità, mettendo da parte tutto ciò che caratterizza il suo credo in quanto religione (magari per ottenere nuovi spazi, per immergersi maggiormente nel sociale e per tentare di avvicinarsi di più alla gente risolvendone più che altro le ansie economiche, cioè le problematiche terrene), oppure può continuare a mantenere salda la propria, insostituibile e imprescindibile vocazione soprannaturale scontando con l’incomprensione e perfino con la persecuzione la fedeltà ai propri eterni principi. Data la natura e le finalità della religione cristiana, appare subito evidente che con il perseguire di eccessivi (seppure idealmente giusti) e arditi compromessi terreni i generosi fautori del Cristianesimo Sociale rischiano con la loro azione di sfigurare in realtà il vero volto della Chiesa, cioè quello di Cristo. Il Cristianesimo è e rimane, almeno per chi crede, una fede. Quindi, o lo si accetta in toto o lo si rifiuta in toto. In un epoca tecnologica in cui tutto è possibile e lecito, tutto è in sostanza diritto, mentre il dovere viene concepito come un faticoso optional, sussistono margini di discrezionalità o di capriccio assai ampi e impropri nell’affrontare e nel fare propria questa delicata scelta
Da decenni, alcuni intellettuali marxisti, post marxisti e cattolici progressisti sono infatti soliti proporre un’ipotesi assolutamente infondata. Se Gesù - essi sostengono - tornasse fra noi e decidesse di buttarsi in politica, si assocerebbe al credo egualitario marxista? Non sono infatti i comunisti una sorta di inconsapevoli cristiani in cerca a di una nuova Chiesa più “umana” e più giusta che soddisfi appieno le loro aspirazioni di eguaglianza? E in fin dei conti non sono sempre stati i seguaci di Marx a schierarsi in prima fila dalla parte dei poveri e a predicare la parità come in fondo fece Gesù? E ancora. Non è forse tempo che la Chiesa, che si è compromessa per lungo tempo con il Potere (almeno dall’ascesa al trono dell’imperatore Costantino), avvii un’opera di purificazione affinché ritrovi il vero senso del Vangelo?
Di fronte a questi interrogativi sorge però spontanea una contro domanda. Può in realtà sussistere la condizione di conciliazione reale tra cristianesimo e marxismo? Da un’attenta e non polemica analisi razionale sembrerebbe proprio di no, e con buona pace di quei cattolici “storicisti” che sono adusi ad interpretare il verbo evangelico in chiave esclusivamente sociale e terrena, tentando di depurarne la reale essenza trascendentale e metastorica.
Ma vediamo i motivi di tale incompatibilità di fondo. Tanto per cominciare la decisa negazione del concetto di “al di là”, caratteristica del credo marxista, annullerebbe di fatto uno dei pilastri della fede e rischierebbe di incidere, lentamente ma inesorabilmente, nei comportamenti intellettuali e fattuali del militante cattolico, soprattutto quello impegnato nel sociale, allontanandolo dal concetto di dogma e quindi di fede. Anche se, come è noto, dalla caduta del Muro di Berlino, cioè dalla fine del sogno comunista, i neo marxisti, ormai orfani di una chiesa materialista estinta, sono passati dal rifiuto a priori dell’oppio della religione ad un atteggiamento di graduale assimilazione dello stesso credo cristiano, facilitati in questa manovra proprio dalla ingenuità (in parecchi casi dalla connivenza) di molti cattolici impegnati nell’azione esclusivamente sociale e materiale. Comunque sia, partendo dal presupposto, ovviamente teorico, dell’esattezza delle analisi socioeconomiche marxiste, i teologi della “liberazione” non farebbero altro che accettare presupposti ideologici e che li condizionerebbero, cosicché quella che in ultima analisi dovrebbe essere una semplice integrazione o rivalutazione del pensiero cristiano tenderebbe, invece, di trasformarsi in una palese conversione dal cristianesimo al marxismo o a qualcosa di simile. Senza considerare che parlare oggi di marxismo è un po’ come parlare dell’esperanto e della sua utilità come strumento di comunicazione universale; significa cioè discutere circa l’utilità di una lingua in effetti reale, ma la cui applicazione pratica non risulta più che teorica, cioè impossibile.
