Città fortezza di Carcassonne.
Castello di Quéribus.
La cacciata dei catari.
Croce occitana.
L’eresia catara e il mondo comunitario occitano
tra storia, mito e leggenda
di
Alberto Rosselli
Se
si vuole affrontare l’intricata ed affascinante “questione catara” occorre
innanzitutto contestualizzarla geograficamente e storicamente, rammentando che
questo importante e rivoluzionario movimento religioso medioevale di origine
bulgara affondò le sue radici e si sviluppò in una precisa area dell’Europa
cattolica: il Midi di Francia, regione corrispondente, dal punto di vista
culturale e linguistico, all’Occitania, area delimitata dal Mediterraneo, dai
Pirenei, dall’Oceano Atlantico, dal Massiccio Centrale, dalle montagne del
Delfinato e dalle Alpi occidentali. Il fenomeno cataro attecchì dunque in una
zona e tra una popolazione che nel corso dei secoli hanno evidenziato singolari
peculiarità. In epoca preromana la Francia sud-occidentale subì
influssi ellenici, in quanto i greci, come è noto, fondarono diverse e
importanti colonie in tutta la Provenza, incluse Marsiglia, Nizza, Antibes
e Agde. Seguì poi l’occupazione militare e politica di Roma. Prima il governo
della repubblica e poi gli imperatori trapiantarono nel Midi le radici di una
romanità che attraverso il latino iniziò a modificare e caratterizzare l’antico
idioma delle popolazioni occitane. Nel periodo tardo imperiale e soprattutto
durante le invasioni barbariche del V e VI secolo dopo Cristo e le successive
scorrerie arabe, la lingua occitana captò alcuni influssi (in verità piuttosto
scarsi) di matrice germanica (elementi gotici e franchi) e, forse in misura
ancora minore, di origine berbera e semitico-ebraica. Attualmente, l’Occitano
viene considerato a tutti gli effetti un idioma a sé stante, appartenente di
diritto al gruppo delle nove lingue romanze (italiano, francese,
portoghese, spagnolo, catalano, sardo, rumeno e ladino) (1) Va notato, infine,
che una delle forti componenti della cultura occitana fu la strenua
contrapposizione al potere del potere cattolico: circostanza che determinò
forti rivalità con il papato e la corona francese: scontro reso ancora più
aspro - come si vedrà - proprio dallo spontaneo connubio tra l’“occitanismo” e
il controverso movimento religioso cataro che nel XIII secolo si sviluppò in
Linguadoca e Provenza .L’eresia catara è infatti un argomento sul quale gli
storici e i teologi hanno a lungo discusso. Non tanto per stabilirne le radici
ideali o le finalità, ormai note, ma per comprenderne a fondo la ritualità e
cercare di scoprire in quale misura la prassi esoterica e pagana rientrasse
nella sua liturgia.. Secondo alcuni esperti, come Renè Nelli e Anne Brenon, la
“chiesa” catara rappresentò esclusivamente una sfida teologica al
cattolicesimo, ma, a parte la presenza di alcuni elementi mutuati dalla
corrente filosofica gnostica, in essa non vi sarebbero tracce di influssi
magici o pagani o residui di tradizioni druidiche o manichee - come sostengono
altri - legate ad esempio al culto del sole. Anche se non sono neanche pochi
gli studiosi che sostengono sia stata invece - oltre che una manifestazione di
religiosità eterodossa alternativa alla Chiesa di Roma - anche un fenomeno
fideistico caratterizzato da forti connotati esoterici e cosmologici. Tra gli
alfieri di questa teoria si sono messi in luce Fernand Niel, un ingegnere
studioso di cosmologia e magia, che collegò la disposizione e la struttura del
castello cataro di Montségur ai movimenti solari ed astrali, e Dèodat Roché
che, dopo avere fondato la
"Sociètè du souvenir et des ètudes cathares", ha
cercato prove inconfutabili che legittimassero quelli che lui riteneva fossero
stati i rapporti segreti tra i catari, i trovatori (in lingua occitana
i troubadour) e i Templari. Roché dedicò molti dei suoi sforzi ad
indagare il segreto del Graal (la coppa in cui, secondo la nota leggenda,
Cristo bevve durante l’ultima cena. e in cui Giuseppe di Arimatea raccolse il
