venerdì 30 luglio 2021


 Centro storico di Genova.


Passeggiando per Genova.
 
Mattino presto d'inverno: giornata tersa. Uscii di casa e non sapendo che fare sfiorai i lastricati cittadini andando su e giù per i ripidi sentieri mattonati, discesi gli infiniti gradini di quartieri germogliati su larghe spianate; mi soffermai quindi sui bordi panoramici di vecchi forti per osservare orizzonti marini lontani. Giunto ad un’alta torretta panoramica che dava sul porto, mi fermai. E proiettando lo sguardo da quello strapiombo, la città mi parve ricca di virtù nascoste e contraddittorie. Dalla coffa di quel pennone di pietra, contemplai la concreta sintesi di un paradosso urbanistico di gigantesche proporzioni: un assurdo edificato più per amor di commercio che per amor d’arte.
L’antico nucleo urbano, dilatatosi nel corso dei secoli, mostrava per piani e terrazze un ampio anfiteatro di palazzi, chiese, grattacieli, cisterne e silos. L’ingegno dei costruttori sembrava essersi sbizzarrito grazie ai numerosi enigmi del suolo, e il loro talento non pareva avere trovato ostacoli di fronte alle obiettive difficoltà di un razionale e progressivo sviluppo. Anche se gli architetti avessero avuto più spazio, se avessero potuto abbandonarsi alla fantasia, non avrebbero comunque trovato quelle infinite risorse e quella multipla varietà di motivi che dona all’intreccio stesso delle costruzioni quella originalità fulminea, capace di introdurre in ogni anfratto il lume dell’acume. Mai i costruttori sarebbero giunti di proposito a dar vita a tali brillanti combinazioni di portici, gradinate, piazze, gallerie e ripidissime vie: fitta ma casuale compenetrazione di stili e di funzioni, di opportunità e di interessi. Insieme di combinazioni, queste, che offrono al trepidare delle arti il carattere di un’inattesa sorpresa e alla più modesta delle materie - come la pietra ad esempio - un’aurea sobrietà.
Bebe Rosselli (1985).

domenica 18 luglio 2021


 

"Alberto Rosselli è uno dei miei storici preferiti, sia per la miniera di notizie che fornisce, sia per la sua attitudine a esplorare angoli nascosti o poco illuminati della Storia. L’ultima sua fatica è l’intrigante La caduta dell’impero ottomano. Le radici della politica di Erdogan (ArchivioStoria, pp. 200, €. 18). Infatti, com’è noto, Erdogan non fa mistero di voler tornare ai fasti di Solimano il Magnifico."
 
Rino Cammilleri (Il Giornale)
 
 
Troppo gentile Prof. Cammilleri.

sabato 10 luglio 2021



 
LE 'ALTRE' RESISTENZE: QUELLE ANTICOMUNISTE.
La resistenza antisovietica e anticomunista in Europa orientale 1944-1956. Di Alberto Rosselli).
 