Posto il valore ideale supremo di una rivoluzione sociale (ci riferiamo sempre a quella marxista in senso storico) che nel suo slancio emotivo ha preteso di attuarsi attraverso la lotta di classe e mediante il sovvertimento o la modifica di una scala sociale, l’idea di una contestuale attribuzione trascendentale nella quale immergersi (quella legata al credo cristiano), perderebbe inevitabilmente il suo significato; anche perché nella prassi e nell’azione ideologica, la stessa Verità piuttosto che “essere” (cioè come è intesa nel Vangelo) tenderebbe ad “attuarsi”, proprio nel contesto di un divenire puramente e limitatamente storico. Più precisamente, il primato esclusivo del divenire materiale sull’essere metastorico relativizzerebbe e vanificare tutti i valori metafisici del cristianesimo. Scompenso che si riscontrerebbe anche nella disamina del carattere trascendente della distinzione tra bene e male, laddove, secondo il materialismo, l’etica viene obbligatoriamente dissolta nell’azione sovvertitrice delle gerarchie e delle prassi socio economiche. E con questo, il passaggio all’immanentismo storicistico diventa quindi inevitabile. Dio inizia, erroneamente, ad essere identificato con la Storia intesa come travagliato processo di auto-redenzione dell’uomo tramite la lotta di classe. L’uomo e le sue idee prendono il posto di Dio e del suo progetto trascendente e salvifico. Anche se, come è noto, il cristianesimo non trova mai nella Storia il criterio della sua verità, ma al contrario lo ricerca nella Rivelazione: A differenza del marxismo (ma anche del liberismo) il cristianesimo non vive, infatti, nel tempo che scorre poiché questa fede nel suo profondo custodisce già una verità trascendente che si sottrae al ciclo morfologico delle culture e delle società: soggetti terreni che hanno per loro natura un inizio e una fine. Tutto infatti scorre, rimane soltanto la verità di Cristo. L’assolutizzazione della rivoluzione classista corrisponde poi ad una assolutizzazione della politica, dove ogni affermazione della fede e della teologia viene subordinata ad un criterio politico. In sintonia con l’opposizione marxista della “filosofia della prassi” a quella speculativa, i teoreti della liberazione sono soliti  sostituire l’ortoprassi all’ortodossia, con lo scopo di elevare il metodo rivoluzionario a criterio supremo della verità teologica. Di conseguenza, e non a caso, alla nozione di povero delle Sacre Scritture si è tentato (e si tenta ancora, anche se in maniera surrettizia) di sostituire quella marxista di proletario. Ma attenzione, la miseria del proletariato viene comunque intesa dai marxisti come una forza rivoluzionaria capace di creare una nuova società dopo averne distrutta un’altra, adoperando in questo contesto finalità e metodi assolutamente distanti e contrastanti dal pensiero di Cristo. La vagheggiata “Chiesa del Popolo” altro non è che una “Chiesa di Classe”, mentre, al contrario, la Chiesa è di tutti, poiché tutti gli uomini, poveri e ricchi, sono “figli di un unico riscatto”. La ragione di fondo che spinge ad una socializzazione della Chiesa sta nel fatto che il marxismo e certo cattolicesimo sociale considerano ancora la Chiesa universale e la teologia tradizionale come espressione di un organismo sostanzialmente reazionario e oppressivo. E sulla base di questa errata considerazione le cosiddette teologie della liberazione sono solite formulare risposte, ovviamente sbagliate, ad un problema a tutti gli effetti reale, cioè quello della povertà e dell’ingiustizia. Questione, quest’ultima, che, soprattutto in certe nazioni come quelle del Terzo Mondo, economicamente depresse o sfruttate da regimi militari (di destra e di sinistra) o da dittature capitaliste o comunque fondanti su quei concetti di modernismo e produttività riferibili sia al liberismo sia allo stesso marxismo, appare dolorosamente reale. D’altro canto, laddove i valori dello spiritualismo cristiano hanno ceduto il passo a quelli dello storicismo e del materialismo l’uomo ha cessato di fatto di essere persona ed unico irripetibile imboccando, in cambio di migliorie sociali ed economiche, il tunnel dell’incertezza. Allo stesso modo in cui un benestante cittadino europeo è solito barattare per un “cellulare” alla moda gli eterni valori derivanti dalla cultura ebraico-cristiana. Ciò che i marxisti e i cattolici della “liberazione” non sembrano comprendere è che il cristianesimo non ha nulla da imparare da alcuno o da chicchessia, se non dal verbo. E questo vale anche e soprattutto sotto il profilo della condotta sociale. I cattolici possono infatti contare su una propria, completa e soddisfacente “dottrina sociale” convalidata da un’esperienza secolare, a