Amedeo Nazzari
LA CINEMATOGRAFIA
ITALIANA DI GUERRA
1940-1943
di Alberto
Rosselli
Tra
il 10 giugno 1940 e l’8 settembre 1943, la cinematografia italiana, al pari di
quelle degli altre nazioni in guerra, iniziò ad occuparsi del conflitto in atto
con una serie di produzioni che, tuttavia, risultarono numericamente inferiori
rispetto ad altri generi. Come conferma il critico e storico del cinema Paola
Olivetti, “nel periodo bellico non si può certo dire che i film di guerra
facciano la parte del leone (…) al contrario ne costituiscono una piccolissima
parcella, pressappoco il due o il tre per cento”. Comunque sia, la produzione
ebbe modo di caratterizzarsi grazie ad un suo preciso equilibrio di scelte e di
interventi, utile per ‘coprire’ tutti, o quasi, i teatri di guerra. Abbiamo,
infatti, vicende ambientate sul fronte
africano settentrionale (vedi Bengasi e
Giarabub), su quello greco-albanese (Un pilota ritorna, I trecento della settima e Quelli
della montagna) e su quello russo (L’uomo
dalla croce). Nel contempo esse focalizzano il ruolo svolto da tutte e tre
le Armi: La Regia Marina (MAS, Alfa Tau e Uomini sul fondo), la Regia Aeronautica (Un pilota ritorna e I tre
aquilotti), il Regio Esercito (Bengasi,
Giarabub, L’uomo dalla croce, I
trecento della Settima e Quelli della
montagna).
Contestualmente, alcuni registi optano
per narrazioni ambientate su un teatro ormai chiuso, quello spagnolo (la
Guerra Civile Spagnola terminò il 1° aprile 1939 con la vittoria franchista),
proponendo soggetti, non di rado interessanti, su questa sanguinosa, drammatica
e lunga disputa bellica. Iniziamo con Carmen fra i rossi (1939) di Edgar
Neville, vicenda di una giovane falangista che, in una Madrid ancora in mano
rapubblicana, trasmette via radio informazioni agli assedianti, tra i quali si
trova il suo fidanzato. Per poi passare al più riuscito e famoso L’assedio
dell’Alcazar (1940) di Augusto Genina e al modesto Redenzione (1942) che Roberto Algani sviluppò da un soggetto del
gerarca Roberto Farinacci.
Al di là di
alcuni accenti retorici, L’assedio
dell’Alcazar si rivela un buon film
di guerra che ricalca abbastanza fedelmente una storia vera, cioè le
vicissitudini dell’isolata guarnigione franchista di Toledo, comandata dal
colonnello José Moscardò Ituarte che, dal 20 luglio al 28 settembre del 1936,
riuscì a resistere agli attacchi condotti di preponderanti forze repubblicane,
venendo infine liberata dalle truppe falangiste. Nella ricostruzione degli
avvenimenti, l’opera ripropone lo svolgersi dei fatti attraverso belle scene di
guerra e mediate una narrazione epica, ma anche calibrata sotto il profilo del
pathos. Per il critico Antonio Costa, L’assedio
dell’Alcazar “rappresenta un caso particolare nell’ambito del cinema
del periodo fascista. Il fatto che storici e critici che si sono occupati negli
ultimi decenni di questo periodo lo abbiano conosciuto nella riedizione del
‘56, depurata dai riferimenti più vistosamente propagandistici, ha
probabilmente contribuito ad un giudizio più attento alle sue qualità
cinematografiche e spettacolari. A questo si può aggiungere che la lunga
carriera di Genina, che si è svolta lungo un arco di tempo che va dagli anni
Dieci agli anni Cinquanta, ha garantito alla sua opera, indipendentemente dai
giudizi sulla sua compromissione con il regime fascista, attenzione e rispetto
da parte di studiosi e cinefili”. Nel settembre del 1940, L’assedio
dell’Alcazar venne presentato alla Mostra di Venezia, dove venne acclamato,
anche dalla critica internazionale, come il film bellico tecnicamente meglio
riuscito di quel decennio. “L’Assedio dell’Alcazar è un
film che ci ha sbalorditi; un’opera grandiosa, senza alcun spunto di propaganda
e di politica di partito” (Paul Marteaux, Nouveau Journal, Parigi, 7/10/1940).