Introduzione
 
Per decenni, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale fino agli albori degli anni Novanta, buona parte della storia e delle vicissitudini dei popoli dell’Europa orientale e balcanica sottoposti ai regimi comunisti sono rimaste avvolte da un alone di mistero. Anche se dei molteplici disastri prodotti, tra il 1917 e il 1989, in tutto il mondo, dalle dittature marxiste ortodosse e no, si era avuta una notevole messe di informazioni e notizie, grazie soprattutto alle testimonianze dei molti profughi che riuscirono ad evadere dai vari “paradisi del popolo”, e grazie alle opere pubblicate da illustri scrittori e scienziati scampati miracolosamente alle persecuzioni e ai gulag e poi fuggiti o emigrati in Occidente. Ciononostante, bisognò attendere il definitivo collasso del sistema sovietico per venire a conoscenza di alcuni particolari fenomeni del dissenso manifestatisi oltre cortina nel secondo dopo guerra, come ad esempio quello della lotta armata clandestina che, tra il 1945, la metà degli anni Cinquanta ed oltre, si sviluppò e diffuse nei Paesi Baltici, in Ucraina, in Polonia, in Romania e, con caratteristiche e modalità diverse, anche in alcuni paesi balcanici, come la Iugoslavia e l’Albania.
Quello della lotta armata contro le dittature facenti capo a Mosca (evento che interessò anche diverse regioni caucasiche tra cui l’Azerbaijgian e l’Armenia russa) è stato un fenomeno sostanzialmente negletto, anche perché i regimi marxisti hanno provveduto con successo ad occultarne e minimizzarne la portata, attribuendone l’origine non tanto alla oggettiva violenza e impopolarità del sistema socio-economico comunista, ma alla supposta matrice “reazionaria” dei vari movimenti ribelli e alla concomitante azione destabilizzatrice esercitata su questi ultimi dalle potenze occidentali interessate “a minare l’integrità e la solidità. del mondo socialista”.
Lo scopo di questa breve pubblicazione non è quello di effettuare un’analisi politologica o sociologica dei regimi sovietico e comunisti, né tanto meno quello di rivisitare gli eventi più eclatanti e noti di contrarietà popolare a questi ultimi (vedi la rivolta di Budapest del 1956 e quella di Praga del 1968, entrambe schiacciate dalla reazione armata di Mosca). L’obiettivo che ci siamo preposti è infatti un altro (seppure in qualche modo collegato, direttamente o indirettamente, ai fatti di cui si è detto) è cioè la riscoperta di quei movimenti di resistenza post-bellici che per un decennio e più tentarono, con le armi e attraverso l’azione politica, di liberarsi dalla tirannide comunista. Si trattò – ed è bene precisarlo subito – di un fenomeno complesso, non certo elitario in senso sociologico o facente esclusivo riferimento - come per molti anni sostennero gli storici marxisti – a pochi gruppi di nostalgici e reazionari influenzati dall’”ideologia borghese”. Al contrario, esso fu – come si è detto - fenomeno vasto, idealmente motivato, squisitamente politico e socialmente trasversale, che interessò centinaia di migliaia di individui appartenenti a gruppi etnici, culturali e religiosi diversi - talvolta avversi tra di loro - ma tutti uniti da un unico ideale di libertà. Per tanto, troppo tempo, il silenzio e la reticenza dei regimi comunisti, ma anche quella delle potenze occidentali (l’effettivo, seppure parziale e disordinato appoggio che, a partire dal 1948, i servizi segreti britannici e statunitensi fornirono ai movimenti resistenziali d’oltre cortina venne sempre sottaciuto per ragioni di sicurezza) ha fatto sì che – ad esclusione degli studi avviati alla metà degli anni Ottanta da alcuni storici baltici - la pubblicistica occidentale non abbia prodotto che poche, scarne indagini sull’argomento.
Oggi però, grazie anche alla progressiva apertura ad est della UE, e soprattutto alla disponibilità di nuovo e inedito materiale proveniente dagli archivi di Mosca, di parte dei Paesi del Patto di Varsavia, è stato possibile avviare sistematiche e fruttuose ricerche sull’argomento. Anche se questo proposito occorre però premettere che, per quanto riguarda la Romania, la Croazia, la Slovenia e l’Albania, la quantità di documentazione messa a disposizione da questi governi appare ancora parzialmente insufficiente e comunque inferiore a quella relativa alle altre aree geopolitiche in cui si sviluppò il fenomeno.
Circa l’attendibilità e l’imparzialità delle fonti utilizzate dagli storici contemporanei per la messa a punto delle opere date alle stampe in questi ultimi cinque/otto anni, e dalle quali abbiamo in parte attinto, non vi è da dubitare. La stragrande maggioranza della documentazione relativa alla storia e all’attività dei movimenti anticomunisti dell’Europa Orientale e della Russia sovietica proviene infatti dagli stessi archivi dell’esercito, della polizia politica e dei servizi segreti sovietici e del Patto di Varsavia. Archivi dai quali sono anche emerse curiose pubblicazioni di regime stilate ai tempi della dittatura con il preciso scopo di addomesticare la verità. Tra il 1945 e il 1985, diversi (e dotti) studiosi russi non esitarono infatti a dare il loro appoggio diretto, e in malafede, alla cosiddetta industria della “disinformazione scientifica” messa in piedi dai vertici del Cremlino, collaborando alla stesura di opere sul cosiddetto “fenomeno del banditismo reazionario del secondo dopoguerra”. Opere che oggi, agli occhi dello studioso più attento, appaiono un insulto non soltanto alla memoria di tanti martiri della libertà spacciati per “criminali asociali e psicotici”, ma anche al buon senso. Trattasi infatti e per buona parte di materiale squisitamente propagandistico, privo di qualsiasi dignità scientifica, grossolano nei contenuti e talvolta anche nella forma. In questi testi la totalità dei partigiani anticomunisti processati dai tribunali sovietici o dei paesi del Patto di Varsavia vengono sempre bollati alla stregua di “banditi”, “delinquenti comuni”, “soggetti affetti da schizofrenia”, “esseri deviati dall’ideologia borghese”, “spie al servizio della reazione”, “sadici”, “ladri” e perfino “cleptomani”, “psicolabili”, “omosessuali” e/o “maniaci sessuali”. Insomma, di tutto e di più. I giudizi espressi in questi documenti appaiono ovviamente poco credibili e talmente faziosi, e ridicoli, da fare dubitare circa l’effettiva presa che tali argomentazioni possano avere conseguito sui loro destinatari (burocrati, militari, insegnanti di scuola, docenti universitari e, naturalmente, opinione pubblica).
L’importanza delle ricerche condotte dagli storici estoni e lettoni
Nell’ambito della ricerca sui fenomeni resistenziali anticomunisti e antisovietici post-bellici che coinvolsero i paesi dell’Europa orientale, un ruolo di primo piano spetta all’opera portata a compimento, a partire dalla metà degli anni Ottanta, dagli storici estoni (ma anche lettoni), primo fra tutti Mart Laar, l’attuale premier estone. Laar ha infatti dedicato molti anni della sua vita a questa missione sfociata in un eccellente saggio (War in the Woods: Estonia’s Struggle for Survival, 1944-1956) che ha rappresentato forse il primo tentativo di sistematica ricostruzione di questo complesso fenomeno. Per ultimare correttamente la sua fatica, Laar si è avvalso quasi esclusivamente di documenti e carteggi ufficiali di fonte sovietica, corroborati da testimonianze dirette raccolte dai reduci dei campi di concentramento siberiani e da ex-poliziotti e agenti della milizia comunista estone. Il suo lavoro, iniziato nel 1985, si è protratto per diversi anni e tra non pochi affanni e minacce. Nonostante i ripetuti dinieghi da parte delle autorità, egli è riuscito a mettere le mani su importanti dossier, raccogliendo e scandagliando migliaia di pagine di relazioni e studi compilati da organi e soggetti giudiziari, burocratici, militari e para militari.