cominciare da S. Tommaso, passando poi per la Rerum Novarum e le varie Encicliche. Purtroppo, le Sacre Scritture vengono lette spesso con superficialità, e soprattutto decrittandole attraverso categorie interpretative della “propria epoca” per scovarvi una soluzione ad uno dei tanti drammatici problemi ‘materiali’ del momento. Storicizzando totalmente la portata del messaggio cristiano, molti tendono infatti ad eliminare dal Vangelo qualsiasi autenticità ed eternità. La parola di Dio, come è noto, si rivolge agli uomini di ogni contesto sociale ed epoca. Cristo, come sosteneva Kierkegaard, è il “contemporaneo di ogni epoca” in quanto non coincide con nessuna epoca, cioè non coincide con il tempo. Tentare di rendere “contemporaneo” il Vangelo, cercare di storicizzarlo a tutti i costi, non significa santificarlo nel modo giusto, ma al contrario attualizzarlo e quindi annullarlo. Senza considerare che Gesù, nelle sue predicazioni, non ha mai inteso distruggere o sovvertire alcun sistema sociale. Egli proclamò la sua fedeltà alla Legge di Dio che non voleva certo abolire, ma al contrario completare ed osservare (lo testimoniano gli scritti di Matteo e Luca). Il non ben compreso episodio del “tributo” e la snobbata (poiché non politicamente corretta) parabola dei talenti forniscono l’immagine di un Cristo egualmente lontano sia dai “collaborazionisti” sadducei e dagli “ambigui” farisei che dai “rivoluzionari” zeloti. Anche se in più occasioni Gesù lancia pesanti strali contro l’iniquità dell’ingiustizia sociale (“Guai ai ricchi…”). Ma pur tuttavia questa sua condanna non viene compiuta da un punto di vista sociale, ma religioso in quanto Egli non pensa affatto ad una rivoluzione sociale e quindi “storica”, bensì interiore, anche se da essa si possono auspicare positive conseguenze sociali. Come insegnano le scritture, Cristo non è venuto sulla terra per sovvertire un determinato ordinamento politico-sociale; Egli vi è giunto - gesto unico e metafisico - per redimere i peccatori e liberare l’uomo dalle catene del male. Ciò che, come è noto, Gesù condanna non è un ordine socio-politico come quello imperiale romano, ma “l’attaccamento ai beni di questo mondo”. In quest’ottica, il cristianesimo è una vera Rivoluzione, epocale, ma soltanto nel senso che allontana i cuori degli uomini dal mondo, cioè dalla materia, per chiamarli a Dio. E in questo senso, forse, trattasi più di una Conversione che di una Rivoluzione. Gesù, infatti, raccomanda agli uomini la fede nella Provvidenza e li esorta ad accontentarsi del minimo indispensabile. Egli ammonisce - è vero - i ricchi ed esalta i poveri, in ispirito. Ma attenzione, i poveri evangelici non sono affatto i “non ricchi” desiderosi di diventarlo. Non si tratta quindi di poveri in senso sociologico, ma in senso religioso. Si tratta di coloro i quali hanno scelto liberamente la povertà in maniera solare, come S. Francesco. La povertà annunciata da Gesù è sempre gioiosa e volontaria e agli uomini illuminati che l’hanno scelta la lotta di classe non si addice affatto. In questo contesto, in Cristo si colgono alcune anticipazioni precristiane socratiche e platoniche. Ma anche a tal riguardo gli equivoci da parte dei teorici marxisti non mancano. Essi hanno intravisto infatti in alcuni testi contenuti nella “Repubblica” di Platone una traccia di comunismo, dimenticando che l’eguaglianza marxista ha uno scopo prettamente economico, mentre quella platonica si fonda, similmente a quella evangelica, alla rinuncia spontanea ai beni terreni. Trattasi di una prescrizione per saggi o per uomini spiritualmente superiori alla media, cioè migliori nella loro singolarità. In altre parole, l’eguaglianza platonica non ha alcun fondamento materialistico, bensì spiritualistico e morale. Il filosofo greco, ispiratore, per certi versi, della teologia cristiana, guarda in sostanza alle Idee, mentre i marxisti, ma anche i capitalisti, i globalizzatori e gli anti globalizzatori guardano soltanto alla Terra. Osservare il Cielo è diventata un’inutile fatica o meglio una possibilità come tante altre. E ciò che più incuriosisce è che a sostenere questa tesi sono i cattolici progressisti più degli stessi marxisti che, in quanto atei, sono in qualche modo giustificati ad assumere questa posizione.
Ma torniamo a Gesù. Egli, è vero, amò frequentare i poveri e gli emarginati, ma anche i ricchi, i gabellieri e i soldati. E quando Maria di Betania, colta nell’ungere i capelli di Cristo con olio prezioso, venne accusata da un gruppo di seguaci di avere sperperato “trecento denari” che si sarebbero potuti donare ai poveri, Gesù così rispose: “I poveri li avrete sempre, me, invece, non mi avrete sempre” (Matteo, Marco, Giovanni).