“Raramente nella mia lunga carriera di critico ho visto un film così
obiettivamente apprezzabile come L’Alcazar”
(Laslo Csakyi, Magyarorzag, Budapest, 18/10/1940). E ancora: “Un film potente,
verosimile, antiretorico, L’Alcazar segna
una tappa fondamentale per il futuro del cinema europeo” (Fritz Lampe, Berliner
Illustrierte, Berlino, 3/9/1940). Non per nulla la pellicola vinse la Coppa
Mussolini come migliore film italiano, dando a Genina la soddisfazione di
bissare il successo ottenuto nel 1936 con Squadrone bianco. Il giovane
ferrarese Michelangelo Antonioni, che a quel tempo scriveva su ‘Cinema’, definì
L’assedio dell’Alcazar “un film scabro, robusto, con scene da non
dimenticare”, come ad esempio quella relativa al drammatico (e realmente
accaduto) colloquio telefonico tra il colonnello Moscardò e suo figlio
catturato dai repubblicani e poi fucilato, o quella (probabilmente inventata)
del matrimonio in articulo mortis tra
la giovinetta Conchita e il soldato falangista Francisco. Curiosamente, le
uniche critiche (politiche, non tecniche) alla pellicola di Genina furono
formulate dal patron del cinema italiano, cioè da Luigi Freddi. “Siamo proprio
sicuri – si domandò Freddi - che gli spagnoli abbiano interesse a tornare con
la memoria su episodi (così cruenti e divisori) della Guerra Civile?”.
Nel 1943, il teatro
spagnolo servirà ancora da spunto per un ultimo film: Inviati speciali di Romolo Marcellini (sceneggiatura di Ennio
Flaiano), interpretato da Otello Toso e Maurizio D’Ancora. La trama in breve.
Durante la Guerra civile, un gruppo di giornalisti italiani è sul posto. Uno di
essi si innamora di una fanciulla che egli crede una collega. Fatto prigioniero
dai miliziani comunisti, l’italiano viene salvato dalla donna che nel frattempo
si è però rivelata una spia. Dopo la vittoria delle forze franchiste, sarà il
giornalista, ormai libero, a salvare la ragazza che tuttavia, per una sorta di
catarsi, andrà incontro ad una tragica
morte.
Sempre nel
1943, in piena battaglia difensiva di Tunisia e
mentre l’Ottava Armata italiana in Russia si dissolve in seguito alla
lunga ritirata d’inverno, il sardo Mario Bàffico dirige I trecento della Settima, un film di guerra interpretato da attori
non professionisti reclutati dal 1° e 2° reggimento alpini. La storia è
ambientata in Albania e narra le vicende di una compagnia di alpini alla quale
viene affidato il compito di conquistare e tenere un valico: operazione che
riesce, ma che comporta la morte del comandante italiano. I trecento della Settima non riscuote grande successo né di
pubblico né di critica, in quanto il regista non sembra essere stato in grado
di dirigere e sfruttare al meglio il materiale umano a disposizione. Anche se Bàffico
va comunque lodato per una sincera e apprezzabile ricerca di autenticità e per
il tono sobrio utilizzato nel narrare la vicenda. E il che non è poco,
trattandosi di un film di guerra a sfondo propagandistico.