A partire dall’estate del 1987, sull’esempio di Laar, altri studiosi baltici e ucraini, approfittando anche del progressivo disgregamento del sistema sovietico, hanno potuto parimenti fornire un notevole contributo alla ricerca, rendendo possibile la ricomposizione di un intero periodo storico in parte obliterato e in parte mistificato e malversato dalla storiografia ufficiale di regime. Verso la fine del 1987, uno dei primi periodici semi-liberi estoni pubblicò uno stralcio della ricerca di Laar (che in quel periodo era riuscito, dopo molti tentativi, ad ottenere un visto per l’estero) creando un vero e proprio caso. Temendo per la propria reputazione, il governo di Mosca esercitò immediate pressioni sulle autorità di Tallinn affinché si impedisse a Laar e agli altri ricercatori di proseguire in quella che venne definita molto sbrigativamente un’”opera di diffamazione nei confronti dell’Unione Sovietica”. Per nulla intimorito, Laar, che durante il suo viaggio in Occidente aveva avuto modo di stringere legami con i rappresentanti delle comunità estoni in esilio a New York, Toronto e Parigi (contatti che gli permisero di raccogliere anche le testimonianze degli esuli e dei dissidenti che erano riusciti a fuggire ad Ovest), rientrò in patria, riprendendo il suo lavoro. Ormai consci del fatto che in diversi paesi occidentali si era al corrente della sua attività di ricerca, le autorità estoni, paventando uno scandalo internazionale, preferirono astenersi dal procedere nei confronti di Laar che riuscì così a terminare la sua fatica. Complessivamente, fino ad oggi, gli storici estoni hanno raccolto oltre 30.000 pagine di interviste, documenti originali, sentenze di tribunali, ordinanze delle autorità, tabulati statistici, memorie e fotografie relative al periodo di resistenza (1944-1956), fornendo un contributo decisivo alla ricostruzione dell’intera recente storia dei Paesi Baltici.
Nell’ambito degli studi condotti sul fenomeno resistenziale baltico, un posto di particolare rilievo spetta anche ad altri due ricercatori, i lettoni Heinrihs Strods e Zigmars Turcinskis che, sulla falsariga di Laar, hanno svolto minuziose indagini sulle motivazioni politiche, sulle caratteristiche strutturali e operative e sulla consistenza dei singoli movimenti armati e politici baltici, e sui legami di cooperazione intercorsi tra le formazioni di questi Paesi durante il periodo dell’occupazione sovietica. Anche in questo caso, le pubblicazioni comprendono numerosi rapporti e relazioni ufficiali, documenti, tabulati e quadri statistici di provenienza sovietica, più resoconti di testimoni. Il lavoro di questi due studiosi si è rivelato, ai fini della nostra indagine, estremamente importante in quanto, almeno fino a poco tempo fa, non si possedevano ricerche di tipo comparativo riguardanti questo specifico argomento.
Lo studio comparativo di Heinrihs Strods
La più importate fonte dalla quale Heinrihs Strods (autore di Latvian National Partisan War, 1944-1956) ha attinto è rappresentata da oltre cento fascicoli della NKVD sovietica (Commissariato del Popolo per gli Affari Interni), redatti tra il 1945 e il 1948, e da 18 voluminosi tabulati statistici assemblati e pubblicati, il 15 febbraio 1947, dal bureau “Lotta contro il Banditismo” del ministero degli Interni di Mosca. L’analisi di tale materiale ha consentito a Strods di effettuare un’indagine dettagliata dei movimenti patriottici estone, lettone e lituano, evidenziandone analogie e differenze e soppesandone l’effettiva efficacia sia sotto il profilo militare che politico. Al termine della sua analisi, Strods ha convenuto che, in rapporto ai principali indicatori da lui utilizzati (capacità organizzativa e operativa, armamento, risultati ottenuti e perdite subite) tra il 1945 e il 1956, il movimento partigiano lituano risultò essere il più vitale, seguito nell’ordine da quello lettone e da quello estone sul quale, tuttavia, abbiamo a disposizione, almeno a tutt’oggi, una maggiore quantità di dati e notizie.
Dal materiale raccolto da Strods, si evince che tra l’estate del 1944 e il gennaio 1948, le forze di occupazione sovietiche e i reparti collaborazionisti si trovarono a dovere affrontare un avversario (costituito dai tre movimenti baltici) complessivamente bene organizzato e diretto, sufficientemente armato, agguerrito, profondamente radicato sul territorio e largamente sostenuto dalla popolazione e dalle chiese locali. Fattore quest’ultimo destinato a rivelarsi il vero punto di forza della resistenza, e quello maggiormente temuto dai sovietici. Il supporto fornito soprattutto dalla popolazione civile (in particolare dal ceto contadino) ai movimenti partigiani baltici e la resistenza passiva esercitata da larghi strati della popolazione nei confronti della politica governativa, ebbero infatti riflessi di notevole portata. Basti pensare che, sempre nel periodo preso in esame, l’Armata Rossa e le milizie comuniste estoni, lettoni e lituane dovettero fare fronte al dilagare di pericolosi e endemici fenomeni, quali la massiccia renitenza alla leva, le diserzioni e la disobbedienza civile. Nella fattispecie, tra la seconda metà del 1944 e la fine del 1947, i rapporti governativi fanno riferimento ad 84.234 casi di renitenza alla leva e a ben 7.133 casi diserzioni da parte di miliziani e coscritti delle tre Repubbliche poi confluiti in maggioranza nelle formazioni ribelli.
Ciò dimostra che, nonostante la propaganda di regime, una porzione significativa della popolazione cercò di evitare di prestare servizio nelle forze armate o nei reparti regolari dei rispettivi paesi, rifiutandosi anche di partecipare alla vita politica (bassa risultò sempre, in occasione delle molte consultazioni elettorali locali e nazionali “a scheda unica”, la percentuale dei votanti). Proprio per tentare di troncare le connessioni tra ribelli e popolazione e per ristabilire il controllo sul territorio e sul tessuto sociale, Mosca ricorse, oltre che all’intensificazione delle operazioni antiguerriglia (attuate attraverso l’utilizzo di forze speciali e di particolari metodologie belliche), ad espedienti estremamente crudeli ma efficaci, come quelli della deportazione di massa, degli arresti indiscriminati e dell’interruzione di approvvigionamenti alimentari e medicinali destinati ai civili. Attraverso tali sistemi, tra la fine del 1944 e il 1948, il ministero degli Interni sovietico poté dichiarare di avere “neutralizzato” 176.145 individui di tutte le età e di entrambi i sessi, di cui però soltanto 11.706 appartenenti alle cosiddette “bande armate controrivoluzionarie”, cioè ai gruppi partigiani. E da ciò si evince che lo sforzo maggiore profuso dalle autorità sovietiche per stroncare il fenomeno resistenza, si indirizzò quasi esclusivamente contro la popolazione e non contro le bande armate.