suo sangue dopo la crocifissione). Secondo Roché, il misterioso calice, dopo
lunghe traversie, sarebbe addirittura finito in un’inaccessibile cella situata
nelle fondamenta del castello di Montségur. Un’ipotesi ardita, quest’ultima,
che - lo rammentiamo - era stata presa sul serio perfino dagli adepti della
setta razzista e pangermanica di Thule che vantavano improbabili, antichi
legami tra la tradizione catara, depurata beninteso dalla sua componente
bogomiliana slava. È infatti probabile,
anzi quasi certo, che il catarismo fosse una “derivazione” della setta dei
Bogomil che fece la sua comparsa nel X secolo in Bulgaria e che verso la fine
del XI secolo si diffuse anche a Costantinopoli. Più o meno allo stesso modo, i
catari (che proprio attraverso l’eredità bulgara risentivano di forti influssi
gnostici e, in misura minore, anche manichei) professavano una dottrina
dualista e predicavano una assoluta purezza di vita. Per i catari il problema
essenziale consisteva nel liberare l’animo umano dal potere del male che
governava il mondo terreno. Ma le differenze con l’ortodossia cattolica
andavano ben oltre. I catari respingevano l’idea di un giudizio universale e di
un inferno eterno. Essi responsabilizzavano il credente circa la possibilità di
vivere nella gioia o nel dolore. Per loro era l’uomo a determinare il proprio
destino con ogni proprio pensiero ed azione. Sessualità, vittimizzazione e
potere erano considerati parte di una dualità inferiore. E la prassi sessuale
era quindi vissuta come un male necessario. L’eucarestia e il simbolo della
croce erano ripudiati poiché espressione di un supplizio soltanto supposto.
Sotto il profilo organizzativo, la chiesa catara si componeva di credenti, di
uditori, di preti e vescovi, chiamati bonshommes o Buoni Cristiani.
Nominati dai loro pari, i vescovi o le donne vescovo potevano avvalersi di due
specie di assistenti, il figlio maggiore o la figlia minore. La vita che
auspicavano gli eretici occitani doveva essere dedicata al perfezionamento
degli antichi ideali cristiani e anche pre-cristiani. Non a caso troviamo nella
dottrina catara anche influssi di remota matrice essena (2). Sotto l’aspetto
socio-religioso, i catari vivevano e lavoravano in comunità. Essi riconoscevano
soltanto il sacramento del battesimo e quello dell’estrema unzione: un rituale
particolare che doveva facilitare la futura reincarnazione dell’individuo. La
confessione, l’aparelhament, avveniva pubblicamente e coinvolgeva l’intera
comunità. I pasti, consumati da vescovi, preti e credenti insieme, iniziavano
con la benedizione del pane e del vino e si concludevano con lo scambio del
Bacio della Pace, che esprimeva la comunione spirituale e l’eguaglianza dei
membri dell’assemblea. Secondo i catari la Chiesa, avendo accettato il
potere e le ricchezze, aveva optato per il male e quindi non era più in grado di offrire
alcun sostegno alla purificazione degli uomini. La salvezza poteva, quindi,
scaturire soltanto da una profonda catarsi rigeneratrice. Sarebbe comunque
errato considerare il catarismo come un fenomeno unico, facente riferimento ad
una dottrina monolitica. Ogni comunità catara conservava un’autonomia resa
ancora più ampia dal fatto che, a differenza della Chiesa cattolica, non
esisteva un’entità centrale incaricata di fissare una comune ortodossia. Anche
per questo motivo, il fascino esercitato sulla popolazione dalla chiesa catara
fu molto forte, e questo fu dovuto al rigore morale che distingueva questa
confessione dal credo cattolico che, in epoca medioevale, non di rado venne
contaminato da una certa superficialità dottrinale e, soprattutto, dalla
corruzione dei costumi. In un’epoca, come questa, caratterizzata da frequenti
guerre, carestie, pestilenze, torbidi sociali e incertezze esistenziali, il catarismo
si propose subito come l’autentica Chiesa di Cristo, quella che - secondo i
sostenitori di questo ideale religioso - il papato, avendo ceduto alla
tentazione del potere temporale, avrebbe tradito. Ma torniamo alle radici