Nel suo complesso, tra il 1940 e il
1943, Cinecittà riuscì a sfornare dignitosi se non buoni film storici e
bellici, come 1860 di Blasetti e Uomini sul fondo (1941), la prima pellicola
di Francesco De Robertis, ufficiale di marina ‘prestato’ al cinema. Girato
esclusivamente in interni e senza attori professionisti, Uomini sul fondo narra senza enfasi
retorica, ma con realismo, l’avventura dell’equipaggio di un sommergibile italiano,
l’A-103 (sigla di
fantasia), arenatosi ad 80 metri di profondità durante un’esercitazione. La
pellicola, di taglio documentaristico, è caratterizzata da un linguaggio secco
e corale. Secondo il parere di alcuni critici, Uomini sul fondo racchiuderebbe sia sotto il profilo della
scrittura che della narrazione scenica alcune peculiarità neorealiste, anche se
al riguardo per taluni studiosi come Giuseppe Rausa sussisterebbero non pochi
dubbi.
Uomini sul fondo risulta in ogni caso un film che ha come scopo quello
a mettere in risalto la compattezza morale dei marinai delle unità italiane
impegnati in una guerra dagli esiti alterni e spesso assai poco felici: da
ricordare il devastante attacco aereo inglese contro la base navale di Taranto
della notte tra l’11 e il 12 novembre 1940, il bombardamento navale, sempre
britannico, di Genova dell’11 febbraio del 1941, e la sconfitta subita dalla
nostra flotta a Capo Matapan il 27 marzo dello stesso anno. “La vicenda del sommergibile narra
soprattutto un’atmosfera, quella della serena collaborazione di tutti i marinai
e dell’intera popolazione (…) De Robertis dipinge una comunione di un popolo
pronto alle sfide più alte; e lo fa con accenti sobri, mostrando il volto di
gente comune, felice di essere coinvolta in una sacra missione. L’ambiguità del
cinema è qui tutta presente: esso mente, sotto le spoglie del rigoroso
documentario. E in tal senso Uomini sul fondo anticipa tutta la poetica
neorealista, nella quale l’accurata verosiglianza nasconde l’ideologia” (Rausa).
Sempre di De Robertis è un’altra epopea
marinaresca, Alfa Tau, pellicola
anch’essa documentaristica prodotta dal Centro Cinematografico del Ministero
della Marina. L’opera, proiettata alla Mostra di Venezia nel settembre del
1942, rispecchia con sorprendente sincerità la reale situazione bellica e
sociale del paese. “Mentre il mondo culturale comincia a prendere le distanze
dal regime – annota sempre Rausa - De Robertis firma un film fascista e
patriottico di assoluta lealtà”, serio nei contenuti e forse tecnicamente
migliore di Uomini sul fondo. Ciononostante, nel dopoguerra, a causa del
suo taglio ideologico, Alfa Tau verrà
- al contrario di Uomini sul fondo –
volutamente dimenticato dalla critica. La trama del film. Il sottomarino
italiano Toti rientra alla base e
dopo una breve sosta riparte per una nuova missione nel corso della quale il
battello affronta combattimenti aerei e navi nemiche. Dopo alterne e ben
descritte vicende, il sommergibile tricolore riesce a silurare e a colare a
picco un’analoga unità britannica, facendo poi ritorno in patria.
Chiude la
rassegna dedicata alla Regia Marina Italiana impegnata nella Seconda Guerra Mondiale, MAS (1942) di Romolo Marcellini (con
Andrea Checchi e Luigi Pavese), dedicato alle gesta degli equipaggi dei famosi
mezzi siluranti veloci.