Anche se nel corso delle operazioni prettamente militari, l’Armata Rossa e le unità speciali della NKVD, della polizia e della milizia riuscirono ad eliminare diverse migliaia di partigiani, lasciando a loro volta sul campo 2.237 uomini. Per quanto concerne i 9.469 civili “deceduti durante le varie operazioni di antiguerriglia”, Strods sostiene, al pari di altri ricercatori sia baltici che ucraini, che la maggior parte di questi decessi fossero da ascriversi non tanto “a contingenze di guerra”, ma all’azione premeditata e diretta delle forze comuniste. Non si trattò in buona sostanza di morti accidentali dovute a combattimenti che coinvolsero villaggi o comunità, ma a vere e proprie rappresaglie che, dopo quasi tutti gli scontri, ma anche nei rari periodi di quiete, le truppe regolari erano solite effettuare a scopo terroristico contro la popolazione.
La cooperazione partigiana secondo Zigmars Turcinskis
Avvalendosi anch’egli di materiale proveniente dagli archivi governativi e dell’esercito ex-sovietici, Zigmars Turcinskis, dirigente dell’Istituto di Storia Lettone e autore della ricerca The cooperation between Latvian and Estonian national partisans, 1945-1952, ha effettuato un particolare studio relativo ai rapporti di cooperazione intercorsi tra i gruppi partigiani lettoni ed estoni (sono risultate scarse le interconnessioni tra l’attività partigiana lituana e quella degli altri due Paesi Baltici) a partire dalla fine del 1945. Una cooperazione che, a ben vedere, ebbe modo di svilupparsi in maniera non del tutto costante e omogenea, interessando soltanto determinate aree geografiche di confine tra le due repubbliche. La necessità da parte dei gruppi estoni e lettoni di stabilire contatti e di pianificare una comune strategia operativa venne promossa per cercare di contrastare in maniera efficace le sempre più frequenti e massicce offensive che, soprattutto a partire dal 1945, i sovietici scatenarono quasi simultaneamente nelle due regioni.
Ma come si è detto, la collaborazione tra gruppi estoni e lettoni ebbe modo di concretizzarsi soltanto in determinati periodi e aree geografiche. Tra il 1945 e il 1949, nella zona ovest della regione di Vidzeme (corrispondente grosso modo alla regione compresa tra il Golfo di Riga e la città di Valka) la cooperazione risultò quasi nulla, mentre ebbe invece modo di realizzarsi nella parte nord-orientale ed orientale della Lettonia, più o meno nell’area compresa tra la città di Valka e il confine con l’Urss. Secondo la documentazione raccolta da Turcinskis, risalirebbe al settembre 1945 la prima intesa tra partigiani lettoni ed estoni (l’incontro tra i leader dei rispettivi gruppi si svolse nella foresta di Gaujiena) mirata ad un’azione congiunta e coordinata tra le rispettive formazioni. Ed è, a questo proposito, interessante notare che poco tempo prima di tale accordo, l’LNPA (l’Unione Nazionale Partigiani Lettoni) e le forze sovietiche a presidio del territorio lettone siglarono una sorta di temporaneo armistizio che, a quanto pare, durò dal 29 settembre al 9 ottobre 1945. Nulla di strano, comunque, poiché già nel corso della Seconda Guerra Mondiale, in molte aree dell’Europa soggette all’attività partigiana antitedesca - come ad esempio in certe zone dell’Italia settentrionale - non di rado brevi e fragili “armistizi” vennero concordati tra le forze della Resistenza e quelle della RSI (Repubblica Sociale Italiana). Si ha comunque notizia che il 6 ottobre 1945 alcune piccole formazioni miste lettoni ed estoni, intrapresero le prime operazioni combinate, anche se al di fuori dalla zona interdetta ai combattimenti dall’accordo lettone-sovietico di cui si è detto. Ma entriamo nel dettaglio. Nel novembre 1945 un raggruppamento formato da 15 guerriglieri lettoni e tre estoni attaccò ed occupò per un certo periodo il villaggio estone di Hargla (situato nella contea di Veru, Estonia), eliminando due collaborazionisti appartenenti ai gruppi speciali anti-guerriglia (i cosiddetti istrebiteli). Questa fu, a quanto pare, la prima operazione condotta da elementi dei due paesi.
Successivamente, l’attività congiunta si spostò in territorio lettone. Nell’ottobre del 1945, quarantacinque partigiani lettoni appoggiati da quattro estoni presero d’assalto il villaggio di Zvartava (situato nella contea di Valka, Lettonia), uccidendo un collaborazionista e catturando altri quattro istrebiteli. E in seguito, analoghi raid vennero ripetuti, più o meno con le medesime modalità, in altre zone. Verso la fine del 1945, i leader partigiani concordarono che nuclei lettoni avrebbero preso parte ad operazioni sul territorio estone, mentre quelli estoni avrebbero agito in territorio lettone. Nella fattispecie, venne anche stabilito che determinate missioni non avrebbero comportato azioni di fuoco, ma soltanto un lavoro di ricognizione e di intelligence, espediente quest’ultimo adottato per cercare di ridurre al minimo i rischi di rappresaglie nei confronti della popolazione locale e dei famigliari dei partigiani schedati. Ciononostante, bande estoni effettuarono egualmente alcune “eliminazioni mirate” come quella che, il 22 maggio 1946, portò all’uccisione del capo dell’ufficio del Ministero della Sicurezza Statale (MGB) di Aluksne, maggiore Gusiev.
Dopo il 25 marzo 1949 (il giorno in cui le forze di occupazione sovietiche deportarono in Siberia oltre 10.000 civili), i gruppi lettoni ed estoni entrarono in una fase di grave crisi, anche perché l’appoggio al movimento da parte della popolazione terrorizzata dalle rappresaglie cominciò a venire meno. In questo periodo alcune unità lettoni iniziarono a sconfinare con maggiore frequenza in territorio estone, effettuando saccheggi di depositi di viveri governativi e sovietici. Oltre a ciò, i lettoni portarono a compimento in territorio estone cinque operazioni militari nel corso delle quali eliminarono altrettanti collaborazionisti, ferendone e catturandone altri nove. Dal canto loro, più o meno nello stesso periodo, formazioni estoni sconfinarono in Lettonia, uccidendo tre collaborazionisti comunisti e ferendone quindici. Stando alle notizie raccolte da Turcinskis, soltanto un civile lettone combatté nei gruppi partigiani estoni, mentre sette cittadini estoni entrarono a fare parte dei gruppi partigiani lettoni (cinque di essi provenienti dalla comunità lettone di Lauri, in Estonia). Anche se può sembrare strano, la barriera rappresentata dalla lingua risultò essere uno degli ostacoli maggiori all’integrazione tra i gruppi combattenti dei due paesi che, in ogni caso, non seppero comunque sviluppare una più solida e necessaria intesa politica e militare che, alla luce dei fatti, si sarebbe rivelata estremamente importante ai fini della lotta intrapresa contro il gigante sovietico.
L’appoggio occidentale
