lunedì 30 luglio 2012

LA PERSECUZIONE DEGLI ARMENI, di Alberto Rosselli




LA  PERSECUZIONE DEGLI ARMENI

di Alberto Rosselli


La persecuzione scatenata nel 1915 dai turchi nei confronti del popolo armeno residente in Anatolia e nel resto dell’impero ottomano rappresenta forse il primo esempio dell’epoca contemporanea di sistematica e scientifica soppressione di una minoranza etnico-religiosa. Un piano di eliminazione che non scaturì soltanto dall’ideologia “panturchista” e “panturanista” del sedicente partito “progressista” dei Giovani Turchi, ma che trasse le sue origini dalle antiche e mai del tutto sopite contrapposizioni tra la maggioranza mussulmana turca e curda e la minoranza cristiana armena.
 
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 Con l’espressione ‘genocidio armeno’ (in lingua armena Medz Yeghern, Grande Male) ci  si riferisce a due eventi distinti ma legati fra loro: il primo, quello relativo alla campagna contro gli armeni condotta negli anni 1894-1896 dal sultano Abdul Hamid II; il secondo – oggetto del nostro breve studio - quello collegato alla deportazione ed eliminazione degli armeni compiute nel corso del Primo Conflitto Mondiale dal nuovo governo della Sacra Porta controllato dai Giovani Turchi.
L’eliminazione fisica di circa un milione, un milione e mezzo di armeni (la cifra, come è noto, è ancora al centro di accese discussioni) da parte dei turchi rappresenta ancora oggi, a distanza di tanto tempo, uno scomodo tabù. Il sostanziale rifiuto da parte dell’attuale governo di Ankara di riconoscere le responsabilità storiche della Sacra Porta rappresenta anche un ingombrante ostacolo non soltanto alla conferma di una realtà storica, ma all’ingresso nel consesso europeo della stessa Turchia..
La “questione armena” ritornò di attualità, dopo mezzo secolo dallo sterminio, nel 1974, quando rispondendo a una denuncia del Tribunale Permanente dei Popoli, il governo di Ankara ammise per la prima volta - anche se con molte riserve e distinguo - che tra il 1915 e il 1918 “il popolo armeno aveva patito effettivamente un certo numero di vittime attribuibili alle tragiche contingenze storiche del tempo di guerra, cioè scontri armati, fame, malattie”, guardandosi bene però dal riconoscere che tra il 1880 e il 1918, cioè per un periodo ben più lungo, prima i sultani e poi il governo controllato dal partito dei Giovani Turchi repressero ripetutamente questa minoranza cristiana.
La bibliografia relativa allo sterminio o del ’genocidio’ armeno (il termine “genocidio” fu coniato all’inizio degli anni ‘40 dal giurista americano di origine ebreo-polacca Raphael Lemkin proprio in riferimento alla repressione armena)   è in verità molto vasta e trasversale. Oltre agli scritti armeni, è possibile attingere a fonti francesi, statunitensi, portoghesi, italiane, greche, bulgare, inglesi e russe. Tra queste ricordiamo quelle, molto importanti, dell’ambasciatore americano Henry Morgenthau, degli inglesi Lord James Bryce e Arnold Joseph Toynbee, del francese Henri Barby, e, non ultime per importanza, quelle il console d’Italia a Trebisonda, Giovanni Gorrini. Ma il materiale a disposizione dei ricercatori comprende anche numerosi tra libri, documenti e relazioni tedeschi  che confermano l’ampiezza dello sterminio armeno. Nel 1919, il pastore evangelico e storico Johannes Lepsius pubblicò Deutschland und Armenien, testo che racchiude stralci di documenti diplomatici tedeschi tesi a scagionare, almeno in parte, le colpe e la presunta connivenza del kaiser (durante la Prima Guerra Mondiale la Germania era alleata della Turchia) ma che rivelano la portata della tragedia dei cristiani anatolici. Alla documentazione di Lepsius va aggiunta quella, sempre di parte tedesca, del capitano dell’esercito Armin Wegner, che con la sua preziosa raccolta fotografica ha fornito importanti prove dei massacri compiuti dai turchi e dai curdi in Siria.

Verso la fine del XIX secolo, la crisi politica, economica e sociale dell’impero ottomano si fece sempre più grave, sfociando in pericolose sommosse. A Salonicco un gruppo di ufficiali dell’esercito, in combutta con alcuni esiliati politici turchi confluiti nella Ittihad ve Terakki (il partito Unione e Progresso), iniziarono a tramare contro l’incapace e retrogrado governo centrale. Un Movimento in particolare, quello dei Giovani Turchi, auspicava l’eliminazione del sultano per potere avviare un necessario processo di modernizzazione dell’impero.
La rivolta scoppiò il 23 luglio del 1908, a Monastir, quando il Comitato Centrale di Unione e Progresso intimò ad Abdul Hamid di ripristinare la costituzione del 1876. Avendo perso il controllo di buona parte dell’esercito, il sultano cedette e il 24 luglio 1908 la costituzione venne ripristinata. Seguì un breve periodo di euforia da parte delle minoranze etniche e religiose della Sacra Porta che confidavano nell’inizio di una nuova era caratterizzata da maggiori libertà. Effettivamente, in un primo tempo gli ufficiali ribelli dettero a tutte le minoranze ampie garanzie di tolleranza, tanto che il partito armeno Dashnak tentò e riuscì ad elaborare con essi un comune progetto di democratizzazione dello Stato ottomano. Si trattò però di una semplice speranza destinata a svanire di fronte ai reali e non dichiarati intenti che in segreto animavano i cuori degli appartenenti al Movimento dei Giovani Turchi. “Pur tramando da tempo contro gli armeni – annotò il console tedesco di Trebisonda Berfgeld -  sulle prime i Giovani Turchi si mostrarono molto liberali, laicisti e tolleranti. Tuttavia, il 19 ottobre del 1910, a Tessalonica, nel corso del congresso segreto promosso dall’Ittihad, uno dei leader del Movimento, Taalat Pascià, delineò i tratti della futura politica di omogeneizzazione etnico-religiosa della Turchia, parlando per la prima volta della necessità di attuare al più presto sterminio della minoranza armena”.
Molti elementi appartenenti al movimento ‘modernista’ turco avevano soggiornato e studiato in Europa dove avevano attinto alle fonti dell’ideologia marxista e nazionalista, soprattutto tedesca, elaborandone i contenuti in funzione di un’applicazione in chiave ottomana. La perdita di ampie porzioni di territorio nei Balcani e le ripetute umiliazioni militari e diplomatiche subite dalla Sacra Porta nella seconda metà del XIX secolo, convinsero i Giovani Turchi circa la necessità non soltanto di fare avanzare economicamente e socialmente il loro agonizzante impero, ma di ridargli nuova linfa, espandendone i confini non ad occidente, come avevano quasi sempre fatto i sultani del passato, bensì ad oriente, in direzione della Persia, del Caucaso e delle immense regioni asiatiche centrali, abitate da popoli (tartari, azerbaigiani, ceceni, kazachi, uzbechi, kirghisi e tagiki) linguisticamente ed etnicamente affini al popolo anatolico.
La teoria geopolitica intorno alla quale ruotava questo ultimo ragionamento traeva le sue origini dall’ideologia panturanica[1]. Come si è detto, dal pangermanesimo i Giovani Turchi avevano tratto lo spunto per ridare vigore nazionalista, dignità di razza all’impero ottomano, mentre dal marxismo essi avevano mutuato una vaga idea di eguaglianza sociale che, tuttavia, avevano modellato ad uso e consumo delle loro particolari convinzioni ideologiche. Per la nuova élite dominante turca l’eguaglianza non rappresentava infatti un dato sociale assoluto, bensì da commisurare all’appartenenza o meno alla “razza” turca e all’adesione al credo mussulmano. Ma dal momento che entro i confini dell’impero ottomano vivevano diverse minoranze etniche e religiose ecco che i Giovani Turchi percepirono come indispensabile in primo luogo la forzata “turchizzazione” o addirittura l’eliminazione fisica degli elementi da essi considerati allogeni e quindi impuri, tra questi gli armeni.
Questi concetti furono dettagliatamente riportati nel 1915 in una lunga e dettagliata relazione compilata dall’agente e diplomatico tedesco Ludwig Maximilian Erwin von Scheubner-Richter, a quel tempo ufficiale di collegamento di una speciale unità militare turco-tedesca operante in Anatolia. “Ho avuto modo di conversare più volte – scrisse Richter - con eminenti personalità turche, e dalle loro dichiarazioni ho dedotto che gran parte dei membri del governo ottomano sono convinti che l’impero turco dovrebbe basare la sua forza sia sulle teorie religiose islamiche, sia su quelle politiche “panturchiste” e “panturaniche”. Secondo i miei interlocutori, gli abitanti non mussulmani e non turchi dell’impero dovrebbero essere islamizzati con la forza o distrutti”. Dal canto suo, l’ambasciatore austriaco a Costantinopoli, Johann Pallavicini riportò in una sua memoria lo stralcio di un colloquio avuto, sempre nel 1915, con il gran visir. “Questi – scrisse Pallavicini -si dichiarò contrario alla politica repressiva di Talaat Pascià (capo dell’Ittihad) nei confronti degli armeni (…) Il gran visir non vedeva infatti di buon occhio lo sterminio delle minoranze etniche e religiose dell’impero”. Ciò a dimostrare – per amore di verità - che non tutte le alte gerarchie di Costantinopoli erano convinte della necessità di inglobare o sterminare i gruppi etnico-religiosi non mussulmani per conseguire un effettivo rafforzamento dello Stato.
Nel 1909, dopo un fallito tentativo controrivoluzionario di Abdul Hamid, i Giovani Turchi, guidati da Taalat Pascià, deposero definitivamente il sultano, sostituendolo con il suo più innocuo fratello Muhammad. E contestualmente, gli ufficiali rivoluzionari iniziarono a cambiare rapidamente e apertamente strategia politica, rimangiandosi i vecchi propositi liberali e modificando in senso autoritario il loro intervento in seno alla società ottomana. Abbandonati i proclami inneggianti lla libertà e l’eguaglianza, essi abrogarono praticamente tutti i diritti civili da poco concessi ad armeni, ebrei, greci del Ponto e arabi. E all’indomani della sconfitta subita nel 1912 ad opera dell’Italia e dei rovesci patiti dall’esercito ottomano durante la Prima Guerra Balcanica, il 26 gennaio 1913, un triumvirato formato da Enver Pascià, Taalat Pascià e Ahmed Jemal prese definitivamente in mano le leve del potere, proclamando la “turchizzazione” dell’impero ed avviando nel contempo una politica di  persecuzione sistematica di tutte le minoranze, prima fra tutte quella armena. La responsabilità della cosiddetta “seconda fase” dell’olocausto armeno fu da attribuire ai Giovani Turchi che pianificarono il genocidio attraverso la messa a punto di un’efficiente struttura paramilitare, l’Organizzazione Speciale (O.S.), coordinata da due medici, Nazim e Shakir. L’O.S., che dipendeva dal Ministero della Guerra, realizzerà tutte le sue più gravi nefandezze sotto la supervisione del ministero degli Interni e con la collaborazione del ministero di Giustizia che, attraverso l’emanazione di una legge speciale, inquadrerà molte migliaia di criminali comuni nelle file della Teskilate Maksuse (o Teshkilati Mahsusa), uno speciale reparto paramilitare agli ordini di Behaeddin Shakir istituito per depredare i villaggi armeni ed eliminarne la popolazione.