teologiche di questo movimento. Abbiamo parlato degli influssi orientali del
catarismo e della profonda (ed insanabile) frattura con il cattolicesimo
ufficiale. La teologia catara, al pari di quella bogomila, tendeva a mettere
l’accento sul carattere demoniaco del Dio dell’Antico Testamento e sulla sua
identificazione con il Principio Assoluto del Male, caratteristica, si badi
bene, estranea al manicheismo classico (dal quale alcuni hanno cercato di fare
discendere il catarismo). Il rifiuto della preghiera – solo il Padre
Nostro era accettato dai seguaci catari, proprio perché insegnato
direttamente da Gesù – faceva parte del modo di pensare gnostico più che
manicheo (i manichei non esitavano ad innalzare meravigliosi inni all’Apostolo
Mani) e confermerebbe la chiara origine gnostica del catarismo. Un’ulteriore
dimostrazione della prevalente origine gnostica dei testi bogomili e quindi
catari la troviamo nel fatto che Mani non viene mai citato: cosa strana per un
movimento che dovrebbe rifarsi in qualche modo al manicheismo. Un’ennesima conferma
dell’opinione che la teologia bogomilo-catara sia di origine gnostica e non
manichea scaturisce, infine, da questa osservazione. I manichei affermavano che
l’uomo nasceva da un mescolamento di gocce di luce divina e di materia durante
la perenne lotta tra il Bene (Dio) e il Male (la materia). Per i bogomili, come
per gli gnostici antichi, invece, l’uomo non sarebbe che un angelo della luce,
cioè un eone, imprigionato dal demiurgo in un corpo materiale. Nell’ambito
del credo cataro la presenza di una qualche influenza del manicheismo è provata
soltanto (ma in maniera non sufficiente) dalle polemiche contro Agostino,
Ambrogio e Gregorio riportate da tale Buonaccorso, una sorta di “cataro
pentito”. Il catarismo, in quanto Religione dell’Uomo (essa affermava che ogni
essere umano fosse una sorgente di luce divina) sarebbe stato - come in passato
fu sostenuto da alcuni storici bulgari di scuola marxista - uno dei primi
elementi formanti della coscienza collettiva delle classi sociali subalterne
medievali. Esso avrebbe, infatti, avuto un'importanza fondamentale nello
spingere le classi basse a ribellarsi nei confronti delle aristocrazie
burocratiche feudali e clericali medievali. Non a caso già nel X secolo il
prete gnostico-manicheo Bogomil si mise a capo di un movimento insurrezionale
contro l’aristocrazia bulgara. Una tesi, quella dell’impegno politico-sociale
che tuttavia diversi studiosi, tra cui Umberto Eco, di fatto respingono.
Ne Il Nome della rosa Eco riferisce che i catari “avevano costituito
una gerarchia molto rigida, quasi quanto quella della nostra santa madre chiesa
e non pensavano affatto a distruggere ogni forma di potere. Il che ti spiega
perché a questo movimento aderirono anche uomini di comando, possidenti e
feudatari”. Ma a Eco ribatte Francesco Ereddia nel suo libro I servi
dell’Anticristo: “[…] Falsa la tesi di Eco. I catari erano in prevalenza
operai, soprattutto cuoiai, borsieri e pellettieri, […] sarti,
drappieri, fabbri e contadini”. Polemiche a parte, ciò che appare inconfutabile
è che, nell’Europa del basso Medioevo, l’unica classe sociale dominante fosse
la burocrazia clericale e non la piccola e media aristocrazia feudale che,
proprio nel Midi di Francia, aderirono compatte al credo cataro. L’aristocrazia
feudale francese, le moderne borghesie burocratiche dei Comuni del nord Italia e la
nascente borghesia mercantile, seppure ostili al catarismo per il suo carattere
evidentemente comunistico, vedevano però in questo movimento un utile
grimaldello contro il potere sociale ed istituzionale della Chiesa. E in questo
senso si può dire che da un punto vista politico e sociale, il catarismo sia
stato parte di un movimento di liberazione delle basse classi sociali contro la
burocrazia clericale. Questa la tesi marxista. Dal nostro canto rimaniamo
tuttavia convinti che la verità la si possa trovare soltanto a mezza strada.