Si è accennato al ruolo delle potenze occidentali (soprattutto gli Stati Uniti e l’Inghilterra) che fino dalla metà del 1945, tramite i loro servizi segreti, erano al corrente dell’esistenza dei movimenti anticomunisti attivi nell’Europa orientale e dei grossi grattacapi che questi stavano causando a Mosca. Tra il 1949 e il 1953, i governi di Londra, Washington, ma anche di Parigi, tentarono di cavalcare, seppure in maniera discontinua e abbastanza scoordinata, tali fenomeni, evitando ovviamente di pubblicizzare la cosa. Un atteggiamento quest’ultimo che se da un lato venne adottato per mettere al sicuro (ma fino a che punto?) la Gran Bretagna e gli Stati Uniti da eventuali ritorsioni sovietiche, dall’altro contribuì a fare sì che il mondo libero non si accorgesse per tempo della reale e spietata natura dei regimi comunisti.
Già durante la fase terminale della Seconda Guerra Mondiale, alcuni tra gli osservatori occidentali più attenti, tra cui Winston Churchill, avevano iniziato a maturare il sospetto che Stalin, una volta terminato il conflitto, non si sarebbe certo accontentato del dovuto e avrebbe sicuramente cercato di espandere la sfera di influenza sovietica ben oltre i limiti, già sufficientemente ampi, concessi dagli accordi di Yalta del 7-12 febbraio 1945. Churchill, al contrario del presidente Franklin D. Roosevelt, ebbe a questo riguardo assai chiaro e precoce il presagio di una futura, dura contrapposizione tra le democrazie occidentali e l’Unione Sovietica, quella che di lì a non molti anni si sarebbe trasformata nella Guerra Fredda. Non a caso, il 6 marzo 1946, a Fulton, nel corso di un suo celebre intervento, Churchill citerà per la prima volta la Cortina di Ferro (the “Iron Curtain”), avvertendo che tra “l’Europa orientale e quella Occidentale era ormai calato un pesante sipario”.
Grazie all’acquiescenza di Roosevelt, già nel 1944 Stalin aveva iniziato a muoversi con molta, troppa libertà onde assicurarsi posizioni di assoluto vantaggio nell’ambito della spartizione del continente europeo. Il dittatore georgiano mirava infatti, in totale dispregio della Carta Atlantica (documento firmato il 14 agosto 1941 nel Newfoundland da Roosevelt e da Churchill, ed accettato dall’Urss, nel quale venivano espressi i propositi di pace anglo-americani e nella fattispecie il diritto da parte di “tutti gli stati di riacquistare, alla fine della guerra, la propria indipendenza”) ad inglobare nell’impero sovietico l’intera Europa orientale. Stalin era d’altra parte convinto che dopo avere concluso il lungo e vittorioso conflitto contro la tirannide nazi-fascista e l’impero nipponico, gli Stati Uniti ben difficilmente si sarebbero impegnati in una nuova contesa, per di più contro la Russia, per salvaguardare la discussa integrità di popoli e nazioni in realtà abbastanza lontani dall’immaginario e dalla sensibilità collettiva nordamericana. E per quanto riguardava l’Inghilterra, questa, da sola, non avrebbe certo potuto rappresentare un serio ostacolo alle mire espansionistiche del dittatore.
Fu proprio in previsione di ciò che, già a partire dalla tarda estate del 1944, il Cremlino iniziò a muovere le sue pedine, favorendo la formazione di partiti comunisti nei paesi dell’Est europeo. Bisognò comunque attendere l’inizio del 1948 per fare sì che sia l’Inghilterra del governo laburista di Clement Richard Attle (che il 26 luglio 1945 prese il posto di Churchill), che gli Stati Uniti di Harry Truman (succeduto a Roosevelt il 12 aprile 1945) iniziassero a valutare più realisticamente la politica espansionistica ed invasiva di Stalin e ad organizzarsi per cercare di porvi un freno. Nel corso del 1947, anche in Polonia, Bulgaria e Romania, Mosca favorì la presa del potere da parte di esecutivi ad essa fedeli, ampliando così la sua sfera di influenza Nel febbraio 1948, i comunisti avevano assunto praticamente il controllo della polizia di Praga e orchestrato una violenta epurazione dei soggetti politici non marxisti nella vita pubblica del paese. Il 10 marzo, il ministro degli Esteri cecoslovacco Jan Masaryk fu trovato morto nel cortile della sua abitazione. Venne annunciato che si era tolto la vita, ma in linea generale tutti gli osservatori, stranieri e no, si convinsero in breve che egli fosse stato assassinato da agenti del servizi segreti sovietici. Il 30 maggio vennero indette le elezioni senza la partecipazione di alcun candidato dell’opposizione democratica e, anche in seguito al tentativo fatto dal governo di Praga di beneficiare in qualche modo degli aiuti del Piano Marshall, Stalin si affrettò ad inglobare la Cecoslovacchia, trasformandola in un paese satellite dell’Unione Sovietica. Il 24 giugno, le autorità di Berlino Est interruppero tutte le comunicazioni di superficie con l’area occidentale tedesca controllata dagli anglo-americani, lasciando aperti soltanto i corridoi aerei. Per circa un anno gli Stati Uniti e la Gran Bretagna furono costretti a rifornire la popolazione di Berlino Ovest con il famoso “ponte aereo”: una soluzione di emergenza che comportò una spesa di 224 milioni di dollari, la perdita di svariati velivoli da trasporto e la morte di parecchi piloti occidentali (nel corso dei ben 278.228 collegamenti aerei gli anglo-americani trasportarono qualcosa come 2.326.406 tonnellate di viveri, carbone e altri prodotti).
Mentre il tentativo di assoggettare la Iugoslavia non sortì alcun successo. Come è noto, infatti, il leader Josip Broz (detto Tito) le cui forze durante la Seconda Guerra Mondiale si erano battute contro i tedeschi, gli italiani (almeno fino all’8 settembre 1943) e le formazioni nazionaliste cetniche, croate e slovene, era riuscito a prendere il potere in maniera praticamente autonoma (seppure beneficiando degli aiuti concessi da americani e britannici) e senza ricorrere all’aiuto dell’Armata Rossa. Naturalmente, l’atteggiamento dell’”eretico” Tito non piacque a Stalin che nel giugno 1948, come è noto, arriverà ad espellere la Iugoslavia dal Cominform, l’organizzazione degli stati comunisti dell’Europa Orientale.
Di fronte a questa serie di manovre a sfondo chiaramente aggressivo, antidemocratico e imperialista, verso la fine del 1947 il governo britannico incominciò a mobilitare il SIS (il Secret Intelligence Service) affinché venisse avviata una strategia operativa avente come scopo la messa a punto di adeguate ritorsioni politiche e militari nei confronti dell’Urss: manovra che avrebbe incluso anche l’allacciamento di contatti con i gruppi nazionalisti baltici, ucraini, polacchi, romeni e albanesi che da tempo e con alterne fortune tentavano di opporsi alla potestà d’imperio sovietica e comunista. Dopo avere tentato, inizialmente con una certa fatica, di coinvolgere gli Stati Uniti, finalmente, nel 1948, Londra riuscì a sensibilizzare Washington circa l’utilità del suo piano, varando di comune intesa con l’OSS (Office of Strategic Service) e con il CIC (Counter Intelligence Corps dell’Esercito) un ben più vasto programma di operazioni tese innanzitutto a valutare la consistenza dei movimenti anticomunisti dell’Europa nord-orientale e balcanica e dell’Ucraina e, successivamente, ad organizzare missioni segrete di appoggio, spionaggio e ricognizione aerea. Trovandosi nella necessità di agire in un territorio abbastanza sconosciuto ed ovviamente ostile, l’intelligence britannica e soprattutto statunitense decisero di avvalersi della collaborazione di esperti degli ex-servizi segreti tedeschi (l’Abwehr) e nella fattispecie di un valente analista di questioni e problemi politico-militari dell’oriente europeo, il