Sotto il profilo per così dire organizzativo e cronologico il genocidio armeno compiuto dai Giovani Turchi si può suddividere in quattro fasi, ciascuna delle quali corrisponde ad una particolare metodologia di sterminio e ad un particolare indirizzo. La prima fase coprì il periodo compreso tra l’aprile e il maggio 1915 e si concentrò essenzialmente sull’eliminazione delle élite e dei militari di origine armena.. Nella seconda fase, aprile-giugno 1915, i turchi eliminarono o deportarono i notabili locali, i membri dei partiti armeni e, in generale, tutti gli uomini validi”. La terza fase si tradusse essenzialmente nella deportazione di massa. Oltre il 40% della popolazione armena residente nel 1914 nell’Impero ottomano fu infatti sradicata e trasferita a forza in Siria. Tra il luglio e l’agosto del ‘15 scattò la quarta ed ultima fase durante la quale avvenne la deportazione nei campi di prigionia siriani, mesopotamici degli armeni residenti in Asia Minore, Tracia e Cilicia. Stando alla documentazione, nel 1915 i turchi allestirono almeno 30 grandi campi di concentramento, cinque dei quali di transito.
Il 24 aprile 1915 (che verrà in seguito ricordata come la data commemorativa del genocidio), a Costantinopoli, circa 500 armeni furono incarcerati e poi strangolati con filo di ferro. Tra le vittime anche il deputato Krikor Zohrab che pensava di godere dell’amicizia personale di Talaat. La persecuzione proseguì con la soppressione della colta ed operosa comunità della capitale i cui membri furono divisi in gruppi e deportati in Anatolia, dove molti di essi vennero uccisi. Tra questi vi erano intellettuali e scrittori, come il poeta Daniel Varujan, giornalisti e sacerdoti. Tra gli uomini di chiesa, Soghomon Gevorki Soghomonyan (più noto come il monaco Komitas), padre della etnomusicologia armena. Komitas fu deportato assieme ad altri 180 intellettuali armeni a Çankırı in Anatolia centro settentrionale. Egli sopravvisse alla prigionia e alla guerra grazie all’intervento del poeta nazionalista turco Emin Yurdakul, della scrittrice turca Halide Edip Adıvar e dell’ambasciatore americano Henry Morgenthau. Trasferitosi nel 1919 a Parigi, Komitas, sulla scorta degli orrori patiti, impazzì finendo i suoi giorni in un manicomio, nel 1935.
Tra il maggio e il luglio del 1915, la falce ottomana si abbatté sulle comunità delle province di Erzerum, Bitlis, Van, Diyarbakir, Trebisonda, Sivas e Kharput, dove le bande curde si accanirono in modo particolare contro i sacerdoti, a molti dei quali, prima dell’esecuzione, vennero strappati gli occhi, le unghie e i denti. Gevdet Bey, vali (governatore) della città di Van e cognato del ministro della Difesa Enver Pascià, pare si divertisse a fare inchiodare ai piedi dei prelati ferri di cavallo arroventati. Stando ad un rapporto del console statunitense ad Ankara, nel luglio 1915 circa 2.000 soldati armeni reduci dalla campagna del Caucaso furono improvvisamente disarmati dai turchi e spediti nella zona di Kharput con il pretesto di utilizzarli nella costruzione di una strada. Ma una volta giunti sul posto essi vennero tutti fucilati. A loro insaputa, moltissimi altri militari armeni furono anch’essi disarmati ed inquadrati in speciali ‘battaglioni operai’ (Amelé Taburì) per lavorare – così fu detto loro -  nel comparto infrastrutture. Ma in realtà essi vennero poi massacrati, come accadde a 2.500 soldati armeni condotti in località Diyarbakir.
Nel giugno 1916, dopo avere liquidato circa 150.000 militari armeni, i turchi decideranno di fare fuori anche un terzo degli operai cristiani impiegati nella costruzione e nella manutenzione della ferrovia Berlino-Costantinopoli-Baghdad: decisione che tuttavia venne duramente contrastata dagli alleati tedeschi. L’ambasciatore a Costantinopoli, conte Paul von Wolff-Metternich, accusò Taalat Pascià e il ministro degli Esteri Halil Pascià “di inutili crudeltà e persino di sabotaggio”: denunce che lasciarono tuttavia impassibili i capi ottomani più che mai decisi a proseguire con la pulizia etnico-religiosa.
Nell’aprile 1915, a Van, in seguito all’ennesima retata, alcune migliaia di civili armeni riuscirono a disarmare la locale guarnigione turca, barricandosi nel nucleo urbano e resistendo agli attacchi ottomani e curdi fino al sopraggiungere di una divisione di cavalleria russa del generale Yudenich che nel mese maggio li liberò dall’assedio.
Una storia per certi versi analoga la vissero circa 4.100 armeni rifugiatisi sull’acrocoro del Musa Dagh, situata nella porzione meridionale della Cilicia armena, sulla costa del Mediterraneo orientale (oggi provincia turca di Hatay), dove resistettero alla fame e alla pressione turca per ben quaranta giorni fino a quando il 12 settembre 1915 essi furono tratti in salvo dal provvidenziale arrivo nel golfo di Alessandretta di una squadra navale dell’Intesa. Verso l’autunno del 1915, una volta eliminata la porzione più giovane e combattiva del popolo armeno, il ministero degli Interni ottomano passò alla seconda fase dell’”olocausto”, cioè l’eliminazione di tutti gli adulti di età superiore ai 45 anni che fino ad allora erano stati risparmiati poiché ritenuti indispensabili per il lavoro nelle campagne. Come testimonia questo brano tratto da un dispaccio inviato il 15 settembre 1915 dal ministro Taalat Pascià al governatore turco di Aleppo: “[] Siete già stato informato del fatto che il Governo ha deciso di sterminare l’intera popolazione armena […] Occorre la vostra massima collaborazione […] Non sia usata pietà per nessuno, tanto meno per le donne, i bambini, gli invalidi […] Per quanto tragici possano sembrare i metodi di questo sterminio, occorre agire senza alcuno scrupolo di coscienza e con la massima celerità ed efficienza”. E ancora (lettera del 1° dicembre 1915): “Il luogo di esilio di questa gente sediziosa (gli armeni, n.d.a.) è soltanto l’annientamento”.
Solitamente, i turchi organizzavano le deportazioni di massa trasferendo i loro prigionieri in località piuttosto remote. Una delle destinazioni prescelte fu la desolata regione siriana di Deir al-Zor, dove centinaia di intere famiglie armene furono ammassate e lasciate morire di stenti. “Nel corso di queste frequenti ed estenuanti marce forzate - annotò il colonnello tedesco Hugo Stang -  le colonne armene venivano ripetutamente attaccate e depredate dai reparti curdi dei reparti Hamidye, una forza ausiliaria composta da un totale circa 30.000 criminali comuni arruolati dai turchi”.
Le deportazioni – annotò il diplomatico tedesco Max Erwin von Scheubner-Richter -furono giustificate dal governo turco con la scusa di un necessario spostamento delle comunità armene dalle zone interessate dalle operazioni militari (Anatolia orientale e nord orientale, n.d.a) (…) Non escludo che gran parte dei deportati furono massacrati durante la loro marcia. (…) Una volta abbandonati i loro villaggi, le bande curde e i gendarmi turchi si impadronivano di tutte le abitazioni e i beni degli armeni, grazie anche ad una legge del 10.6.1915 ed altre a seguire che stabiliva che tutte le proprietà appartenenti agli armeni deportati fossero dichiarate “beni abbandonati” (emvali metruke) e quindi soggetti alla confisca da parte dello Stato turco”. E a testimonianza dei risvolti economici della strage, basti pensare che “i profitti derivati all’oligarchia dei Giovani Turchi e ai suoi lacchè dai beni rapinati agli armeni arrivarono a toccare la cifra astronomica di un miliardo di marchi”. Nell’inverno del ‘15, il conte Wolff-Metternich decise di riferire al ministero degli Esteri tedesco il protrarsi “di questi inutili e crudeli eccidi”, chiedendo un intervento ufficiale presso la Sacra Porta Venuti al corrente della protesta, Enver Pascià e Taalat Pascià chiesero a Berlino l’immediata sostituzione di Wolff-Metternich che nel 1916 dovette infatti rientrare in Germania.
Va comunque detto che non tutti i governatori turchi accettarono di eseguire per filo e per segno gli ordini di Costantinopoli. Nel luglio 1915, ad esempio, il vali di Ankara si oppose allo sterminio indiscriminato di giovani e vecchi, venendo rimosso e sostituito da un funzionario più zelante, tale Gevdet, che nell’estate del ‘15 a Siirt fece massacrare oltre 10.000 tra armeni ortodossi, cristiani nestoriani e giacobiti. Resoconti sui molteplici eccidi sono registrati anche nelle memorie di addetti diplomatici francesi, svedesi e italiani presenti all’epoca in Turchia.  Il 25 agosto 1915, Il Messaggero di Roma pubblicò la denuncia del console generale a Trebisonda, Giovanni Gorrini. Il plenipotenziario affermò che “degli oltre 14.000 armeni legalmente residenti a Trebisonda all’inizio del 1915 al 23 luglio dello stesso anno non ne rimanevano in vita che 90. Tutti gli altri, dopo essere stati spogliati di ogni avere, erano stati deportati dalla polizia e dall’esercito ottomani in lande desolate o in vallate dell’entroterra e massacrati”.
Intanto proseguiva senza soste la deportazione degli armeni destinati ai campi della regione di Deir al-Azor. Questi primordiali lager privi di baracche e servizi igienici accolsero all’interno dei loro perimetri cintati da filo spinato decine di migliaia di profughi.
