L’ISIS,
IL FONDAMENTALISMO ISLAMICO E LA ‘DEBOLEZZA’
CULTURALE
E RELIGIOSA DELL’OCCIDENTE
di
Alberto Rosselli
Per comprendere le origini, l’eziologia e la
genesi storica del terrorismo fondamentalista islamico (dall’organizzazione Al Qaeda all’Isis), occorre
rivisitare e comprendere - seppure sinteticamente, ma con la dovuta chiarezza -
la storia e la natura dell’islam stesso e i suoi fondamenti religiosi,
culturali e politici. La religione
islamica consiste in fede (al-iman) e
pratica (al-din). Ogni musulmano,
uomo o donna, è tenuto ad osservare (pena una sanzione morale o materiale) i
doveri posti dalla sharia (sharī’a, cioè “la strada giusta” e, alla lettera, “via [diritta]
rivelata da Dio”, ma si può anche tradurre con “legge divina”), un corpo di
norme che serve a guidare l’intera vita di un fedele, tanto che in essa
convivono regole teologiche, morali, rituali e quelle che per noi occidentali potrebbero
definirsi di diritto privato, affiancate da regole fiscali, penali, processuali
e di diritto bellico. La sharia poggia
sui “cinque pilastri dell’islam” (arkān
al-Islām): Šahāda (letteralmente,
la “testimonianza”), Salāt
(l’adorazione, talvolta tradotta con “preghiera”), Zakāt (l’elemosina, la carità obbligatoria), Sawm (il digiuno nel mese di ramādan),
Hağğ (il pellegrinaggio annuale alla
Mecca).
Per quanto concerne
l’Isis, la denominazione stessa di questa entità (apparentemente sconfitta) che pretende di rappresentare l’islam è stata ed è ancora
fonte di molteplici interpretazioni. La questione del nome – Isis, Isil, Isi, IS
(Stato Islamico), Dāʿish ed altri ancora – da
utilizzare per riferirsi al gruppo estremista e alle pseudo-istituzioni che
tale soggetto cerca di consolidare nei territori sotto il suo controllo (parte
della Siria e dell’Iraq, ma anche porzioni della Libia) è stata discussa da
molti commentatori. Il fatto di scegliere una dizione piuttosto che l’altra, o
di riferirsi direttamente alla pretesa del suo fondatore iracheno Abu Bakr
Al-Baghdadi di rappresentare un nuovo e
autoproclamato califfato Islamico, apre una serie di problematiche che
l’Occidente dovrebbe valutare attentamente, soprattutto per elaborare una
strategia logica tesa ad annullare o almeno a contenere il fenomeno del
terrorismo islamico. L’Isis è infatti un’organizzazione estremista che
considera il jihad (jihād, cioè
la lotta
interiore spirituale per raggiungere una perfetta fede islamica fino a
praticare la “guerra santa” contro ogni infedele o apostata) l’ago della sua bussola fideistica e strategica (lo Stato Islamico è
di fatto una realtà statale fortemente accentrata e sovranazionale, il cui
ordinamento giuridico si rifà in parte ai dettami della tradizione coranica). Una bussola che segue un’interpretazione radicale,
anti-occidentale, ma per alcuni versi ortodossa, del Corano (Al-Qur'ān), con lo scopo ultimo di fondare uno
superstato salafita, annullando le realtà statuali musulmane ed inglobando
perfino aree geografiche, religiose e culturali esterne, non ultima l’Europa.
Entità politicamente ed etnicamente variegata, l’Isis appare
come un organismo operativo tendenzialmente statuale, rigorosamente religioso,
molto efficiente nell’organizzazione militare e soprattutto alimentato da
notevoli risorse finanziarie, derivanti in parte dalla vendita di contrabbando del
petrolio – tutta la sua strategia militare applicata in Iraq e Siria ha sempre
mirato al possesso dei locali giacimenti che, a seconda delle fonti,
garantirebbero una produzione fra 1,5 e 3 milioni di dollari al giorno - e in
parte dal sostegno di taluni stati come l’Arabia Saudita wahabita e il Qatar.