Con 1860,
Blasetti compie invece un lungo viaggio a ritroso nel tempo, fino all’epoca
risorgimentale, affrontando la spedizione dei Mille in Sicilia sotto un profilo
inedito. Il regista mette, infatti, in risalto la partecipazione dei contadini
siciliani al riscatto unitario, proponendo quindi un’interpretazione popolare e
populista dell’impresa garibaldina: il tutto con l’obiettivo di superare le
diffidenze del fascismo nei riguardi di un processo storico, quello appunto risorgimentale,
considerato troppo élitario e borghese e quindi in contrasto con lo spirito
rivoluzionario del regime. Attraverso tale accorgimento il regista tentò di
stabilire, seppure arbitrariamente, una continuità tra i supposti fermenti
rivoluzionari risorgimentali e la rivoluzione fascista. Stratagemma che,
tuttavia, non impedì a Blasetti di mettere a punto una buona produzione,
dedicata anche alla riscoperta di aspetti e peculiarità di un paesaggio
geografico e soprattutto umano intriso di caratteri e umori ruspanti e
dialettali, messi in evidenza da un realismo fotografico e narrativo essenziale
e asciutto. Nell’edizione messa in circolazione dopo il 1945, il finale del
film (coronato da un abbraccio ideale, ma fantasioso, tra le camice ‘rosse’ e quelle
‘nere’ fasciste) verrà naturalmente tagliato.
E veniamo ora alle opere del giovane
Rossellini. Nel 1941, grazie all’aiuto di Francesco De Robertis, ai
mezzi del Centro Cinematografico del ministero della
Marina Militare e al denaro fornito dalla Banca del Lavoro, Rossellini
aveva diretto La nave bianca,
riuscendo a centrare un duplice obiettivo: primo, non dispiacere al regime,
sottolineando la tenuta morale e fisica dei nostri combattenti di mare;
secondo, mettendo in evidenza le doti umane e cristiane del militare italiano
(vedi le numerose scene relative alle amorevoli cure dedicate ai feriti a bordo
della nave ospedale, cioè la ‘nave bianca’) e quindi accattivandosi le simpatie
della Chiesa. “La nave bianca è
comunque un buon film, corale, recitato da marinai e ufficiali autentici (…) in
cui il regista perfeziona la poetica ad un tempo realistica e patriottica di Uomini
sul fondo, ravvivandola con un soggetto più articolato”. (Rausa). Per la
cronaca, la pellicola, che sempre nel 1941, a
Venezia, venne premiata con la coppa del Partito Nazionale Fascista venne
interpretata dagli ufficiali e dai marinai della nave ospedaliera Arno, da
quelli di un’imprecisata unità da guerra e dalle volontarie del Corpo
infermiere.
Sempre facente parte della trilogia “bellica”
di Rossellini, si segnala Un pilota
ritorna (1942) “Il film, basato su un soggetto di Vittorio Mussolini (che per
l’occasione utilizzò il suo usuale pseudonimo Tito Silvio Mursino) e su una
sceneggiatura alla quale collaborarono diverse persone (tra le quali il giovane
Michelangelo Antonioni), pur abbandonando in parte il rigoroso realismo de La nave
bianca, si mantiene
comunque all’interno di una scrittura sobria e attenta alla verosimiglianza,
senza accenti propagandistici, come conferma anche la critica dell’epoca. “Un pilota ritorna è un film senza
retorica e che non tende a demonizzare il nemico: da notare l’umanità con cui
sono ritratti i personaggi e gli ambienti avversari” (Guido Piovene, ‘Il
Corriere della Sera’, 18/4/1942). “Diviso (come Alfa Tau) in tre parti, Un pilota ritorna vanta poi magnifiche
riprese aeree di taglio documentaristico nella prima sezione e nell’epilogo, e
un’accurata ambientazione” (Rausa).
Abbiamo accennato che durante il Secondo Conflitto anche il
fronte di terra venne più volte ‘visitato’ dai nostri registi, come ad esempio
Augusto Genina con il suo Bengasi
(1942): una grossa produzione (50.000 metri di pellicola negativa e 80.000 di
positiva), che vide il coinvolgimento di circa 25.000 comparse, centocinquanta
autocarri, cinquanta carri armati e una dozzina di aerei. Tra gli interpreti, Amedeo
Nazzari, Vivi Gioi e Fosco Giachetti. “Bengasi –
sostiene Rausa - è un prodotto propagandistico ben confezionato, adatto alle
necessità del regime, che infatti lo premia a Venezia, preferendolo al
certamente migliore Alfa Tau!.