Ben presto - come narra lo scrittore David Marshall Lang nel suo ‘Armeni, un popolo in esilio - in questi recinti, rigurgitanti in gran parte di vecchi, donne e bambini, scoppiarono terribili epidemie di tifo e vaiolo che si allargarono a gran parte della popolazione siriana (…) Solo ad Aleppo, tra l’agosto 1916 e l’agosto 1917, circa 35.000 persone morirono di tifo”. Epidemie che si rivelarono talmente devastanti da allarmare il generale Otto Liman von Sanders, comandante delle forze turco-tedesche in Medio Oriente. Questi, nel 1916, cercò – almeno così sembra - di attivare una qualche forma di assistenza, seppure duramente contrastato dalle autorità ottomane.
In terra siriana, alcune centinaia di ragazze e di ragazzi armeni riuscirono però a scampare alla morte, anche se a duro prezzo. Le fanciulle, soprattutto le più giovani e graziose, furono infatti vendute per poche piastre a possidenti arabi che le rinchiusero nei loro bordelli. In molte altre zone dell’impero i giovani armeni subirono sorte ancora peggiore. In un rapporto del 1917, l’ufficiale medico tedesco Hans Stoffels riferì “di avere osservato nella zona di Mosul (Irak settentrionale) un gran numero di villaggi armeni, nelle cui chiese e abitazioni giacevano i corpi bruciati e decomposti di donne e di bambini precedentemente violentati, sodomizzati e torturati nei modi più orrendi”. Nell’autunno del 1918, quando le forze britanniche del generale Edmund Allenby provenienti dalla Palestina entrarono in Siria, trovarono in alcune baracche di un campo decine di donne tutte segnate dagli stenti e dalle malattie veneree. In terra siriana i britannici vennero anche a sapere che centinaia di bimbi armeni provenienti dall’Anatolia erano stati rinchiusi in bordelli per omosessuali o negli speciali orfanotrofi gestiti dalla “signora” Halidé Edib Adivart.
Nonostante tutto, il governo turco non si reputava ancora soddisfatto di come stava procedendo la risoluzione del “problema armeno”. In base alle relazioni da noi raccolte – annotò il 10 e il 20 gennaio del 1916, il notabile Abdullahad Nouri Bey - mi risulta che soltanto il 10 per cento degli armeni soggetti a deportazione generale abbia raggiunto i luoghi ad essi destinati; il resto è morto di cause naturali, come fame e malattie. Vi informiamo che stiamo lavorando per avere lo stesso risultato riguardo quelli ancora vivi, indicando e utilizzando misure ancora più severe (…) Il numero settimanale dei morti non è ancora da considerarsi soddisfacente”.
Nel 1916, Enver Pascià, Taalat Pascià e Ahmed Jemal diedero quindi un ulteriore giro di vite, intimando ai loro governatori e ai capi di polizia di “eliminare con le armi, ma se possibile con mezzi più economici, tutti i sopravvissuti dei campi siriani e anatolici”. In questa fase del massacro ebbe modo di distinguersi per efficienza il governatore del già citato distretto di Deir al-Azor, Zeki Bey, che - secondo quanto riporta J. Bryce (vedi James Bryce and Arnold Toynbee, The Treatment of Armenians in the Ottoman Empire, 1915–1916: Documents Presented to Viscount Grey of Fallodon by Viscount Bryce ) - “rinchiuse 500 armeni all’interno di una stretta palizzata, costruita su una piana desertica, e li fece morire di fame e di sete”. Durante l’estate del 1916, gli uomini di Zeki eliminarono complessivamente oltre 20.000 armeni. E a dimostrazione della criminale sfacciataggine dei leader turchi, basti pensare che Taalat Pascià arrivò a vantarsi dell’efficienza del suo governatore con l’ambasciatore americano Morgenthau, al quale egli ebbe anche il coraggio di chiedere “l’elenco delle polizze assicurazioni sulla vita che gli armeni più ricchi (deceduti nei campi di sterminio) avevano precedentemente stipulato con compagnie americane, in modo da consentire al governo di incassare gli utili delle polizze”.
Intanto, nelle regioni orientali e settentrionali dell’impero ottomano, per le comunità armene che erano riuscite a trovare rifugio nelle valli del Caucaso stava per compiersi un destino decisamente crudele e beffardo. In seguito alla rivoluzione bolscevica del 1917, l’esercito russo si era infatti ritirato dall’Anatolia orientale e dalla Ciscaucasia, abbandonando gli armeni al loro destino. Rioccupata l’importante città-fortezza di Kars, le forze ottomane avevano iniziato una vera e propria caccia all’uomo, eliminando circa 19.000 cristiani. Identica sorte toccò a quei profughi armeni che, rifugiatisi in Georgia e nella regione di Baku, furono passati per le armi dalle locali minoranze mussulmane tartare e cecene. Nel settembre 1918, nella sola area di Baku furono eliminati 30.000 cristiani.
Ma la guerra stava ormai volgendo al termine e nell’imminenza del crollo della Sublime Porta, i responsabili delle stragi iniziarono a dileguarsi. Quando, nell’ottobre 1918, la Turchia si arrese alle forze dell’Intesa, i principali dirigenti del partito dei Giovani Turchi vennero arrestati dai britannici ed internati a Malta per un breve periodo. A carico dei fautori e degli esecutori dei massacri fu intentato un discutibile processo svoltosi nel 1919 a Costantinopoli sotto la supervisione del nuovo primo ministro Damad Ferid Pascià che alla Conferenza di pace di Parigi, il 17 luglio 1919 aveva ammesso: “Durante la guerra, quasi l’intero mondo civilizzato fu commosso alla notizia dei crimini che i Turchi avrebbero commesso. Lungi da me il pensiero di travestire questi misfatti che sono tali da far per sempre trepidare d’orrore la coscienza umana. Cercherò ancora di meno di attenuare il grado di colpevolezza degli autori del grande dramma”.
Lo scopo del processo di Costantinopoli non era in realtà quello di rendere giustizia al popolo armeno e di chiarire le colpe pregresse dell’amministrazione ottomana (cioè quelle di prima della Grande Guerra), bensì quello di scaricare tutte le colpe sui leader dei Giovani Turchi, sicuramente responsabili, ma che avevano potuto portare a compimento il loro piano di sterminio, grazie alla connivenza di larghi strati della  burocrazia civile e militare. Il processo si risolse quindi in una farsa, senza considerare che nei confronti dei molti imputati condannati in contumacia (nell’autunno del 1918 quasi tutti erano riusciti ad abbandonare al Turchia), non furono mai presentate richieste di estradizione. Non solo. In una fase successiva anche i verdetti della corte vennero in gran parte annullati ed archiviati.
Sempre nello stesso periodo altre corti turche si occuparono di crimini circostanziati, cioè riguardanti specifiche operazioni di sterminio portate a compimento in diverse regioni dell’ex impero. Quale artefice del massacro compiuto a Yozgat ai danni di un grosso gruppo di prigionieri armeni, il vice-governatore Kemal venne condannato, come pure il governatore distrettuale di Trebisonda. Nel processo in contumacia indetto contro  Behaeddin Shakir autore del massacro della città di Karput, furono gli stessi, pochi scampati a descrivere dettagliatamente il ruolo ricoperto dalle varie istituzioni amministrative e militari locali e dalle organizzazioni speciali statali incaricate di organizzare le varie fasi della persecuzione. Ciononostante, anche in questo caso molte delle pene inflitte dai giudici ai colpevoli di questi orrori furono inspiegabilmente annullate.
Il 15 marzo del 1921, a Berlino, l’ex ministro degli Interni Talaat Pascià, il principale artefice dell’olocausto armeno, venne ucciso da Solomon Tehlirian che, tuttavia, dopo essere stato arrestato e processato, nel mese di giugno dello stesso anno sarà graziato da un tribunale tedesco. Il 18 luglio 1921, fu la volta di Pipit Jivanshir Khan, coordinatore del massacro di Baku, assassinato a Constantinopoli, da Misak Torlakian. Il killer fu arrestato, ma rilasciato dalla polizia inglese. Il 5 dicembre, a Berlino, l’agente Arshavir Shiragian eliminò l’ex primo ministro turco Said Halim Pascià. Shiragian scampò all’arresto, rientrando poi a Constantinopoli. Il 17 aprile 1922, sempre a Berlino, Aram Yerganian, spalleggiato probabilmente da un altro sicario (il misterioso “agente T”) da lui ingaggiato, freddò Behaeddin Shakir Bey, coordinatore dello speciale Comitato ittihadista e Jemal Azmi, il ‘mostro’ di Trebisonda, responsabile della morte di 15.000 armeni, e già condannato, nel 1919, alla pena capitale da un tribunale militare turco che tuttavia non aveva ritenuto opportuno rendere esecutiva la sentenza. Il 25 luglio 1922, fu la volta dell’ex ministro della Difesa Jemal Pascià che a Tbilisi cadde sotto i colpi di Stepan Dzaghigian e Bedros D. Boghosian. Curiosa, ma decisamente consona al personaggio fu invece la fine di Enver Pascià, probabilmente il più ambizioso e idealista dei triumviri turchi, il “piccolo Napoleone” dell’impero e il più tenace propugnatore del movimento “internazionalista” turco. Rifugiatosi tra le tribù dell’Asia Centrale, dove pensava di realizzare il suo antico sogno panturanico, cioè la creazione di una Grande Nazione Turca, agli inizi degli anni Venti Enver scatenò una rivolta mussulmana contro il potere sovietico. Ma il 4 agosto 1922, nei pressi di Baldzhuan, località del Turkestan meridionale (oggi inclusa del territorio del Tagikistan) egli venne sconfitto e ucciso con pochi suoi seguaci da preponderanti forze bolsceviche.