Pur differenziandosi sotto il profilo
organizzativo e operativo da Al Qaeda (con la quale mantiene tuttavia uno
stretto legame derivante da comuni interessi), l’Isis - come molti altri gruppi
jihadisti e come la stessa Al Qaeda - è un prodotto dell’ideologia dei Fratelli Musulmani (Jamaʿat al-Iḫwān al-muslimīn), organizzazione islamista fondata
al Cairo, nel 1928, da al-Hasan al-Bannā, anche se
quest’ultima non afferma una stretta cogenza del jihad,
avendo da tempo optato per una strategia legale o semi-legale per tentare la
conquista del potere politico. Lo Stato Islamico, al contrario, segue un’interpretazione
radicale, antioccidentale, antisecolarizzatrice e antimodernista dell’islam,
sostenendo di rifarsi al credo delle origini e – soprattutto in Siria e Iraq -
ad una pratica assolutista, persecutoria e sanguinaria nei confronti di quegli elementi
considerati allogeni o estranei alla “purezza” religiosa e iconoclasta salafita,
ossia cristiani
caldei, sciiti, sette sufi, yazidi, curdi e peshmerga (le forze armate curde
della regione autonoma del Kurdistan iracheno). L’aspetto teoretico di maggior
rilievo del salafismo di cui è
imbevuto l’Isis, è, pertanto, quello di un ritorno drastico e violento alle
fonti, dando avvio al contempo ad una nuova interpretazione autentica (ijtihād)
dei dati coranici e della tradizione etico-giuridica (sunna). E sotto questo aspetto, possiamo dire che il movimento,
dietro una veste apparentemente tradizionalista, è in realtà e paradossalmente
un soggetto teso ad una sorta di “modernizzazione dell’islam”, dal momento che
esso stesso non disdegna lo strumento esegetico dell’ijtihād e la tecnologia più avanzata (media, internet,
canali youtube), per affrontare le nuove fattispecie giuridiche che si
accompagnano ai processi di globalizzazione economico-culturale dell’era
contemporanea. Altro elemento innovativo sotto il profilo propagandistico di
questo movimento apparentemente “selvaggio” è l’indottrinamento e la
cooptazione sistematica di elementi combattenti musulmani non soltanto
mediorientali o africani e asiatici (egiziani, libici, nigeriani, somali,
kenyoti, sudanesi e filippini dell’isola di Mindanao), ma anche europei, cioè
residenti nel Vecchio Continente, e caucasici (azeri e ceceni). Riguardo
all’Europa, ricordiamo che in questi ultimi anni l’Isis è riuscita nell’intento
di convertire e arruolare centinaia di volontari, soprattutto belgi,
britannici, francesi, olandesi e tedeschi: operazione facilitata dalla ormai
palese resa culturale di un’Unione Europea sempre più finanziaria, laicista e
politicamente nulla, al punto di rinunciare alle proprie radici greco-romane ed
ebraico-cristiane in nome del multiculturalismo esasperato e di un “anonimato”
identitario tinteggiato da una sorta di nichilismo autodistruttivo. Ed è
proprio qui che sta il problema. l’Isis
combatte infatti una guerra religiosa prima ancora che politica; un tipo di
conflitto che l’ormai secolarizzato Occidente forse non riesce a comprendere
fino in fondo, e tutto ciò rappresenta un altro rilevante problema. La non
comprensione è infatti dovuta ad una sostanziale differenza di mentalità e di
linguaggio. Una diversità che dovrebbe essere meglio studiata ed elaborata
prima di giungere ad iniziative di carattere bellico, talvolta necessarie e
utili, ma non certo risolutive per abbattere l’estremismo islamico in generale
e quello dell’Isis in particolare. Studi più accurati circa i multiformi
aspetti dello jihadismo, una maggiore ma più mirata attività militare di
contrasto sul campo, superiori norme di sicurezza alle nostre frontiere,
contenimento dell’immigrazione dall’area mediorientale e nordafricana e,
soprattutto, minore dipendenza dell’Occidente dal fattore petrolio, potrebbero
rivelarsi armi risolutive. E al tempo stesso, proprio perché quella scatenata
del califfato di Abu Bakr è soprattutto una guerra di religione, anche l’agire
su un piano altrettanto religioso, cioè attraverso una rivalutazione della fede
cristiana - intesa come salda e coraggiosa filosofia di pace e di giustizia (il
cristianesimo rappresenta per l’Isis un nemico mortale, in quanto impalcatura
dell’unico Occidente civile) potrebbe coronare l’intera opera. Come ha
sottolineato l’esperta di questioni slamiche, Souad Sbai: “La popolazione europea mostra il fianco, indebolendosi sempre più sotto
la lenta ma inesorabile morsa del multiculturalismo criminogeno degli anni Duemila”.
Una deriva che, di fatto, ha favorito l’espandersi del fenomeno della
cooptazione da parte dell’Isis di soggetti culturalmente smarriti e
psicologicamente fragili, da utilizzare - anche attraverso un
auto-annientamento tanatofilo di matrice nichilista - per la realizzazione di
un luciferino progetto egemonico.
Certo è che senza
l’appoggio di Stati islamici inequivocabilmente favorevoli ad un logico dialogo
con l’Occidente e concretamente impegnati contro ogni fenomeno di radicalismo –
intenzione che fino ad oggi non si è mai manifestata chiaramente – il fenomeno
Isis non potrà mai essere sconfitto, ma anzi potrà riproporsi in altre forme.
Trattasi – lo sappiamo - di una grave, pesante assunzione di responsabilità della
quale gli Stati musulmani devono farsi carico nell’immediato. Il tempo delle
paure, dell’ambiguità e dell’inganno mirati a mantenere o sostenere
inconfessabili posizioni di predominio economico e religioso oltranzista è
ormai finito.
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