Nel suo dipingere gli inglesi come un’orda barbarica e nel suo distorcere gli
eventi più drammatici, calandoli in un’atmosfera di sostanziale ottimismo, il
lavoro di Genina cerca di suscitare nel pubblico uno sdegno attivo; è insomma
un buon esempio di quella religione laica della patria costantemente rinnovata
con ogni mezzo mediatico dal regime fascista”. Non a
caso la produzione venne lodata dalla critica del tempo “Come ne L’Assedio dell’Alcazar, anche qui Genina dà di dieci, venti
personaggi il volto di un solo personaggio che sia agita, soffre e combatte al
riflesso di una intera popolazione”. (F. Sarazani, ‘Il Giornale d’Italia’, 25
ottobre 1942). Nel ‘42, a Venezia, Bengasi
ottenne la Coppa Mussolini e Fosco Giachetti si guadagnò la Coppa Volpi
quale migliore attore. Una curiosità: nel 1955, Carlo Marco Bossoli produrrà
una nuova versione del film (Bengasi anno
‘41) con Gabriele Ferzetti.
Sempre per rimanere nel filone dedicato
all’esercito impegnato in ambito nordafricano, nel 1942 Goffredo Alessandrini
diresse Giarabub, interpretato da
Carlo Romano, Carlo Ninchi e da Doris Duranti. Il film ricalca anch’esso, come L’Assedio dell’Alcazar, un episodio
bellico realmente accaduto: l’eroica ma vana resistenza dell’isolata
guarnigione italiana dell’oasi libica di Giarabub, che dal 10 dicembre 1940 al
21 marzo 1941, al comando del maggiore
Salvatore Castagna, resistette ai ripetuti attacchi delle brigate
blindate e dell’aviazione inglesi. Pur ascrivendosi al filone
bellico-patriottico, Giarabub, che
soprattutto nei dialoghi gronda di troppa retorica, sotto il profilo
dell’azione si rivela invece un buon film, curato nei dettagli e a tratti
addirittura emozionante.
Nel 1942,
anche Mario Mattoli, regista specializzato in film leggeri o comici, si adegua
al clima bellico e gira I tre aquilotti
(soggetto di Vittorio Mussolini - Tito Silvio Mursino). La pellicola, che viene
proiettata fuori programma a Venezia, è incentrata sulle vicende di tre giovani
ufficiali dell’Accademia aeronautica di Caserta impegnati nel conseguimento
dell’agognato brevetto di pilota. I tre amici (interpretati da Alberto Sordi,
Leonardo Cortese e Carlo Minello) fremono per potere andare a combattere, ma ad
un certo punto la sorella di uno di loro li divide. I tre aquilotti segnò la terza esperienza cinematografica di Sordi
dopo La notte delle beffe (1940) e Cuori nella tormenta (1941), diretti entrambi da Carlo Campogalliani.
Nel
1942, il regista Marcello Albani ripesca invece un dramma scritto dal gerarca
Roberto Farinacci e ne ricava un film assai modesto, Redenzione. La storia che - sulla falsariga di Camicia nera di Forzano e Vecchia
guardia di Blasetti, appartiene al genere propagandistico-ideologico - è
quella di un militante comunista che, dopo avere compreso l’assurdità della sua
fede politica, decide di indossare la camicia nera, immolandosi per la causa
fascista. Dato il razionamento dell’energia elettrica, quasi totalmente
destinata all’industria, Albani fu costretto a girare l’intero film solo di
giorno. Sembra poi che alla prima, Alessandro Pavolini, uomo di apparato, ma
dotato, come è noto, di ottima cultura ed intelletto, si sia contorto sulla
poltrona, visibilmente imbarazzato dall’insoddisfacente pellicola.