FINE


Bibliografia:

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A. Rosselli, L’Olocausto armeno, Solfanelli Editore, Chieti, 2007.
A. Rosselli, Il tramonto della Mezzaluna – la Turchia durante la Prima Guerra Mondiale, Rizzoli Bur, Milano, 2003


[1] Il “panturanismo” era una dottrina nata nella seconda metà del XIX secolo in Europa (al tempo dell’occupazione russa di Taskent, 1865) dall’orientalista, linguista ed esploratore ungherese Arminius Vambery. Secondo questi, la “grande nazione” turca non poteva essere limitata entro i confini anatolici in quanto la preponderante maggioranza dei popoli centro-asiatici (turkmeni, kazaki, tagiki uzbeki e kirghisi) parlavano - e parlano ancora oggi - dialetti di origine turca. Vambery ricordava inoltre che lo stesso popolo turco proveniva dall’area centro-asiatica, il Turan. Ragione per cui i essi avrebbero avuto senz’altro il diritto di formare una vasta entità politica compresa tra i Monti Altai e il Bosforo.

A Paolo Cossi il primo premio del Concorso "Fede e Strisce" (Rimini) per il libro a fumetti "Ararat. La montagna del mistero".




Il fumettista Paolo Cossi ha vinto il primo premio al concorso "Fede e Strisce" a Rimini con il libro a fumetti: " Ararat. La montagna del mistero". Hazard 2011).

Motivazione:  Per l'allusione, le tematiche forti, il senso di ricerca, all'interno di una storia che riporta alla luce la tragedia degli Armeni.

TURCHIA IN EUROPA: LA POSIZIONE DEL VATICANO E DEGLI INTELLETTUALI CATTOLICI


 

TURCHIA IN EUROPA: LA POSIZIONE DEL VATICANO E DEGLI INTELLETTUALI CATTOLICI

 di Alberto Rosselli

Fin dal lontano 2002, sul problema dell’ingresso della Turchia nell’Unione, il Vaticano aveva cercato di astenersi da prese di posizione per così dire “irrevocabili”, anche se nel luglio e nel settembre di quell’anno, il cardinale segretario di Stato, Angelo Sodano, aveva avuto modo di esporre le sue opinioni e perplessità (che, in forza del suo alto incarico, si identificavano di fatto con quelle della Santa Sede) attraverso due memorandum inviati ai capi di governo dei quindici paesi a quel tempo membri dell’UE. In entrambe le note, Sodano poneva come condizione vincolante all’ingresso della Turchia in Europa il rispetto della libertà religiosa e dei diritti umani, facendo osservare che nei fatti il governo di Ankara era ancora molto distante dal volere ottemperare a tale indicazione.
Venuto a conoscenza dei memorandum, nel dicembre 2002 il ministro degli Esteri turco volle assicurare il Vaticano che ogni sforzo sarebbe stato comunque compiuto dal governo turco in quella direzione. E il 21 giugno 2004, il primo ministro Erdogan ribadì tale assicurazione ricevendo per la prima volta, ad Ankara, i vescovi cattolici di Turchia. Successivamente e in più occasioni, il cardinale Sodano riaffermò nuovamente la posizione sostanzialmente neutrale (o meglio, attendista) della Santa Sede: atteggiamento poi “scavalcato” dall’arcivescovo Giovanni Lajolo. Questi, infatti, dichiarò a chiare lettere che “il rispetto dei diritti umani e, primo fra tutti, della libertà religiosa” da parte di Ankara rimaneva per la Santa Sede la condizione prioritaria, auspicando che “in un futuro negoziato gli interessi economici e strategici non spingessero al ribasso la valutazione di tale priorità”. Il 15 dicembre 2004 nel votare a larga maggioranza l’avvio dei negoziati all’ammissione della Turchia nell’UE, il parlamento europeo bocciò però un emendamento che sollecitava Ankara a conferire al più presto personalità giuridica alle chiese cristiane e a sopprimere il Dipartimento degli Affari religiosi, l’organo di stato preposto al controllo del culto. Dichiarazione, questa, che non fu ben accolta dal Vaticano. Commentando l’episodio, Avvenire, quotidiano della conferenza episcopale italiana, lamentò “il manifestarsi nella maggioranza degli eurodeputati di un qualche pregiudizio anticristiano”, mettendo in guardia circa l’impossibilità “di condurre un’efficace trattativa con la Turchia” nel caso l’Europa avesse continuato ad abdicare a singhiozzo, secondo le proprie idiosincrasie, all’identità europea”.

Sempre per quanto concerne la posizione della Chiesa cattolica, tra i contrari all’ingresso della Turchia vi era un teologo estremamente autorevole, destinato a diventare il futuro papa Benedetto XVI: il cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Ratzinger ebbe modo di esprimere la sua ferma seppur garbata opposizione in due occasioni: nel corso di un’intervista concessa a Le Figaro Magazine e nell’ambito di un convegno degli operatori pastorali della diocesi di Velletri, di cui era titolare. Il contenuto di questo suo intervento fu riportato dal quotidiano cattolico di Lugano Il Giornale del Popolo. In entrambi i casi, il futuro pontefice precisò però di esprimere un’opinione personale. A Le Figaro Magazine, Ratzinger disse: “L’Europa è un continente culturale e non geografico. È la sua cultura che le dona un’identità comune. Le radici che hanno permesso la formazione di questo continente sono quelle del cristianesimo. (...) In questo senso, nel corso della storia, la Turchia ha sempre rappresentato un altro “mondo”, in permanente contrasto con l’Europa. (…) I turchi hanno combattuto contro l’impero bizantino, hanno invaso i Balcani e hanno minacciato perfino Vienna. (…) Sarebbe quindi un errore identificare i due continenti. Sarebbe una perdita la scomparsa di una cultura in cambio di benefici economici. La Turchia, che si considera uno stato laico, ma fondato sull’islam, potrebbe – suggerì Ratzinger - tentare di dare vita, assieme ad altri paesi mediorientali, ad un nuovo “continente”, diventando così una nazione protagonista, in possesso di una chiara identità, ma in comunione con i grandi valori umanisti che noi tutti dovremmo riconoscere. Questa idea, che non contrasterebbe forme di associazione e di collaborazione stretta e amichevole con l’Europa, permetterebbe il sorgere di una forza comune in opposizione a qualsiasi tipo di “fondamentalismo’”. Concetti, questi, poi ribaditi nel successivo discorso di Velletri. “Storicamente e culturalmente – ripeté il cardinale - la Turchia ha poco da spartire con l’Europa: ragione per cui sarebbe un errore grande inglobarla nell’Unione. Meglio sarebbe se la Turchia facesse da nazione-ponte tra Europa e mondo arabo, oppure formasse un suo “continente culturale” insieme con esso. L’Europa non è un concetto geografico ma culturale, formatosi attraverso un percorso storico, anche conflittuale, imperniato sulla fede cristiana, ed è un fatto che l’impero ottomano si sia sempre contrapposto all’Europa. Anche se Kemal Atatürk negli anni Venti ha costruito una Turchia laica, essa resta il nucleo dell’antico impero ottomano islamico”. (L’Europa è cristiana: ma nel suo cielo brilla la mezzaluna turca, di Sandro Magister, 15.10.2004)

All’epoca in cui era ministro degli Esteri della Santa Sede, l’arcivescovo Jean-Louis Tauran aveva anch’egli formulato serie riserve sull’ingresso nell’Unione della Turchia. In un’intervista del 25 maggio 2003, rilasciata al Corriere della Sera, Tauran aveva suggerito di “dare la precedenza, in materia di integrazione europea, a paesi come la Moldavia e l’Ucraina, entrambi europei e cristiani”. Posizione, quella di Tauran, alla quale, sempre nel maggio del 2003, si associò il cardinale Camillo Ruini, vicario del papa per la diocesi di Roma e presidente della Conferenza Episcopale Italiana. Nella conferenza stampa a conclusione di un’assemblea della CEI, Ruini aveva invitato a “ponderare bene” la questione, perché da un lato era da valutare “l’interesse dei cristiani di Turchia” ad entrare in Europa, ma dall’altro non si poteva ignorare che “la Turchia, pur avendo una costituzione laica, era di fatto una nazione fortemente islamica, molto popolosa e con una dinamica demografica molto accentuata”. In questi ultimi tempi, l’opinione del cardinale Ruini sembra essersi evoluta in termini più favorevoli nei confronti dell’ammissione della Turchia, stando almeno a quanto riportato dal quotidiano Avvenire e dall’Agenzia SIR (entrambi della CEI). Un cardinale che di recente si è espresso invece a sostegno della Turchia è il gesuita Roberto Tucci, organizzatore dei viaggi all’estero di Giovanni Paolo II. Tucci è infatti dell’idea che la Turchia sia un paese islamico autenticamente “moderato” e quindi predisposto, nonostante la sua islamicità, ad essere inserito, seppure a determinate condizioni, in Europa.
Decisamente favorevoli all’ingresso della Turchia nell’UE sono i vescovi e la minuscola comunità cattolica di Anatolia. Il 21 giugno 2004, per la prima volta nella storia, i vescovi furono ricevuti ad Ankara dal primo ministro Erdoğan al quale essi espressero il loro sostegno e insieme la richiesta di un riconoscimento giuridico anche per la chiesa cattolica (il governo turco aveva già deliberato un simile provvedimento sia per gli ebrei che per gli armeni e i greci ortodossi). In due successive interviste rilasciate all’agenzia SIR, il portavoce della Conferenza episcopale turca, monsignor Georges Marovitch, rammentò che “tra i paesi islamici, la Turchia che per più tempo ha potuto sperimentare il fenomeno della coabitazione tra differenti religioni. Questo paese rappresenta inoltre il punto di congiunzione tra Occidente e Oriente, un ponte che potrebbe facilitare le relazioni tra islam e cristianesimo. Senza considerare che in Europa vivono già 15 milioni di mussulmani dei quali ben cinque milioni sono turchi. Negare l’ingresso alla Turchia – dichiarò Marovitch - significherebbe correre il rischio di fare cadere questo paese nelle mani degli integralisti e fondamentalisti islamici”. Parimenti favorevole ad una Turchia inserita nell’UE si sono dichiarati il patriarcato ortodosso di Costantinopoli e le chiese cristiane di tutte le confessioni riunite nella KEK, la Conferenza delle Chiese Europee. Va comunque notato che, nell’ambito del variegato mondo delle comunità cristiane non cattoliche, esistono anche fermi oppositori, come ad esempio la potente chiesa russa ortodossa che concorda in tutto, o quasi, con il pensiero di gran parte dei vescovi cattolici. Anzi, si spinge ancora più in là. Per il patriarcato russo, infatti, un’eventuale ammissione della Turchia nell’UE “indurrebbe, inevitabilmente, anche gli altri stati nordafricani, e mussulmani, che si affacciano sul Mediterraneo a reclamare un’identità europea. Cosa del tutto insensata”.