Perché, se è vera la tesi (in verità piuttosto ardita) sostenuta da alcuni
storici bulgari di un catarismo “socialista” ante litteram, è altrettanto vero
che nel Midì, durante l’egemonia catara, la nobiltà locale - vedi quella di
Carcassonne - abbracciò sì la nuova religione, ma nella sostanza non la
utilizzò certo per modificare o rivoluzionare i rapporti di potere tra i ceti
bassi e quelli alti o introdurre nuove prassi di tipo sociale o egalitario. Nel
Dodicesimo secolo la Chiesa catara penetrò nel tessuto sociale
dell’intero sud occitano, trovando i suoi principali interlocutori in una
nobiltà sostanzialmente anticlericale e in una borghesia che apprezzava il
valore del lavoro e del giusto profitto: elementi questi che indussero il
popolo, stanco delle vessazioni tributarie imposte dal clero, ad abbracciare la
nuova fede e a giurare fedeltà ai loro feudatari avversi a Roma, alla nobiltà ad essa
fedele e ai suoi sistemi di gestione del potere. Comunque sia, fu probabilmente
anche in virtù dei risvolti sociali dell’eresia catara, che prima papa
Alessandro III e poi Innocenzo III iniziarono a temere il grave rischio di una
spaccatura di carattere teologico nel cuore dell’Europa cristiana, e anche di
un possibile violento sovvertimento dell’ordine e della burocrazia clericale. E
proprio per questo insieme di ragioni, il papato (anche in seguito ai vani
tentativi di predicazione fatti nel 1206 Domenico di Guzman, e al Concilio cataro
di Saint Felix de Caraman del 1167) non ebbe esitazioni nel prendere adeguate
contromisure e nel bandire una lunga e sanguinosa crociata contro i catari,
avvalendosi dell’appoggio della nobiltà centro-settentrionale di Francia, da
sempre ostile nei confronti di quella del Midi. Ma, come spesso accade, furono
proprio i “perseguitati”, in questo caso gli eretici catari, a dare (con i loro
eccessi) il destro ai propri avversari. Nel 1208 essi, infatti, ebbero la
pessima idea di assassinare il legato pontificio Pietro di Castelnau. E fu così
che l’anno seguente, Innocenzo III non ebbe più dubbi nel passare alle vie di
fatto, cercando di coinvolgere il re Filippo Augusto di Francia. Ma alla luce
dell’iniziale, scarsa collaborazione del sovrano e della nobiltà locale, il
papa incaricò l’abate di Citeaux, Arnaud-Amaury e il condottiero Simon de
Montfort di arruolare un esercito e di fare a pezzi gli eretici. Alla crociata
(che si protrasse dal 1209 al 1244) parteciparono anche le truppe del duca
Eudes di Borgogna, del conte Gaucher di Chatillon e quelle del conte Hervé IV
di Nevers In cambio dell’impegno di partecipare alla crociata, per un minimo di
quaranta giorni, Roma garantì l’assoluzione da tutti i peccati commessi nel
passato e quelli che sarebbero stati commessi nel corso di questa terribile
guerra di religione dai forti risvolti sociali e politici. Per favorire
ulteriormente il reclutamento, ai crociati venne concesso il diritto di
appropriarsi di tutti i beni e le proprietà dei catari, senza distinzione di
rango. In breve, il papato riuscì a mettere insieme una macchina bellica che
avrà modo di distinguersi per efficienza, ma anche per grande crudeltà e
spietatezza nei confronti del nemico. A Beziers i crociati massacrarono
20.000 persone, la quasi totalità dei suoi abitanti (compresi molti cattolici
del posto) rinchiudendone centinaia nella chiesa della Madeleine che venne data
alle fiamme. E a quei crociati che esitavano e che chiedevano come avrebbero
potuto cogliere la differenza tra catari e buoni cattolici, Arnaud-Amaury non
ebbe difficoltà a rispondere: "Uccideteli tutti, Dio li
riconoscerà". Carcassonne (difesa dal visconte Raimond Roger Trencavel) fu
conquistata due settimane più tardi, nel mese di agosto del 1209. I territori dei
nobili che avevano appoggiato il catarismo furono donati a Simon de Montfort.