generale Reinhard Gehlen (1926-1979). Il 22 Maggio 1945, Gehlen, già responsabile delle Armate Straniere Est (cioè dei gruppi volontari baltici, ucraini e russi affiancatisi o entrati a fare parte della Wehrmacht e delle SS durante la Seconda Guerra Mondiale), si era infatti consegnato agli americani che lo avevano spedito a Washington da William Donovan, direttore centrale dell’OSS, con 52 casse contenenti preziosi documenti riguardanti la composizione e l’attività dei raggruppamenti nazionalisti ucraini, lituani, lettoni ed estoni e di altre formazioni da sempre ostili al regime sovietico. In breve tempo Gehlen divenne responsabile della Sezione Affari Sovietici dell’OSS e successivamente della Central Intelligence Agency (CIA). Il 12 luglio 1946, l’ex-ufficiale tedesco tornò in Europa dove creò l’”Organizzazione Gehlen”, una struttura spionistica alle dirette dipendenze dei servizi statunitensi. Il 1° aprile 1956, l’”Organizzazione Gehlen” passerà sotto il controllo del governo della Germania Occidentale, contribuendo successivamente alla nascita del Servizio Informazioni Federale (BND) di cui lo stesso Gehlen, promosso nuovamente generale, prenderà il comando.
Gehlen fornì agli Stati Uniti una notevole quantità di importanti informazioni non soltanto sui gruppi resistenziali, ma anche sulla situazione socio-politica ed economica interna di molti territori dell’Europa, delineando lo scenario operativo nel quale avrebbero dovuto agire le cosiddette unità di intruding, cioè i reparti che avrebbero avuto il compito di penetrare la Cortina di Ferro. E dato il nuovo evolversi della situazione internazionale, caratterizzato da una sempre più acuta contrapposizione tra Russia e Occidente, alcuni settori del mondo politico e militare britannico e statunitense presero al volo l’occasione, iniziando a premere presso i rispettivi esecutivi affinché si passasse dalla fase di studio all’azione vera e propria. Esaminati con cura ed uno ad uno i possibili teatri e valutata la disponibilità di elementi adatti da impiegare per determinate missioni, i britannici giunsero alla conclusione che l’Albania del dittatore Enver Hoxha – oltre ad alcuni Paesi Baltici e all’Ucraina - rappresentassero, in ordine di importanza, gli obiettivi proprietari da perseguire. E nella fattispecie, come si vedrà, sarà proprio l’Albania – considerata a torto l’anello debole della catena dei paesi comunisti – a fare da sfondo alle prime infiltrazioni di agenti aventi il compito di prendere contatto con elementi dissidenti già presenti sul territorio e con essi tentare di destabilizzare il regime di Tirana.
Circa le azioni e le modalità con le quali venne condotta gran parte delle missioni nell’Est Europa ancora oggi non molto si sa, ad esclusione di quelle organizzate, tra il 1949 e il 1952, proprio in Albania dai britannici e dagli statunitensi (e con la tacita connivenza dei governi greco, turco e italiano), mediante l’utilizzo di fuoriusciti albanesi. Circa le numerose operazioni effettuate, tra il 1949 e il 1954, dal SIS e dalla CIA nei Paesi Baltici e in Ucraina, il materiale disponibile risulta sufficiente per una prima seria indagine, mentre per altri stati come Romania, Slovenia, Croazia e Armenia, occorrerà attendere ancora del tempo poiché parte della documentazione ufficiale risulta ancora depositata negli scantinati dei servizi segreti sia occidentali sia orientali. Dopo la morte di Stalin (5 marzo 1953) e il conseguente inizio del lento processo di “disgelo” tra Stati Uniti e Unione Sovietica, gli americani, soprattutto, hanno ritenuto infatti opportuno secretare gran parte della relativa documentazione. Ciononostante, dopo il 1989, dagli stessi archivi statunitensi, moscoviti e degli altri Stati satellite sono emersi interessanti dossier, utili per comprendere almeno in parte le modalità e la dinamica di queste operazioni top secret di cui, come vedremo, i sovietici erano però perfettamente al corrente, grazie alle informazioni fornite loro da un gruppo di spie (prima fra tutte Kim Philby) da tempo attive sia nel SIS che nella CIA.
Per quanto concerne l’Albania, l’Ucraina, la Romania e i Paesi Baltici, dai dossier russi, dalle stesse memorie di Philby e dai resoconti di alcuni partigiani sopravvissuti alla repressione sovietica si è potuto appurare che tra il 1946 e il 1953 speciali unità aeree anglo-americane paracadutarono effettivamente in territorio “nemico” un discreto numero di agenti e commando e un certo quantitativo di armi, munizioni, stazioni radio e materiale propagandistico. Nell’ambito di queste operazioni, da parte occidentale furono reclutati equipaggi e unità di svariata nazionalità e provenienza (nella fattispecie, vennero ingaggiati piloti polacchi e cecoslovacchi che durante la guerra avevano militato nella RAF, e a seconda delle necessità, agenti di nazionalità balcanica, slava e baltica): espediente necessario in quanto sia l’Inghilterra che gli Stati Uniti non vollero affrontare quasi mai il rischio di inviare proprio personale la cui eventuale cattura da parte dei sovietici avrebbe fatto scoppiare una crisi diplomatica dai risvolti imprevedibili. Vedremo in seguito, a questo riguardo, il “caso” dell’abbattimento avvenuto nel 1952 in Ucraina del C47 “fantasma” e la successiva protesta all’Onu del rappresentante Andrei Vysinskiy, che dal 1949 aveva sostituito Molotov, ormai insivo a Stalin, nella carica di ministro degli Esteri e di presidente del KI (Komitet Informatzii, il servizio segreto estero sovietico).
A questo proposito, appare ormai certo che le principali basi dalle quali operarono le speciali unità aeree anglo-americane fossero ubicate, per quanto concerne le missioni condotte nei Paesi Baltici, nell’isola danese di Bornholm (Mar Baltico). Mentre per le operazioni effettuate nell’area ucraina, balcanica e caucasica, la CIA (ma anche i servizi inglesi e francesi) si avvalsero, rispettivamente, di basi aeree situate a Malta, in Grecia (nei pressi di Atene), nella Turchia europea, a Cipro, in Austria (vicino a Klagenfurt) e in Germania, vedi ad esempio quella di Wiesbaden. Negli anni Ottanta, uno dei primi testimoni a parlare liberamente di queste missioni fu il colonnello polacco Roman Rudkowski che, tra la seconda metà del 1944 e i primi anni Cinquanta, effettuò personalmente, a bordo di velivoli anglo-americani, diversi voli sulla Polonia, nei Paesi Baltici, in Ucraina e in Albania. Nelle sue memorie Rudokowski fece accenno anche a missioni condotte nel 1947 da speciali Douglas DC3 sulla Romania, e precisamente in Transilvania, a supporto dei diversi nuclei di partigiani filomonarchici, nazionalisti e appartenenti al vecchio Partito Contadino operanti in questa ed altre regioni.