  

MA SIAMO PROPRIO SICURI CHE IL POPOLO TURCO ASPIRA AD ENTRARE IN EUROPA? 

 di Alberto Rosselli

Premessa d'obbligo. Cerchiamo di valutare le reali intenzioni del popolo anatolico nei confronti della questione (o “opportunità”) Europa. “In Turchia – spiega Fabio Salomoni - la scena politica presenta un quadro abbastanza netto. Da un lato abbiamo l’entusiasmo del governo Erdoğan e del suo partito che hanno scommesso sulla ruota europea tutta quanta la loro credibilità ed il loro futuro politico, mentre dall’altro ci troviamo in presenza di un’opposizione, rappresentata dal partito CHP (Cumhuriyet Halk Partisi, Partito Repubblicano del Popolo) - dilaniato da feroci lotte intestine ed incapace di costituire una visione politica alternativa - che accusa Erdoğan di non essere stato in grado di difendere gli interessi del Paese”.
Più complesse e frastagliate sono invece le posizioni sulle quali si attesta l’opinione pubblica turca che appare attraversata da sentimenti e reazioni assai più complesse e spesso contraddittorie. Scongiurato il pericolo di soluzioni alternative, come quella di uno “statuto speciale”, ventilate da molti ambienti politici europei, la popolazione turca manifesta oggi un generale senso di logoramento generato dal carattere martellante assunto dalla “campagna europea” che, quantomeno negli ultimi due anni, ha monopolizzato l’attenzione dei mass media ed occupato buona parte dell’agenda politica. Il dibattito sull’Europa ha di fatto oscurato molti gravi problemi che attanagliano la vita quotidiana di gran parte del Paese: primi fra tutti la disoccupazione e la povertà. L’effettivo ritardo economico del Paese, il suo crescente peso demografico e la sua delicata posizione geografica hanno destato non poche perplessità. In generale ci si chiede perché tutte queste delicate tematiche, ben presenti nell’opinione pubblica turca, siano state discusse dagli Europei solamente ora e non, ad esempio, nel 1999 a Helsinki, quando l’UE decise di accettare la candidatura turca subordinandola al rispetto dei cosiddetti “criteri di Copenaghen”. La sensazione è che all’epoca l’Unione non avesse serie intenzioni di combinare il matrimonio con la Turchia e non credesse nemmeno nelle capacità del paese di realizzare le riforme richieste.
Diffidenza nei confronti della politica del governo di Ankara e della Comunità Europea ma anche consapevolezza dell’importanza del grande passo che il paese si appresta - o spera di riuscire - a compiere, sono dunque le note che caratterizzano l’atteggiamento di buona parte dell’opinione pubblica turca. Incertezza, dubbi, ma anche necessità economiche e “desiderio di progresso” sembrano contraddistinguere le opinioni che emergono soprattutto dai ceti medi o emergenti moderati e laicisti del paese che, tuttavia, non rappresentano la maggioranza assoluta dell’elettorato. Di parere nettamente contrario, o per lo meno pervasi da scetticismo, appaiono ancora larghi strati della popolazione, soprattutto quelli fortemente legati agli ideali nazionalisti e al mondo religioso islamico. Comunque sia, fare oggi stime esatte o avanzare ipotesi circa le reali intenzioni e gli autentici desideri (o speranze) del popolo anatolico appare ancora esercizio alquanto arduo. Senza contare che il cambiamento della situazione politica ed economica mondiale, l’evolversi dei rapporti tra Turchia e Stati Uniti e le incognite legate alle questioni mediorientali e al fattore terrorismo internazionale, potrebbero giocare un ruolo determinante nel modificare le opinioni di un popolo, quello turco, sostanzialmente diviso su non pochi temi.
Un discorso a parte va fatto per gli appartenenti alla folta comunità turca che risiede in Germania. Secondo l’esponente del Partito Verde, Cem Özdemir “una buona parte dei cittadini turchi sarebbe favorevole all’ingresso di Ankara nel consesso unionista, anche se esistono gruppi nazionalisti (ma anche raggruppamenti dell’area moderata) che avversano questa ipotesi, poiché ritengono che la madrepatria stia concedendo troppo all’Europa in cambio di semplici promesse”. Secondo Cem Özdemir, su un tema delicato come quello dell’adesione della Turchia “sarebbe comunque giusto che fossero i popoli e non i governi europei ad esprimersi, magari con un referendum. Detto questo, ritengo paradossale, però, che Malta, da sola, possa decidere attraverso un sistema di questo tipo se accettare o meno la Turchia”. Circa poi il non eccelso livello di integrazione della minoranza turca in Germania, Cem Özdemir ritiene che le responsabilità siano da suddividersi equamente tra turchi e tedeschi. “Una delle ragioni della scarsa “permeabilità” sociale da parte della società tedesca sta nel sistema scolastico. D’altro canto sono stati gli stessi immigrati a non favorire la creazione di strutture che li potessero integrare meglio nella società tedesca. Oggi però ci sono molti segnali che indicano un generale miglioramento della situazione, dalle condizioni delle donne ai rapporti culturali. Il nostro obiettivo deve essere una società in cui gli immigrati siano equamente rappresentati in tutti gli strati sociali, non perché immigrati ma perché persone uguali a tutte le altre. Per i turchi-tedeschi – conclude Cem Özdemir - l’adesione porterebbe alcuni vantaggi pratici: il diritto di voto alle elezioni comunali ed una serie di norme sull’espatrio meno restrittive di quelle attualmente in vigore. Senza considerare che i non pochi immigrati turchi della prima generazione che vorrebbero ritornare in patria lo potrebbero fare con grande facilità, senza tuttavia dovere rinunciare ai loro legami con la Germania”.

COSA C'ENTRANO I TURCHI CON L'EUROPA?


  

COSA C'ENTRANO I TURCHI CON L'EUROPA?