Questi continuò a combattere e prese Minerve nel mese di luglio del 1210, ove
fece bruciare 140 catari che rifiutarono di ripudiare la propria fede. Caddero
poi, una dopo l’altra, tutte le fortezze della regione dove i catari avevano
cercato rifugio: Termes, Puivert, Lastours. Dopo alterne vicende, la roccaforte
catara, Montségur, dove viveva una folta comunità, venne presa d’assalto e dopo
un lungo assedio durato nove mesi, il 2 marzo del 1244, cadde. Il 16 marzo più
di 200 eretici furono bruciati al palo di fronte alla cittadella. Il luogo è
ancor oggi chiamato Camp des Cremats (Campo dei Cremati) in lingua
occitana. Il castello di Quéribus, situato nella regione del Corbières, l'ultimo
bastione del catarismo, fu assediato e espugnato solo nel 1255.
Conseguentemente, il re di Francia Luigi VIII incorporò nei suoi
possedimenti la Linguadoca e la città fortificata di Carcassonne. La
contea di Tolosa fu annessa al regno francese nel 1271. E l’ultimo alto prelato
cataro, Guilhèm Belibaste, venne catturato e arso vivo nel 1321
a Villerouge Termenès nel Corbières. Oggi, a distanza di tanti secoli,
rimangono soltanto poche tracce di questa religione; nessuna chiesa, statua,
affresco od oggetto liturgico. Nella regione ove vissero e prosperarono
gli occitani catari troviamo infatti alcuni rari simboli, spesso di difficile
interpretazione. E soprattutto castelli sventrati, splendide rovine e foreste
di croci erette dagli affossatori di questo antico, discutibile, ma indomito
fremito eretico e libertario.
NOTE:
(1) Quando Dante Alighieri nel
XIV secolo tentò una prima classificazione delle parlate romanze, prese come
riferimento la particella che indicava l'affermazione: determinò così tre
idiomi, la lingua del sì, l'italiano, la lingua dell'oil, oiltano o francese, e
la lingua d'òc, l'occitano. Oc deriva infatti dal latino hoc est, è
questo, è così; il termine Occitania passò così ad indicare l'insieme delle
regioni in cui si parlava la lingua d'òc. L'Occitano ha delle varianti locali:
le principali sono il Guascone, il Lengadociano, il Provenzale, il Limosino,
l'Alverniate, il Vivarese o Occitano alpino, di cui fanno parte le parlate
delle valli occitane d'Italia. La lingua d'òc è diffusa in 32 dipartimenti del
sud della Francia; in Italia interessa 180 mila abitanti che popolano 14 valli
e 120 comuni delle province di Cuneo e Torino. Sono occitane anche Olivetta San
Michele e Triora in Liguria, Guardia Piemontese in Calabria e la
Val d'Aran sui Pirenei della Spagna. (2) Sulla sponda nord-ovest del Mar
Morto, fra il II secolo a.C. e il 68 d.C. (anno della conquista ad opera della
decima legione di Vespasiano) sorse e si sviluppò un insediamento monastico
abitato da una setta ebraica (gli esseni) che seguiva una dottrina di ascetismo
e purezza, per molti aspetti simile a quella dei primi cristiani. Il fondatore
(chiamato Maestro di Giustizia) predicò una vita di povertà, lontana dai
fasti di Gerusalemme: i suoi seguaci, rifugiatisi nel deserto, dividevano comunitariamente
il frutto del loro lavoro e si dedicavano allo studio e alla riflessione sulle
sacre scritture.
BIBLIOGRAFIA:
A Luchaire, La croisade des
albigeois, Paris, 1905Z. Oldenbourg, Le bucher de Montségur, Paris, 1959M.Roquebert, L’épopée
cathare, Toulouse, 1970.Franco Cardini, La Crociata contro gli
albigesi, Storia Illustrata, aprile 1989.La Stampa (Torino), Valli
Occitane, Viaggio tra gli eredi dei trovatori, di Diego Anghilante e Fredo
Valla.Elena Mantaut, Linguadoca: cuore ribelle di Francia, Vie del Mondo
(Touring Periodici), Milano, settembre 1987.Jaques Le Goff - La civiltà
dell'Occidente medievale - EinaudiFriedrich Heer - Il Medioevo
(1110-1350) - MondadoriCharles H.Haskins - La rinascita del XII
secolo - Il MulinoCatherine Vincent - Storia dell'Occidente
medievale - il MulinoJaques Le Goff - Il Basso Medievo -
Feltrinelli
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