Il sogno 'panturanico' di Recep Erdogan
di Alberto Rosselli
In molti suoi recenti discorsi, il presidente
turco Recep Erdogan (che sembra avere momentaneamente accantonato l’idea di
entrare nella UE, eventualità d’altra parte remota in quanto la Turchia non ha
ancora risolto la questione di Cipro, la cui parte settentrionale è stata
occupata nel 1973; quella armena, relativa al riconoscimento ufficiale della
strage compiuta tra il 1915 e il 1918, e quella curda, relativa alla
concessione di un’autonomia politica e non solo amministrativa) ha rispolverato
l’idea di “ricostruire una nuova Turchia sulle basi ideologiche panturaniche”.
Ma di che cosa si tratta? E soprattutto, in che modo il ‘panturanismo’
(movimento culturale e politico asiatico dei primi decenni del XX secolo, che
aspirava alla fusione di tutte le popolazioni turaniche, comprese quelle
dell’Asia centrale), potrebbe incidere positivamente sul rilancio del Paese
anatolico? Innanzitutto, facciamo luce sul termine, assai poco noto. All’inizio
del XX secolo, il panturanismo, inteso come ideologia nazionalista, venne
abbracciato dal Movimento dei Giovani Turchi impegnato nell’opera di
modernizzazione e rafforzamento dell’ormai traballante impero ottomano.
L’intento dei Giovani Turchi e di altre sette nazionaliste ottomane era quello di ‘occidentalizzare’ e ridare
compattezza etnico-religiosa e politica all’impero e – contrariamente a quanto
era stato tentato dai sultani tra il XIV e il XVII secolo - di estenderne
nuovamente i confini in parte ad ovest, cioè verso i Balcani e l’Europa, ma
anche in direzione delle regioni centro-asiatiche del mitico Turan.
A questo proposito, lo
scienziato della politica Samuel Huntington, nel suo noto libro, Lo scontro delle civiltà, avvalora e
giustifica di fatto questa ambizione, indicando proprio nella Turchia “il
possibile stato-guida del mondo islamico, soprattutto centro-asiatico”. Eventualità,
questa, che se dovesse verificarsi, potrebbe allontanare l’Anatolia dal Vecchio
Continente. Pur continuando a rivolgersi principalmente all’Europa, il
presidente turco Recep Erdogan sembrerebbe intenzionato a giocare una difficile
partita su due tavoli, per preservare gli interessi filo-occidentali di parte
dell’élite di governo, per non scontentare il “ventre” islamico del Paese e per
proiettare le proprie ambizioni in direzione di un Califfato turco interessato
ad inglobare vaste aree centro asiatiche turcofone. In buona sostanza, da una
parte egli desidera, infatti, continuare a puntare su Bruxelles, mentre
dall’altra egli lavora per trasformare il suo paese in un nuovo “impero
panturanico” moderno (si consideri il sostegno da lui dato nel maggio 2007 alla
candidatura presidenziale di un elemento legato all’ala religiosa governativa, l’allora
ministro degli Esteri Abdullah Gul, fortemente avversato dai militari), ma al
contempo sensibile nei confronti delle revanches
del variegato mosaico islamico mediorientale.
Come ha bene illustrato
il professore Alessandro Grossato, docente di Storia ed istituzioni dell’Asia
Meridionale presso l’Università di Trieste e Gorizia, oggi come oggi,
soprattutto in vista dei nuovi accordi internazionali per la creazione di
grandi oleodotti che dovrebbero dirottare l’oro nero dall’Asia Centrale
all’Anatolia, la Turchia sta da tempo accelerando, attraverso intese economiche
e culturali, un processo di penetrazione ( in realtà politica e ideologica) in
quest’area strategica, giocando magari sui disaccordi esistenti tra le altre
potenze (Cina, Russia, Stati Uniti): ipotesi che, tuttavia, Erdogan -
attualmente impegnato nel consolidamento della sua leadership - sembra essere
intenzionato a ‘mimetizzare’.
Pur vantando origini
relativamente antiche, il panturanismo rappresenta ancora oggi un fondamentale
aspetto dell’ideologia del Milliyetçi Hareket Partisi (o MHP, Movimento di Azione
Nazionale), e specialmente della fazione ultranazionalista dei Bozkurtlar (i Lupi Grigi. Acceso sostenitore dell’ideale
panturanico è anche un altro gruppo
ultranazionalista e xenofobo, il Nizami Alem (l’Ordine dell’Universo),
noto per avere fornito sostegno in funzione anti-russa agli indipendentisti
ceceni e per essere legato alle organizzazioni fondamentaliste islamiche libanesi.