 di Alberto Rosselli

I sostenitori dell’ingresso della Turchia in Europa sono dell’idea che non esistano differenze sostanziali e discriminanti (di razza e di cultura) tra il popolo anatolico e quello del Vecchio Continente. E ricordano, non a torto, che i turchi hanno coabitato con gli occidentali nei Balcani dal XIV all’inizio del XX. Secondo l’opinione di storici come Franco Cardini - tanto per fare un esempio - la regione balcanica risentirebbe ancora oggi della pesante eredità ottomana. “Nei Balcani – si allinea lo storico ed esperto di geopolitica Claudio Mutti - la cultura turca è intrecciata con quelle locali, sul piano linguistico, letterario, gastronomico e musicale. Solo chi pensa che l’Europa sia un sobborgo multiculturale di Bruxelles può ignorarlo”. Insomma, diversi studiosi sostengono che sotto il profilo formativo e politico la Turchia sia già da tempo “conficcata” in Europa divenendo parte integrante di essa.
A sostegno delle loro tesi, studiosi come Mutti, citano anche particolari ed interessanti trattati della fine del XVIII secolo: Il Nuovo Trattato della Sfera di P. Jacquier e la Nuova Geografia Universale di Padre Claude Buffier. Bene. Nel rappresentare dal punto di vista geopolitico il Vecchio Continente, si evidenziava quella che a quel tempo veniva chiamata “la Turchia europea”, così detta in quanto parte di un’Europa “appartenente al Gran Signore, con a Settentrione la Schiavonia, l’Ungheria, la Polonia, e la Moscovia; a Levante il mare delle Zabacche, lo Stretto dei Dardanelli, e l’Arcipelago; a Mezzodì lo stesso Arcipelago, il mare di Candia, ed il Jonico; a Ponente il Jonico, l’Adriatico e la Germania”. Nel testo i turchi erano descritti come “discendenti dagli sciti che alla testa di Ottomano” stabilitisi sulle rovine degli imperatori greci bizantini. “Essi erano di religione maomettana, pur avendo molti cristiani, per la maggior parte scismatici, obbedienti al Patriarca di Costantinopoli, Capo della Chiesa Greca Orientale ed altri, quali i maroniti (cattolici romani), gli armeni, i georgiani, i giacobiti, cristiani nestoriani, copti ed appartenenti ad altre fedi”.
Tutto questo oltre due secoli fa. “Ma oggi – si domanda Daniele Marconcini rappresentante del Consiglio Regionale Lombardo nella Consulta dell’Emigrazione - esiste ancora una Turchia europea, seppure entro confini più angusti, con legami socio-culturali tali da giustificare l’apertura del negoziato sull’entrata d’Ankara nell’Unione Europea?”. “Partiamo dall’attuale identità “europea” della Turchia. Il presidente francese Chirac ha affermato che i turchi sono “figli di Bisanzio” anche se ambienti conservatori e religiosi turchi respingono con vigore questa definizione, preferendo sottolineando la loro identità turca e mussulmana. Altri, invece, hanno rivendicato l’eredità storica e culturale di Bisanzio, ovvero dell’impero romano d’Oriente, allusione che suggerisce un legame diretto con l’Europa. La conquista di Costantinopoli da parte degli ottomani, la loro avanzata fino a Vienna e l’insediamento nei Balcani dimostrano che la Turchia è già da tempo in Europa. Tanto più che gli ottomani, oltre ai matrimoni con alcune illustri bizantine, hanno conservato molti simboli della stessa Bisanzio: la moneta con l’effigie di Giustiniano o il nome di Istanbul, che deriva dal greco istin polis, “nella città”. Un legame sufficiente per fare affermare ad alcuni che gli ottomani e i turchi d’oggi altro non sono che romani islamizzati. Sull’appartenenza storico-economica all’Europa un’autorevole risposta l’ha già data l’Indipendent Commission on Turkey di cui fanno parte tra gli altri Anthony Giddens, Emma Bonino, Martti Ahtisaari, Bronislaw Geremek. Si tratta di una Commissione formatasi col supporto dell’Open Society Institute e del British Council, con lo scopo di esaminare gli eventuali benefici di un’adesione della Turchia all’UE. Secondo la Commissione “la Turchia è uno stato eurasiatico, la sua cultura e la sua storia sono saldamente intrecciate con il Vecchio Continente. Quindi, la sua adesione all’Unione Europea risulterebbe più che lecita”, anche in considerazione dei grandi passi già compiuti da Kemal Atatürk lungo la strada dell’occidentalizzazione. “La gente non civilizzata – disse il padre della Turchia moderna - è condannata a rimanere sotto la dominazione dei Paesi civilizzati. E la civilizzazione è l’Occidente, cioè il mondo moderno, di cui la Turchia deve far parte se vuole sopravvivere”. “L’entrata della Turchia in Europa – continua Marconcini - dimostrerà all’Occidente che la convivenza tra religioni diverse è possibile in politica, nella cultura e nella vita di tutti i giorni”, come ha recentemente affermato Mustafa Akyol dell’Intercultural Dialogue Platform, un’associazione di intellettuali nata per promuovere e sviluppare il dialogo interreligioso. (…). “Il governo di Ankara dovrà semplicemente adeguarsi ai criteri ai quali tutti i paesi candidati devono attenersi: stabilità istituzionale tale da poter garantire la democrazia, stato di diritto, rispetto dei diritti umani e delle minoranze”.
Secondo lo storico Franco Cardini, grande esperto di cultura islamica, sarebbe insensato impedire alla Turchia di entrare Europa soltanto perché paese mussulmano. L’Europa, pur essendo in maggioranza cristiana, non è infatti un “club cristiano”. In essa vivono molti mussulmani, persone che hanno acquisito diritti civili e, seppure in misura differente, atteggiamenti mentali europei. Cardini è poi convinto della serietà della scelta europea turca rammentando gli sforzi compiuti, a partire dalla fine dell’Ottocento, da organizzazioni nazionaliste e progressiste, come quella dei Giovani Turchi, per avviare un generale processo di modernizzazione, in senso occidentale, dell’impero, o ricordando, anch’egli, il sostanziale successo conseguito poi dalla radicale politica riformista di un Kemal Atatürk. Politica – come ha osservato acutamente Cardini – che oggi verrebbe giudicata fin troppo laicista dalla stessa UE. Per Cardini, un’esclusione della Turchia dall’Europa sarebbe dunque ben poco plausibile. Anche se tra XV e XVIII secolo i dissidi armati tra l’impero ottomano e l’Occidente risultarono sicuramente molto frequenti. “Ma se per assurdo – conclude Cardini -si dovesse assegnare un ruolo qualsiasi nel processo d’integrazione europea al peso delle inimicizie passate, l’Unione Europea non sarebbe mai nata. Basti pensare alle numerose, sanguinose guerre tra gli stati del Vecchio Continente e ai conflitti religiosi tra cattolici e protestanti”.

L'EUROPA MISCREDENTE E' IN FONDO, E SUO MALGRADO, CRISTIANA E NON HA NULLA IN COMUNE CON IL MONDO ISLAMICO E MANCO CON LA TURCHIA



 
L'EUROPA MISCREDENTE E' IN FONDO, E SUO MALGRADO, CRISTIANA E NON HA NULLA IN COMUNE CON IL MONDO ISLAMICOE MANCO CON LA TURCHIA

 di Alberto Rosselli

 Il professor Massimo De Leonardis, ordinario di Storia delle Relazioni e delle Istituzioni internazionali e di Storia dei Trattati e Politica internazionale all’Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, ha posto, al riguardo delle presunte affinità tra mondo europeo e islamico sbandierate da progressisti terzomondisti e liberisti atei,  una premessa, diciamo propedeutica, circa l’inscindibilità storica tra cristianità ed europeismo. “E’ unicamente grazie alle sue radici cristiane che l’Europa ha potuto godere di grande sviluppo e successi in ogni campo, culturale, artistico, economico, scientifico e tecnico, diffondendo la civiltà in tutto il mondo. (…) L’Europa è un concetto geografico, la cristianità è il territorio dell’ordine cristiano che plasma la società e lo Stato. L’Europa come entità politica e spirituale nasce con il Medioevo. La cristianità medioevale fu, ad un tempo, “nascita” e “frutto” dell’Europa. Nascita, perché la formazione di un’Europa non in senso geografico od amministrativo ma ideale e perenne, fu possibile soltanto su basi romane e cristiane (…); frutto, perché al tempo di Carlo Magno tale unità venne raggiunta”. Sempre secondo De Leonardis la respublica christiana esprimeva il concetto di un’Europa che riconosceva come sue massime espressioni istituzionali il Sommo Pontefice e il Sacro Romano Imperatore, “anche se con il tempo tali figure spesso si trovarono contrapposte”. Ma veniamo alla considerazione più interessante. “L’identità politica e spirituale europea, la respublica christiana – spiega De Leonardis - si venne a formare e a consolidare anche grazie alla contrapposizione tra l’Europa e il suo nemico mortale, l’impero ottomano”.
Ma c’è di più. Secondo Ludwig Hertling, professore di Storia Ecclesiastica all’Università Gregoriana di Roma, “la Chiesa e l’islam sono da sempre le due grandi rivali nella storia religiosa dell’umanità”. Una contrapposizione che, nonostante il passare dei secoli, non sembra essersi affievolita. Anzi, stando agli eventi degli ultimi dieci anni, essa si è di fatto inasprita, non certo per volontà della Chiesa, ma per la crescente e palese ostilità – antioccidentale e anticristiana - manifestata da gran parte del mondo islamico. Ciononostante, l’Europa non sembra accorgersi di nulla, o pare volere ignorare, magari per interessi economici e finanziari, tale verità. “La respublica christiana medioevale – rammenta De Leonardis - trovava la sua unità nella comune fede religiosa[1]. Mentre l’Unione Europea basa la sua essenza e la sua politica su un sostanziale rifiuto di ogni fede, di ogni dogma, sul permissivismo, sul “politicamente corretto” e – aggiungiamo noi – sulla “tentazione relativista”. In ogni virtù l’eccesso è sempre nocivo, se non fatale, scriveva J. B. Duroselle. E questo eccesso per l’Europa si identifica oggi con il lassismo e il permissivismo”. “Oggi, in Europa, tutto è tollerato e l’esistenza di una verità morale e religiosa comune è praticamente bandita. Assistiamo al trionfo delle tesi di Voltaire, che proponeva: nessuna libertà per i nemici della libertà (dichiarazione che a nostro parere non fa certo onore all’indiscutibile acume del filosofo) e di quelle di un Locke, che negava ai cattolici la libertà di professare la loro fede”.
L’Europa combatte, in buona sostanza, la propria anima e la propria cultura, mentre l’islam si fa sempre più vanto e forza della sua. “Da alcuni anni a questa parte – continua De Leonardis - la minaccia islamica ha assunto una doppia curiosa valenza. Da una parte abbiamo il terrorismo e dall’altra la disgregazione (o “autodisgregazione”, nda) dell’identità cristiana europea”. (…) La storia insegna che l’islam avanza quando la Chiesa vacilla e i cristiani si lasciano sedurre dal lassismo spirituale (e dal relativismo filosofico, nda). Ma la storia insegna anche che i mussulmani per primi disprezzano i cristiani che si proclamano laicisti”. Qualche hanno fa il cardinale Giacomo Biffi aveva invitato a limitare l’immigrazione mussulmana, ammonendo: “non possiamo edificare una casa tutta aperta. Prima si costruiscono le mura, poi le porte. Questa Europa non ha futuro. O l’anima cristiana si risveglierà o l’Europa diverrà islamica, anche perché i mussulmani vengono con il loro bagaglio di intransigenti principi (…) Purtroppo, né i laici, ma nemmeno gran parte dei cristiani, pare si siano resi conto del dramma che si sta profilando. (…) I cattolici, lasciando sbiadire in se stessi la consapevolezza della verità posseduta, sostituendo all’ansia apostolica il puro e semplice dialogo a tutti costi, stanno preparando inconsciamente la propria inevitabile estinzione”.
“Uno dei sostenitori del teorema “storico” che giustificherebbe l’entrata della Turchia in Europa è l’ex ambasciatore Sergio Romano. Egli ha più volte ricordato, a beneficio della sua tesi, che sia in età moderna che contemporanea l’impero ottomano ha partecipato più volte ai giochi diplomatici europei. “I re cristiani di Francia siglarono ripetute intese con il sultano in funzione anti-asburgica, e alla metà del XIX secolo Francia, Gran Bretagna e Regno di Sardegna si allearono con la Sacra Porta in funzione antirussa partecipando nel 1854 alla Guerra di Crimea”. Tutto esatto, ma non sufficiente a supportare un teorema. “Se è vero che sia Francesco I sia Luigi XIV di Francia strinsero frequenti seppur temporanee intese con la Sacra Porta – commenta De Leonardis – tali sovrani mai si sognarono di trasformare la Francia in una nazione multietnica e multiculturale. E quando, nel XVI secolo, i turchi presenti in alcune basi navali della Provenza affittate ai turchi iniziarono a creare problemi di convivenza con la locale popolazione, il re revocò immediatamente tali concessioni”. In ragione di queste osservazioni cadrebbe quindi ogni teoria “storicistica” a sostegno di una presunta “vicinanza” tra Turchia ed Europa. “Non vedrei difficoltà – conclude De Leonardis – ad una adesione “leggera” della Turchia all’Europa, cioè nell’ambito di una zona economica di libero scambio. Chiedere o volere di più non risulterebbe a mio parere possibile perché i due soggetti in esame non condividono affatto un patrimonio comune di civiltà e cultura”. Tesi, questa, condivisa anche da un illustre pensatore cattolico brasiliano, Plinio Correa de Oliveira, che non sembra credere nemmeno alla cosiddetta “funzione sanitaria” della Turchia sostenuta da diversi politologi. “Una volta entrata in Europa, la Turchia si rivelerebbe una “barriera” contro il dilagante fondamentalismo islamico, o non piuttosto un comodo “ponte” per un islam proiettato alla conquista culturale e religiosa del Vecchio Continente che di fatto sembra avere abdicato alla propria civiltà?”.