Nell’autunno del 1942, proprio quando
le sorti della campagna di Russia stavano volgendo al peggio, Carmine Gallone
decise di tentare di sollevare il morale delle forze italiane e rumene
impegnate nella steppa dirigendo Odessa
in fiamme. Il film - interpretato, tra gli altri, da Maria Cebotari, Carlo
Ninchi e Rubi D’Alma, e sceneggiato da Gherardo Gherardi e a Niculai Kiritescu
- venne girato parte a Cinecittà e parte in Romania. La trama. Siamo nel 1940 e
i sovietici (sulla base del patto Ribbentrop-Molotov del 23 agosto del 1939)
occupano militarmente la Bessarabia romena, proprio quando una famosa cantante
rumena si trova per lavoro lontana da casa, mentre suo marito, un perdigiorno
vizioso, se la spassa nella capitale Bucarest. A complicare le cose, il figlio
dei due viene catturato dall’Armata Rossa e la donna, nel tentativo di
riottenerne la libertà, si mette a cantare per allietare le truppe ‘rosse’.
Passa però non molto (siamo nel frattempo giunti alla fine di giugno del 1941)
e le forze dell’Asse, incluse quelle romene, attaccano l’Unione Sovietica. A
questo punto, il marito - che finalmente ha messo la testa a posto - si arruola
nell’esercito e con esso va alla conquista di Odessa, salvando la moglie, il
figlio, una torma di fanciulli e, naturalmente, il suo onore. Il film,
decisamente mediocre, non ottenne grande successo e soprattutto non portò
alcuna fortuna alle armate dell’Asse impegnate sul Caucaso, sul Don e sul
Volga. Infatti, pochi mesi dopo la sua uscita, il 2 febbraio 1943, a
Stalingrado, gli ultimi reparti della VI armata del generale von Paulus
arresero ai russi e quasi simultaneamente le armate romene, ungheresi e
italiane vennero praticamente annientate ad ovest della linea del Don.
Durante il fatidico 1943, De Robertis
decise di spostarsi dal mare all’aria dirigendo il poco convincente Uomini e
cieli. La pellicola, interpretata come al solito da attori non
professionisti scelti questa volta tra il personale della Regia Aeronautica,
racconta le vicende di quattro piloti e amici di antica data. I due più
valorosi e convinti, Renzi e Varna, restano feriti e mutilati, mentre Nurus, il nobile
protagonista, decide invece di continuare a battersi nei cieli, mentre il
gretto Taddei appena può lascia la squadriglia per dedicarsi agli affari.
“In Uomini e cieli l’esaltazione del sacrificio,
l’aprioristico disprezzo delle pur necessarie attività commerciali,
l’esaltazione della vita semplice, rurale e delle gioie familiari suonano
completamente falsi, all’interno di uno schema semplificato e puramente
ideologico di contrapposizione tra bene e male. In questo senso De Robertis non
ritrova il sentimento umanamente sincero e l’audace e articolata pittura
realistica di Alfa Tau” (Rausa)
Sempre
nel ‘43, nonostante la protezione e l’aiuto di Vittorio Mussolini, Rossellini
incespica e firma L’uomo della croce, (interpretato tra gli altri da Alberto Tovazzi,
Roswita Schmidt, Alberto Capozzi e Doris Hild): un confuso dramma
guerresco ambientato sul fronte russo, ispirato alla vita di padre Reginaldo Giuliani. Il
lavoro è permeato da un pacifismo di fondo che strizza l’occhio alla
Chiesa cattolica vista dal regista come unica salvezza per un’umanità insidiata
dal bolscevismo aeteo. Nell’estate del 1942, in un’isba situata tra le due linee e
martellata dalle artiglierie italiane e sovietiche, si trovano ammucchiati
contadini russi tra cui donne e bambini, militari delle due parti, un
commissario sovietico e un cappellano italiano che, alla fine, è ucciso mentre
soccorre un carrista russo moribondo. Secondo il critico e sceneggiatore
francese Nino Frank (ricordiamo il suo apporto come sceneggiatore in due
cooproduzioni italo-francesi del tempo di guerra: la Bohème, di Marcel l’Herbier, del 1942, e Service
de nuit, 1943, di Jean Faurez e Belisario Randone) in L’uomo della croce, film retorico e troppo spaccato tra
documentario e fiction, il critico
riscrontrerebbe un’eccessiva inclinazione di Rossellini “a rappresentare il drammatico attraverso il non
drammatico, l’eroismo attraverso il non eroismo, la propaganda attraverso la non
propaganda”. Per la realizzazione della pellicola,
Rossellini si avvalse della collaborazione del giornalista e scrittore fascista
Asvero Gravelli, già soggettista e sceneggiatore di Giarabub (1942) e direttore del noto mensile Antieuropa, fondato nel 1929.