Il 18 giugno 1948, l’NSC statunitense (National Security Council) creò l’OPC (Office of Policy Coordination) con a capo Frank Wisner. L’OPC agiva come organizzazione indipendente a mezza via tra la CIA e il Dipartimento di Stato e aveva poteri nel programmare e realizzare attività “extra-legali”. Le particolari e segrete funzioni operative dell’OPC consentivano al governo statunitense di declinare qualsiasi responsabilità nel caso una o più missioni promosse dallo stesso OPC venissero alla luce, respingendo nel contempo qualsiasi tipo di collusione. Durante i suoi quattro anni di esistenza, l’OPC avrebbe favorito l’assistenza ai movimenti di liberazione formati da rifugiati dell’Est Europa fornendo ad essi diretto supporto, preoccupandosi anche di tutelare la sicurezza interna di paesi minacciati dal regime di Mosca. Nel luglio 1948, la cosiddetta Operazione Bloodstone, che venne avviata e gestita da una commissione interdipartimentale nota anche come SANACC 395, autorizzò la CIA a dare sostegno a qualsiasi iniziativa segreta anticomunista. Uno degli obiettivi di questo gruppo era quello di reclutare gli esuli che erano riusciti a fuggire dalle zone controllate dall’Unione Sovietica o dai suoi stati vassalli e trasformarli, se possibile, in agenti al servizio del mondo occidentale (e degli Stati Uniti, in particolare), impiegandoli in operazioni di intelligence e guerriglia all’interno dei loro paesi d’origine. Nella fattispecie, data la sua forza e la capacità dei suoi organici, i movimenti di resistenza lituano e romeno vennero considerati dai vertici dei servizi Usa un bacino ideale dal quale trarre validi elementi da cooptare e addestrare alla “lotta per la libertà ingaggiata contro il regime sovietico”.
Il compito di dirigere questa complessa e segretissima struttura venne affidato ad Harry Rositzke a Charlie Katek, veterano dell’OSS. In particolare, quest’ultimo venne incaricato di sovrintendere all’addestramento delle reclute fatte confluire nel campo tedesco di Kaufbeuren, situato a circa 150 miglia ad est di Pfullingen: sito militare presso il quale era anche presente il centro di coordinamento operativo estero del VLIK (Vyriausias Lietuvos išlaisvinimo komitetas, Comando Lituano Resistenza all’Estero). Per quanto concerneva l’organizzazione di missioni in territorio controllato dai sovietici, il principale referente di Katek era Gorge Belic, che doveva selezionare tra i rifugiati gli elementi più adatti da inviare oltre la Cortina di Ferro. Non a caso, Belic lavorò in stretto contatto con il reverendo Mykolas Krupavičius e con il colonnello Antanas Šova, rispettivamente responsabile politico e comandante militare del VLIK di Pfullingen.
In ordine cronologico, il SIS britannico fu il primo organo segreto ad agire in Europa orientale, nella fattispecie in Albania, Iugoslavia, Polonia ed Estonia, anche se, come avremo modo di vedere, con esiti abbastanza disastrosi, non tanto attribuibili ad una scarsa preparazione dei quadri e dei reparti, ma alla estrema e sconcertante permeabilità dello stesso servizio segreto britannico, minato, già a partire dalla fine degli anni Trenta, dalla presenza al suo interno di svariati agenti al servizio di Mosca: primo fra tutti Philby (che, dopo molti anni di indisturbata attività, si sarebbe poi trasferito in Urss diventando colonnello del KGB). I danni causati da Philby e da alcuni altri agenti doppiogiochisti inglesi al SIS, ma anche all’OPC e successivamente alla CIA, risultarono enormi. Essendo stato distaccato, nel 1948, a Washington, con il compito di coordinare gli sforzi congiunti tra l’intelligence inglese e statunitense per sovrintendere le operazioni di sostegno ai movimenti partigiani dell’Europa Orientale, Philby poté infatti fornire al Cremlino preziose informazioni circa la struttura e i piani dei servizi occidentali: informazioni che permisero ai sovietici di sventare la quasi totalità delle missioni di intruding in territorio russo e non solo. Va ricordata, a questo proposito, l’attività propagandistica svolta, a partire dal febbraio del 1947, da “Voice of America”, la potente emittente radiofonica statunitense creata nel 1942 dall’Office of Wartime Information per fare giungere notizie nell’Europa occupata dai tedeschi. L’emittente, rimasta attiva per molti anni, si avvalse di trasmittenti ad onde corte della CBS e della NBC.
Oltre all’attività anglo-americana, va rammentato che nel secondo dopoguerra anche la Francia cercò di mettere in piedi un’organizzazione, dipendente dai Servizi di Sicurezza, atta ad operare in Europa Orientale. A questo proposito si è appreso dell’esistenza, intorno al 1950, di un sito operativo segreto ubicato a Luzarches. Da questa località, tra il 1949 e il 1954, bimotori Douglas DC3 privi di insegne si spostarono abbastanza regolarmente sugli aeroporti di Innsbruck (Austria) e Lahr (Germania occidentale), dai quali decollarono alla volta della Polonia e dell’Ucraina per paracadutare agenti e materiale propagandistico da distribuire alle popolazioni locali. Sembra comunque che gran parte di queste operazioni abortì a causa della presenza, anche nei servizi transalpini, di agenti russi infiltrati. Per la cronaca, perfino l’Italia contribuì, seppure in maniera marginale, all’attività di sostegno ai movimenti anticomunisti dell’Est Europa. Nella fattispecie, il SIFAR (Servizio Informazioni unificate delle Forze Armate) si occupò del reclutamento e dell’addestramento di volontari albanesi da utilizzare per tentare di rovesciare il regime del dittatore Enver Hoxha. Sembra a questo proposito che, tra il 1949 e il 1952, appositi centri di addestramento commando sorsero nelle province di Napoli e Bari. Si hanno anche notizie, seppure non confermate, circa l’impegno congiunto tra servizi segreti italiani e Vaticano espletato, tra il 1945 e il 1947, in appoggio ai partigiani croati e sloveni krizari (crociati) impegnati contro le forze titine. Come è noto, il SIFAR era un organismo suddiviso in due sezioni (spionaggio e controspionaggio). Nel 1964, dopo le vicende legate al Piano Solo, questa struttura venne messa in discussione per poi essere disciolta definitivamente nel 1966 e sostituita dal SID (Servizio Informazioni Difesa)
Dopo il 1954, tutte le iniziative occidentali mirate a sostenere la resistenza d’oltre cortina vennero però sospese, sia in seguito al progressivo indebolimento dei movimenti stessi, sia in concomitanza del “disgelo” avviatosi con l’era Kruscev. Come è noto, Nikita Kruscev rinnegò e condannò lo stalinismo, dando inizio ad una fase relativamente meno dura della dittatura sovietica; atteggiamento che indusse Washington a frenare e poi sospendere l’attività dell’OPC, che era stato istituito nel 1948 per cercare di staccare alcune parti dell’Europa orientale dal controllo sovietico. Nel 1954, agli americani - che nel frattempo avevano iniziato a “ripulire” i propri servizi da elementi diciamo “indesiderati” - apparve ormai chiaro che qualsiasi tentativo di destabilizzazione interna dell’Urss, attraverso l’appoggio ai movimenti armati, si sarebbe rivelato non soltanto irrealizzabile, ma politicamente inopportuno. Non a caso, i vertici della CIA, che nel frattempo aveva assorbito l’OPC, ricevettero da Washington l’ordine di ridimensionare la propria attività offensiva, dedicandosi con maggiore energia e con nuove modalità operative in programmi meno “compromettenti” (1).
La nuova situazione politica venutasi a creare a Mosca consigliò infatti opzioni differenziate e più caute, anche se all’inizio degli anni Sessanta, con la crisi di Cuba e dei missili, tutto sembrò precipitare, a tal punto che a Washington si pensò di ritornare, con rinnovato e maggiore vigore, alla strategia offensiva preventiva, almeno per quanto concerneva l’azione di intelligence.