[1] Secondo Sedat Laçiner (Direttore dell’ International Strategic Research Organization & IR Lecturer, Canakkale Onsekiz Mart University.), “l’Europa è un’idea relativamente moderna in quanto per gli antichi essa non significava unità politica e culturale. Geograficamente, l’Europa è una delle penisole del continente asiatico, come l’India o la penisola arabica. Inoltre, essa non ha confini naturali molto chiari che la distinguano dall’Asia. Per Gerad Delanty docente in sociologia all’Università di Liverpool e York University in Ontario, “esiste ben poca congruità storica tra la moderna nozione di Europa e quella greco-romana”. Per gli ellenici, come più tardi per i romani, la parola Europa fu associata in primo luogo ad un mito piuttosto che ad una cultura scientifica”. Oltre a ciò, Delanty ricorda che il cosiddetto “etnocentrismo” romano “trovava spazio e ragione d’essere non sull’idea di Europa, ma sul mito stesso di Roma, intesa come centro culturale e civile del mondo. Per lungo tempo, perfino i cristiani non poterono cambiare la situazione. Agli inizi dell’era cristiana essere un cristiano equivaleva ad essere un romano, non certo un europeo. Tutto però cambiò con la fine dell’Impero e con l’inizio dell’era medioevale, allorquando l’Europa dovette iniziare a fare i conti con un islam militarmente, religiosamente e culturalmente forte, ed invasivo. Un islam che, proprio in virtù della sua robusta connotazione ideologico-religiosa, avrebbe potuto forse, per certe regioni mediterranee, rappresentare un’alternativa alla ancora fragile identità occidentale postromana. In seguito, i frequenti conflitti tra mondo islamico e cristiano (e il contestuale rafforzamento della Chiesa, nda) contribuirono indubbiamente a fare emergere e consolidare l’’idea dell’ Europa come specifica entità culturale e religiosa degna di essere difesa e salvaguardata”.

SE VUOLE ENTRARE IN EUROPA LA TURCHIA DEVE RICONOSCERE IL GENOCIDIO ARMENO


Bambino armeno (1915)
 
 
SE VUOLE ENTRARE IN EUROPA
LA TURCHIA DEVE RICONOSCERE IL GENOCIDIO ARMENO

di Alberto Rosselli

Il governo di Ankara, come è noto, non sembra intenzionato - almeno allo stato attuale - ad ammettere che tra il 1915 e il 1918 circa 1.000.000/1.500.000 (a seconda delle fonti) cristiani armeni furono massacrati dalle milizie turche: rifiuto che non è stato bene accolto da diversi paesi membri dell’UE, prima fra tutti la Francia che, nel maggio del 1998, attraverso l’Assemblea Nazionale, riconobbe ufficialmente il genocidio degli armeni del 1915, mandando su tutte le furie il governo di Ankara. Questo infatti controbatté, seppure in maniera un po’ troppo ragionieristica, che il “genocidio altro non fu che una farsa propagandistica, in quanto le vittime della repressione del ‘15 non superarono le 300.000 unità”[1]. Sempre nell’estate del 1998, la Lega Nord propose al parlamento italiano il riconoscimento del genocidio armeno, ma soltanto 145 parlamentari decisero di sottoscrivere il documento.
Per chiarezza ricordiamo che con l’espressione “genocidio armeno” o “massacro degli armeni” (in lingua armena Medz Yeghern, “grande male”) ci si riferisce a due eventi distinti ma legati fra loro: il primo, relativo alla campagna contro gli armeni condotta dal sultano ottomano Abdul Hamid II negli anni 1894-1896; il secondo, collegato alla deportazione ed eliminazione degli armeni progettata e portata a compimento dallo stato maggiore del Comitato di Unione e Progresso nel periodo compreso tra il 1915 e il 1918. Nel 1890, nell’impero ottomano si contavano circa 2,5 milioni di armeni, in maggioranza cristiani orientali o cattolici. Questa minoranza era sostenuta dalla Russia zarista sia per la “vicinanza” religiosa sia, e soprattutto, perché il governo di San Pietroburgo sperava, anche mediante il concorso armeno, di indebolire ulteriormente l’impero ottomano per annetterne territori ed appropriarsi, se possibile, dell’area nevralgica degli Stretti. Con lo scopo di reprimere il movimento autonomista armeno, che nel frattempo era sceso in campo con varie formazioni politiche, anche armate, verso la fine del XIX secolo il governo della Sacra Porta ricorse alla forza bruta, incoraggiando anche i curdi, con i quali gli armeni condividevano parte dell’Armenia storica, a molestare e saccheggiare impunemente le comunità cristiane. Questo stato di cose esasperò a tal punto gli armeni che, nel 1894, essi tentarono di ribellarsi, venendo però schiacciati dalle milizie ottomane e curde. Ma, come si è detto, fu tra il 1915 e il 1918 che la persecuzione contro gli armeni raggiunse dimensioni tali da fare parlare di vero e proprio genocidio: un massacro organizzato, condotto e gestito con agghiacciante zelo e rigore scientifico.
All’inizio del 1915, nel corso di una riunione segreta del Comitato di Unione e Progresso indetta per pianificare lo sterminio degli armeni, il segretario esecutivo Nazim concluse con queste parole i lavori dell’assemblea: “Siamo in guerra, e non potrebbe verificarsi un’occasione migliore per eliminare tutta la popolazione armena. In un momento come questo è estremamente improbabile che vi siano interventi da parte delle grandi potenze e proteste da parte della stampa”. Un altro dei presenti, Hassan Fehmin, aggiunse poi. “Siamo nelle condizioni ideali per spedire sul fronte caucasico tutti gli armeni in grado di imbracciare un fucile. Una volta dispiegati potremo intrappolarli e annientarli con facilità, chiusi come saranno tra le forze russe che si troveranno davanti e le forze speciali che piazzeremo alle loro spalle”. Sempre nel corso della seduta il Comitato decise di affidare la gestione della “questione armena” ad una speciale commissione formata dal segretario esecutivo Nazim, da Behaettin Shakir e dal ministro della Pubblica Istruzione, Shoukri, sotto il diretto controllo di Taalat Pascià. La commissione istituì a sua volta la cosiddetta “Organizzazione Speciale” (la Teshkilate Makhsusa), una milizia formata in buona misura da ex detenuti ai quali fu promessa la libertà in cambio di criminali servigi. Da quella data, fino alla resa dell’impero ottomano, l’esercito e le milizie turche e curde si distinsero nel portare a compimento persecuzioni, deportazioni e massacri così efferati da potere essere paragonati a quelli che in seguito verranno organizzati dalle autorità naziste e sovietiche.
“L’Unione Europea – rammenta il giornalista Filippo Facci - ha posto il riconoscimento del genocidio da parte della Turchia come prioritaria condizione perché quest’ultima entri in Europa, ed è un fatto importante: anche se una mozione analoga fu invero promossa dal Parlamento Europeo già nel 1987, ed una analoga fu approvata dal Parlamento italiano nel 2001, anche se Russia, Argentina, Bulgaria, Cipro, Grecia, Belgio e soprattutto Francia hanno da tempo riconosciuto quella che non è una leggenda nera (…). Si parla del primo ed acclarato genocidio del Novecento con un milione e mezzo di cristiani armeni sterminati in quanto armeni, ciò che ispirò Adolf Hitler, quando in un celebre discorso del 22 agosto 1939 disse che si poteva invadere la Polonia e massacrarne il popolo senza preoccuparsi delle conseguenze: “Chi mai ricorda oggi - si chiese - dei massacri degli Armeni?”. Ma a muoversi sulla pista francese è stato anche il Vaticano. Il 9 novembre 2000, Giovanni Paolo II ricevette il patriarca armeno Katholicos Karenin e sottoscrisse un comunicato di denuncia delle persecuzioni subite dagli armeni a causa della propria fede cristiana. In quell’occasione il papa disse che “fu proprio il genocidio degli armeni a fare da prologo agli orrori che sarebbero seguiti”. E nel corso della sua successiva visita in Armenia, nel settembre del 2001, il Giovanni Paolo II volle rendere omaggio alle vittime del massacro sostando in preghiera nel mausoleo di Tzitzernagaberd, ad Erevan, e domandandosi con sgomento “come il mondo abbia potuto assistere ad aberrazioni tanto disumane”.
La reazione della Turchia alle dichiarazioni del pontefice furono a dire poco sprezzanti ed irriguardose. Il principale quotidiano turco, il Milliyet, scrisse che il papa “non era più in grado di intendere e di volere”, mentre altri giornali vicini all’organizzazione dei cosiddetti Lupi Grigi, lamentarono che Ali Agca non fosse riuscito nel suo intento. Ciò non impedì tuttavia a Giovanni Paolo II di visitare l’Armenia e di elevare all’onore degli altari l’arcivescovo Ignazio Maloyan, vittima egli stesso del genocidio. (…) A ben vedere, lo sterminio degli armeni resta un “olocausto dimenticato” e protervamente negato, e non solo dai turchi. Ancora oggi gli Stati Uniti non ne vogliono sentire parlare. Una decina di anni fa, un documento del Congresso che prevedeva il riconoscimento del genocidio fu ritirato dietro pressioni dell’allora presidente democratico Clinton. Per sconcertante che sia – osserva Facci - il genocidio non è solo completamente assente dai libri di scuola turchi, ma anche da quelli tedeschi”.
Alcuni anni fa, il quotidiano tedesco Die Welt annunciò che il Brandeburgo aveva deciso di eliminare ogni riferimento ai massacri ottomani, sicché l’ultimo riferimento a un più marginale “genocidio degli Armeni in Anatolia” fu cancellato. Il Brandeburgo era infatti rimasto l’ultimo stato tedesco a parlare di questo ‘olocausto’ in un testo scolastico.