Insomma, trovare identità di vedute tra il Vangelo, il dogma marxista o l’escamotage cattolico-sociale appare impresa ardua. Basti pensare al concetto di “amore per i nemici”, presente in tutti i Vangeli. Ben difficilmente tale sovrumano concetto potrebbe accordarsi a quello di lotta di classe (professato apertamente anche da taluni preti del “dissenso”), ma anche di liberalismo economico. Teorie queste ultime che come è ovvio si basano su un sottinteso concetto di “supremazia” che non ha nulla a che vedere con la parola di Cristo. L’inconciliabilità appare indiscutibile, sia sul piano dottrinale che pratico. Ritornando alla inesatta interpretazione del Vangelo compiuta dai marxisti ricordiamo che le Sacre Scritture vanno sempre assunte in toto et sine glossa; cioè non vanno interpretate attraverso la lente deformante del contingentismo storico. Interpretare il cristianesimo come una sorta di semplice messaggio sociale e rivoluzionario risulta infatti un puro e semplice non senso, anche perché il cristianesimo, sic et simpliciter, non si interpreta. Esso non è un credo sociale o antisociale, non fa riferimento ad un semplice condottiero, un politico o a un sindacalista, ma addirittura ad un Redentore. L’idolatria del sociale si rivela, in ultima analisi, come una conseguenza del travisamento della figura del Cristo, della sua riduzione sociologica, dimenticando che Gesù considerò sempre il potere politico alla stregua di una tentazione diabolica (Matteo e Luca). Al Messia interessa, insomma, la Rivoluzione Interiore, ossia la Conversione. Egli propugna una salvezza escatologica. Ed è soltanto questo carattere di genuina, innovativa Rivoluzione Interiore che interessa il singolo nella sua unicità che potrà in futuro preservare il cristianesimo dalla fallimentare sorte toccata ad ogni rivoluzione sociale: quella di degenerare inevitabilmente nella violenta repressione e nell’inganno, suscitando reazioni altrettanto violente e portatrici di altrettanto falsi valori. “Ogni rivoluzione - scrisse Albert Camus - per essere creatrice non può fare a meno di una norma morale e metafisica che ne equilibri il delirio storico”.
Nell’ambito di questa breve analisi, un altro punto risulta fondamentale. L’atteggiamento del cristianesimo nei confronti dell’impegno socio-politico è necessariamente critico in quanto Gesù non accetta la società, ma non la condanna neppure (“Date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”). Mentre, al contrario, l’accettazione totale della politica e dell’ideologia rientra in una prassi acritica. Ma come si è accennato non sono le dispute terrene ad interessare a Gesù il cui compito è quello di aprire la strada ad un Regno futuro, metafisico. E d’altra parte agli occhi del Salvatore tutte le istituzioni mondane sono per loro natura intrinseca provvisorie e caduche e non suscettibili di fondamentali miglioramenti, anche perché sostituibili con altre istituzioni egualmente negative e provvisorie. Tentare quindi di ridurre il Vangelo ad un semplice messaggio sociale, ad una sorta di pseudo manifesto politico, significa distorcerne il suo significato più profondo e interpretarlo attraverso un sistema di categorie sostanzialmente anticristiane. La Chiesa non può quindi essere marxista, ma nemmeno capitalista, poiché entrambi questi sistemi storici non sono stati capaci di assicurare a tutti gli uomini i diritti fondamentali professati da Cristo. Ma a quanto pare l’Occidente sembra essersi fatto sordo alla parola del Salvatore: non a caso la deforma, la adultera, la scompone, la tradisce, ne fa oro per gli sciocchi, secolarizzandone il contenuto. “In seguito alla morte di Dio, tutti i falsi profeti si considerano eredi di Dio”. Di qui le nuove, fragili escatologie proiettate in un futuro esclusivamente mondano; di qui il proliferare di improbabili, nuove dottrine e di mode globalizzatrici e antiglobalizzatrici, frutto anch’esse della storicizzazione radicale del cristianesimo; di qui la corsa folle verso il relativismo, l’utopia della tecnologia e del profitto, nell’illusione collettiva di avere imboccato una facile scorciatoia in nome di una sorta di “antropocentrismo illuminato”, utile forse a garantire interessi diplomatici e commerciali, a tutelare gli investimenti, i salari, le pensioni, i derelitti e i panda cinesi, ma a mantenere comunque l’uomo nella sua permanente e sostanziale incertezza esistenziale. E probabilmente - almeno per chi ha fede - nel peccato.