Al termine delle riprese di L’uomo della croce, Roberto Rossellini si sentirà obbligato ad
inviare al primogenito del duce due righe di ringraziamenti per i “suoi saggi
consigli” e addirittura “una sua fotografia con dedica: ‘A Vittorio Mussolini,
adorabile amico e insuperabile padrone’” (Michele Sakkara e Mario Morani).
Passiamo ora ad un’altra produzione
aviatoria, Gente dell’aria (1943) di Esodo
Pratelli, interpretato da Gino Cervi, Antonio Centa, Antonio Gandusio e Paolo
Stoppa. Il film, tratto da un soggetto di Bruno Mussolini (capitano pilota
della Regia Aeronautica e medaglia d’oro al valore militare nel 1942, morto in
seguito ad un incidente aereo), narra le vicende di due fratelli, uno dei quali aviatore, che si
innamorano della stessa ragazza. La rivalità tra i due sfocia nell’odio e
soltanto quando il fratello rimasto a terra partirà per la guerra, il
risentimento avrà modo di placarsi. Tra gli sceneggiatori del film, il critico
teatrale Renato Simoni. Secondo Morando Morandini Gente dell’aria è “un inno all’aviazione del tempo fascista,
seppure non privo di garbo e pudore. Patriottico con la sordina”.
Concludiamo la sezione bellica con una
seconda coproduzione italo-romena abbastanza curiosa, Squadriglia bianca (1942), diretto da
Jon Sava, sceneggiato da Vera Zuccotti e interpretato da Mariella Lotti e
Claudio Gora, e con un giallo-militare, Spie
tra le eliche (1943) di Ignazio Ferronetti. Squadriglia bianca narra le vicende di un gruppo di ardimentose
crocerossine che decidono di frequentare una scuola di pilotaggio a Bucarest.
Ottime le sequenze aeree girate in Romania, e molto diluito il substrato di
propaganda che doveva sorreggere la pellicola. Spie tra le eliche (interpretato, tra gli altri, da Enzo Fiermonte
ed Eugenia Zaresca) racconta invece il tentativo da parte di alcuni agenti
segreti inglesi di carpire i segreti di un nuovo modello di velivolo militare
italiano. Si tratta di un prodotto abbastanza emozionante con inseguimenti,
scazzottate, sparatorie, battaglie e finale nel quale il ‘nemico’ viene
sgominato. Nel dopoguerra, la
pellicola verrà rimessa in circolazione con grossolani tagli e manipolazioni
dei dialoghi. Tra le produzioni di
guerra e storiche iniziate e, per motivi diversi, mai completate, segnaliamo I quattro di Bir el Gobi (1942) di
Giuseppe Orioli; La carica degli eroi
(1943) di Anton Giulio Majano e Piazza
San Sepolcro (1943) di Giovacchino Forzano.
FINE
BIBLIOGRAFIA
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