Ma quale è attualmente la situazione del popolo armeno residente entro i confini dello stato turco? Nel 1991 in seguito della dissoluzione dell’Unione Sovietica, sulle ceneri dell’ex Repubblica Sovietica Armena fu fondata la Repubblica Armena. Il 90% della regione storica è comunque rimasto sotto il controllo della Turchia che, oltre a non voler ammettere alcuna responsabilità riguardo al genocidio, rifiuta categoricamente la restituzione anche parziale dei territori da essa occupati. Nel 1989, ebbe inizio la sanguinosa guerra con il vicino Azerbaigian per il controllo dell’Artzak (Nagorno-Karabach), enclave armena in territorio azero, conflitto che si è concluso con l’acquisizione dell’indipendenza della provincia cristiana. Recentemente, anche i rapporti tra curdi ed armeni sembrano essere migliorati, in buona misura perché entrambe le minoranze si sentono a tutt’oggi minacciate o discriminate da Ankara. Un discorso a parte meritano i rapporti tra l’Armenia e l’Azerbaigian turcofono che risultano sempre molto tesi a causa delle rivendicazioni azere sul territorio del neonato stato di Artzak e per le rivendicazioni armene sul Nakitcevan provincia affidata all’Azerbajan dal trattato russo-turco del 1921.

Lasciamo ora la parola a chi sostiene – contrariamente a quanto detto dai commentatori “colpevolisti” - che la Turchia sia invece pronta, o quasi, a farsi carico spontaneamente le sue colpe “storiche”, andando così incontro alle esplicite richieste formulate dalla Unione Europea circa il riconoscimento del “genocidio armeno”.
“Sarebbe fuorviante – sostiene Fabio Salomoni - trarre la conclusione che la Turchia si rifiuti di mettere in discussione il proprio passato. Da alcuni anni, in realtà, la società turca è impegnata nel difficile compito di “confrontarsi con la propria storia”, con i tabù e le reticenze dell’ideologia ufficiale non solo rispetto alla storia repubblicana, lontana e recente, ma anche a quella ottomana. La questione armena rappresenta indubbiamente uno dei nodi più resistenti e dolorosi da sciogliere: essa rappresenta “il buco nero dell’identità repubblicana”, come ha scritto lo storico Taner Akcam. La messa in discussione di questo tabù è già stata però avviata, seppure timidamente, all’inizio del 2005, con una mostra ad Istanbul di 600 cartoline d’epoca: esposizione che nelle intenzioni degli organizzatori aveva come obbiettivo quello di “fare prendere gradualmente coscienza ai cittadini turchi di quanto vasta e radicata fosse stata la presenza armena sul territorio ottomano”. Successivamente, ad Istanbul, il primo ministro Erdoğan ha inaugurato un museo armeno. E da quel momento il processo di “revisione storica” ha subito una notevole accelerazione. In più occasioni, i canali televisivi del paese, compresa la tradizionalmente ingessata tv di stato, hanno proposto trasmissioni dedicate alla questione armena nella quale storici, giornalisti, opinion makers, intellettuali delle più diverse posizioni ed orientamenti hanno avuto modo di confrontarsi e scontrarsi in dibattiti interminabili. Una fibrillazione generalizzata – spiega Salomoni - che non ha risparmiato nemmeno gli scaffali delle librerie. Accanto agli inserti speciali di alcune riviste dedicati alla “tragedia armena”, tre sono le iniziative editoriali che meritano di essere segnalate. La prima è rappresentata dal volume “1915, che cosa è successo?”, libro che raccoglie le interviste pubblicate sull’argomento dal popolare quotidiano di centro-destra Hurriyet. Tra esse trovano posto quelle di intellettuali turchi e di esponenti della comunità armena. Abbiamo avuto poi – prosegue Salomoni - un vero caso editoriale rappresentato dal libro Anneannem (“Mia nonna”) che, nonostante la scarsa pubblicità, ha raggiunto inattesi picchi di vendite. Si tratta di un racconto autobiografico in cui Ferhiye Cetin affronta un aspetto fino ad oggi poco noto della tragedia del 1915: il caso di decine di migliaia di bambini armeni adottati da famiglie mussulmane e scampati al massacro. Da segnalare, infine, M.K. Memorie della deportazione un libro-intervista curato dal professor Baskin Oran, uno degli intellettuali più esposti sul fronte della difesa delle minoranze. Tutte queste riscoperte altro non sono che il prodotto della convergenza di elementi diversi: il pluralismo prodotto dal processo di democratizzazione, le pressioni dei paesi UE che si sono intensificate con il progredire del percorso europeo della Turchia ed infine la ricorrenza, il 24 aprile, del 90° anniversario dei fatti del 1915 e la conseguente rinnovata mobilitazione della diaspora armena nel mondo. Un dibattito che ha però causato, nel passato ma anche nel presente, pesanti contraccolpi e violente proteste da parte di una porzione consistente dell’opinione pubblica e di non pochi uomini di cultura e politici, tra cui il Ministro della Giustizia Cicek che accusò di “revisionismo” gli intellettuali e i giornalisti impegnati nella riscoperta del genocidio dimenticato”.


[1] Dal 1894 al 1915 in Turchia si perpetuò il “genocidio degli armeni”, la prima “pulizia etnica” del secolo, che causò la morte di quasi due milioni di persone. Gli Armeni vivevano da millenni in un territorio situato fra l’Eufrate e il Caucaso e, nonostante lunghi periodi di sottomissione e divisione, costituivano un popolo molto compatto grazie alla lingua comune (un ceppo indoeuropeo isolato), alla religione (un ramo del cristianesimo, autocefalo dal VI secolo), alle antichissime tradizioni culturali. Dall’inizio del XIX secolo furono divisi fra la Russia, l’impero ottomano e l’Iran. La maggioranza si trovava sotto il dominio turco, dove, grazie ad una tolleranza abbastanza diffusa verso le minoranze, visse un fiorente risveglio culturale e avanzò alcune richieste di uguaglianza e maggiore libertà. Nel 1876 salì al trono il sultano Abdul Hamid, reduce da una grave sconfitta contro la Russia, profondamente ostile alla minoranza armena. Fra il 1894 e il 1896 ebbe luogo il primo massacro pianificato, che diede il via al progetto di eliminazione totale degli Armeni dall’impero ottomano. In quegli anni si giunse dalle due alle trecentomila vittime, alle quali si aggiunsero le numerose conversioni forzate all’Islam e le centinaia di migliaia di esuli. Intanto il sultano Abdul Hamid iniziò a perdere potere e essere criticato per le sue incapacità nel gestire l’impero. In questo contesto si sviluppò il movimento del “panturanismo”, che, ritenendo i Turchi superiori a tutti gli altri popoli, mirava alla loro unione dal Bosforo alla Cina e all’eliminazione di tutti i popoli che fossero di ostacolo a tale progetto. Nel 1908 scoppiò all’interno dell’impero la rivoluzione guidata dal Comitato Unione e Progresso (Ittihad), ostile verso il sultano, ma sulle sue stesse posizioni per quanto riguardava la questione armena. Nell’aprile del 1909 in Cilicia due ondate successive di massacri provocarono la morte di circa 30.000 persone. Nel 1913 i Giovani Turchi a capo dell’Ittihad stabilirono una dittatura militare diretta da Jemal, Enver e Talaat. Nel 1914 Enver sostenne l’entrata in guerra a fianco delle Potenze Centrali contro Francia, Inghilterra e Russia. Nel 1915 il disarmo dei soldati armeni dell’esercito ottomano fu un primo preoccupante segnale. All’alba di sabato 24 aprile 1915 iniziò a Costantinopoli una massiccia deportazione dei maggiori intellettuali armeni, che si concluse con la loro uccisione nelle strade dell’Anatolia. Presto i massacri coinvolsero l’intera popolazione armena su tutto il territorio dell’impero. Nel 1917 la Turchia lanciò un attacco contro l’Armenia orientale, ma fu fermata da un’eccezionale mobilitazione popolare. Nell’ottobre del 1918 qui venne fondata la prima “Repubblica d’Armenia”. Intanto la fine della Prima Guerra Mondiale aveva sancito anche la fine dell’impero ottomano. Il trattato di Sèvres dichiarò l’istituzione di uno stato armeno indipendente e di un Kurdistan autonomo. Nonostante le premesse favorevoli, il genocidio degli Armeni proseguì anche sotto la dirigenza di Mustafa Kemal, che si concluse nel 1922 con l’incendio di Smirne, ultima tappa di un massacro premeditato ed eseguito meticolosamente. Nel 1923 la Conferenza di Losanna annullò gli accordi firmati a Sèvres: le parole “armeno” e “Armenia” furono cancellate, come se non fossero mai esistite.