Effettivamente, negli
anni Novanta, il panturanismo ha giuocato un ruolo piuttosto significativo nell’ispirare
i primi capi della ribellione cecena contro il governo centrale di Mosca, anche
se in seguito questo movimento separatista ha preferito spostarsi su posizioni
jihadiste, legandosi ad organizzazioni fondamentaliste più vicine ai talebani
afghani e ad Al-Qaida. In precedenza, negli anni Settanta, a scoprire e ad
utilizzare in funzione antisovietica lo “spirito panturanico” erano stati gli
USA, e nella fattispecie l’entourage del presidente statunitense Jimmy Carter
che si fece promotore di una crociata sotterranea a favore della rinascita
panturanica: scelta dichiaratamente antirussa, poi perseguita da tutti gli
altri leader della Casa Bianca, fino ad arrivare a George Bush senior.
È ormai noto come tra
gli anni Settanta e gli anni Novanta del secolo scorso - in concomitanza con l’invasione
sovietica dell’Afghanistan e, successivamente, nel contesto della rivolta
antimoscovita cecena - la CIA
abbia appoggiato in maniera decisa sia i movimenti musulmani panturanici sia
quelli jihadisti. E come successivamente la politica filoturanica del
presidente George Bush abbia contribuito a rafforzare i legami di amicizia tra
Washington e le repubbliche centro-asiatiche, sia in funzione antirussa, sia,
questa volta, in funzione antifondamentalista islamica.
A questo proposito, gli
americani avrebbero a quel tempo scelto la carta panturanica (e quindi filoturca)
come mezzo per tentare di immunizzare una parte del mondo islamico dal “contagio”
di Al-Qaida e dell’Isis, impegnate nella lotta armata contro l’Occidente e i governi musulmani apparentemente o realmente filo
occidentali (come quelli di Arabia Saudita, Pakistan, Egitto e Turchia). L’intento
di Washington era quello di porre un argine (anche attraverso una politica filo
panturanica e filo panturchista) ad un fenomeno politico-religioso che nella sua
dimensione in quanto transnazionale sembra ormai avviato verso un’evoluzione
globalizzatrice, coinvolgendo non tanto le istituzioni governative, ma
soprattutto le masse diseredate del multiforme pianeta islam. Come ha
giustamente annotato la studiosa Valeria Fiorani Piacentini. “Se si esamina il
mondo musulmano nel nuovo contesto neo-fondamentalista, si può evincere che
negli anni immediatamente successivi alla fine del bipolarismo USA-URSS la vera
minaccia alla sicurezza dell’islam nasceva non tanto dall’esterno - ossia da
una possibile aggressione dell’Occidente - quanto dall’interno, ossia
dall’islam stesso. (…) Il fenomeno del colonialismo tradizionale si era
concluso nel 1991 con la disintegrazione dell’impero sovietico e la nascita
delle nuove entità statuali caucasiche e centro-asiatiche. Uno scenario che
lasciava intravedere uno scontro a livello di concezioni di statualità fra loro
incompatibili all’interno dello stesso pensiero politico-strategico dell’islam.
Da un lato si schierarono gli establishment sostenuti da una o altra potenza
occidentale; dall’altro, si poneva una fascia d’opposizione non compartecipe al
potere ma compartecipe del sapere tecnologico e delle tecnologie più avanzate
di questo potere. Nel mezzo, stavano le ondeggianti masse dei diseredati, degli
illusi, dei miserabili aggrappati alle certezze del sapere tradizionale”.
L’ingresso nel nuovo millennio ha messo quindi le leadership dei paesi musulmani di fronte
alla necessità, non più procrastinabile, di adeguare i propri sistemi di potere
a fronte dell’incalzare dei modelli occidentali: una situazione che di fatto li
ha però posti fra l’incudine e il martello. “L’incudine rappresentata da un islam risorgente e insorgente che ha
accesso alle tecnologie del nuovo millennio e che gode del sostegno delle masse,
e il martello rappresentato da un processo di modernizzazione secolarizzante
imposto dall’esterno, si veda il “modello turco”. In questo contesto, il
rischio è rappresentato da una serie di rivoluzioni fondamentaliste a catena. E
il tutto nonostante l’esistenza, vedi la Turchia, di modelli istituzionali di
stampo “occidentale”.
Nessun commento:
Posta un commento