giovedì 8 luglio 2021

 

L'Editore Luca Cristini di Brescia e lo Storico Marco Cimmino (prefattore del testo) 

presentano il libro di Alberto Rosselli.

PREFAZIONE

LIBRO DI ALBERTO ROSSELLI

‘L’ULTIMA COLONIA’

La guerra coloniale in Africa Orientale Tedesca 1914-1918

 

Il 25 novembre 1918, cioè una ventina di giorni dopo la fine della guerra in Europa, il colonnello Paul von Lettow-Vorbeck, comandante in capo dell’esercito tedesco in Tanganika, entrò alla testa delle sue truppe nella cittadina rhodesiana di Abercorn per arrendersi alle forze britanniche. E qui egli venne accolto con gli onori delle armi, resi da una guardia dei Kings African Rifles di Sua Maestà facente parte della grande e composita armata dell’Intesa che per quattro lunghi anni aveva cercato inutilmente di annientare la piccola ma indomita compagine coloniale posta a difesa della Ost-Afrika.   Con il saggio L’Ultima Colonia, Alberto Rosselli (Gianni Iuculano Editore, Pavia) fa riemergere una delle vicende belliche più straordinarie del Primo Conflitto Mondiale e cioè la lunga e sanguinosa campagna d’Africa Orientale. Una disputa affrontata dalle forze germaniche nel contesto di situazioni ambientali e climatiche estremamente dure e particolari, attraverso l’utilizzo di strategie e tattiche assolutamente innovative e comunque ben diverse da quelle impiegate sul teatro europeo dagli eserciti convenzionali dell’epoca. La campagna del Tanganika fu infatti una guerra ‘a parte’, molto combattuta e soprattutto dominata dalla personalità e dalle gesta di un grande soldato, il colonnello Lettow-Vorbeck, leggendario condottiero delle Schutztruppen, il quale riuscì in un impresa che oggi ha dell’incredibile: quella di contrastare e spesso battere le armate britanniche e alleate, portando lo scompiglio addirittura nelle stesse colonie nemiche. In questo libro, Rosselli traccia un profilo approfondito di questa strana guerra e del colonnello Vorbeck, uomo che seppe coniugare le migliori tradizioni militari germaniche ad un acume in parte innato e in parte derivante dalle sue precedenti esperienze acquisite in vari teatri operativi d’oltremare. Nel corso della Primo Conflitto Mondiale, l’Africa Orientale Tedesca poté contare solo su se stessa, in considerazione dell’enorme distanza geografica che la separava dalla madrepatria e di conseguenza per l’impossibilità quasi assoluta di ricevere rinforzi via mare a causa del controllo esercitato dalla Marina Britannica sugli oceani. Sebbene, come ricorda con precisione l’autore, per ben due volte unità navali germaniche cariche di rifornimenti riuscirono fortunosamente a forzare il blocco e a raggiungere, dopo mille peripezie, il Tanganika. Ma data la sfavorevole situazione complessiva, Lettow-Vorbeck dovette comunque improvvisare una vera e propria economia di guerra a sostegno del suo esercito, basandosi esclusivamente sulle scarse risorse locali – che egli seppe sfruttate appieno e in maniera decisamente ingegnosa - e sulle armi e sui materiali strappati all’avversario nel corso di furibondi combattimenti.

         L’aspetto ‘economico’ ed organizzativo della campagna condotta dai tedeschi in Africa Orientale viene ampiamente indagato da questo libro che ricostruisce in maniera globale ed esaustiva la grande avventura che contrappose non più di 3.000 soldati del kaiser e 11.000 ascari ad un esercito avversario forte di non meno di 160.000 uomini. Una campagna nel corso della quale Lettow-Vorbeck applicò con grande sagacia e maestria tutte le tecniche proprie della guerra-guerreggiata: soluzione che inibì ed impantanò nella boscaglia equatoriale le ben più numerose e bene equipaggiate truppe britanniche, sudafricane, indiane, belghe e portoghesi, sostanzialmente incapaci di adattarsi a questa tipologia di combattimento. Nonostante la sua oggettiva importanza, l’argomento trattato in questo volume appare tuttavia pressoché sconosciuto a gran parte dei lettori italiani, e probabilmente, proprio per questo motivo, esso è stato affrontato da Rosselli, autore che già in passato ha palesato il gusto per le vicende storiche e storico-militari meno note dell’età moderna e contemporanea. Basti pensare ad alcune sue opere come Il Conflitto Anglo-francese in Nord America 1756-1763, Il Tramonto della Mezzaluna – l’Impero Ottomano durante la Prima Guerra Mondiale e il recente saggio La Resistenza antisovietica e anticomunista in Europea Orientale 1944-56. Se nel primo dopoguerra in Inghilterra, Germania, Belgio e Portogallo sono stati pubblicati diversi memoriali e rari resoconti ufficiali o semiufficiali sulla campagna del Tanganika 1914-1918, in Italia l’unico libro sul tema – opera interessante, ma piuttosto romanzata - venne dato alle stampe negli ormai lontani anni Trenta dallo storico Giuseppe Scortecci.

         Con questa nuova ricerca, Rosselli riscopre e rivisita dunque in maniera adeguata un’indimenticabile ma negletta pagina di storia, non tralasciando importanti dettagli, come l’epopea africana dell’incrociatore Königsberg e del suo valoroso equipaggio che, una volta persa la propria nave, ebbe la sorte di combattere a lungo a fianco degli ascari di Lettow-Vorbeck nella boscaglia africana e soprattutto a rendersi protagonista di leggendarie operazioni condotte su unità di fortuna sui grandi laghi equatoriali. Con L’Ultima Colonia, Alberto Rosselli è riuscito, pur non rinunciando al suo compito di saggista, a fare rivivere in forma e stile vividi una reale pagina di storia, coinvolgendo il lettore in una trama appassionante, simile a quella di un documentato romanzo d’avventura.

 Marco Cimmino