sabato 18 maggio 2019

L’ISIS, IL FONDAMENTALISMO ISLAMICO E LA ‘DEBOLEZZA’ CULTURALE E RELIGIOSA DELL’OCCIDENTE, di Alberto Rosselli.







L’ISIS, IL FONDAMENTALISMO ISLAMICO E LA ‘DEBOLEZZA’
CULTURALE E RELIGIOSA DELL’OCCIDENTE

di Alberto Rosselli

Per comprendere le origini, l’eziologia e la genesi storica del terrorismo fondamentalista islamico (dall’organizzazione Al Qaeda all’Isis), occorre rivisitare e comprendere - seppure sinteticamente, ma con la dovuta chiarezza - la storia e la natura dell’islam stesso e i suoi fondamenti religiosi, culturali e politici.        La religione islamica consiste in fede (al-iman) e pratica (al-din). Ogni musulmano, uomo o donna, è tenuto ad osservare (pena una sanzione morale o materiale) i doveri posti dalla sharia (sharī’a, cioè “la strada giusta” e, alla lettera, “via [diritta] rivelata da Dio”, ma si può anche tradurre con “legge divina”), un corpo di norme che serve a guidare l’intera vita di un fedele, tanto che in essa convivono regole teologiche, morali, rituali e quelle che per noi occidentali potrebbero definirsi di diritto privato, affiancate da regole fiscali, penali, processuali e di diritto bellico. La sharia poggia sui “cinque pilastri dell’islam” (arkān al-Islām): Šahāda (letteralmente, la “testimonianza”), Salāt (l’adorazione, talvolta tradotta con “preghiera”), Zakāt (l’elemosina, la carità obbligatoria), Sawm (il digiuno nel mese di ramādan), Hağğ (il pellegrinaggio annuale alla Mecca).
Per quanto concerne l’Isis, la denominazione stessa di questa entità (apparentemente sconfitta) che pretende di rappresentare l’islam è stata ed è ancora fonte di molteplici interpretazioni. La questione del nome – Isis, Isil, Isi, IS (Stato Islamico), ʿish ed altri ancora – da utilizzare per riferirsi al gruppo estremista e alle pseudo-istituzioni che tale soggetto cerca di consolidare nei territori sotto il suo controllo (parte della Siria e dell’Iraq, ma anche porzioni della Libia) è stata discussa da molti commentatori. Il fatto di scegliere una dizione piuttosto che l’altra, o di riferirsi direttamente alla pretesa del suo fondatore iracheno Abu Bakr Al-Baghdadi di rappresentare un nuovo e autoproclamato califfato Islamico, apre una serie di problematiche che l’Occidente dovrebbe valutare attentamente, soprattutto per elaborare una strategia logica tesa ad annullare o almeno a contenere il fenomeno del terrorismo islamico. L’Isis è infatti un’organizzazione estremista che considera il jihad (jihād, cioè la lotta interiore spirituale per raggiungere una perfetta fede islamica fino a praticare la “guerra santa” contro ogni infedele o apostata) l’ago della sua bussola fideistica e strategica (lo Stato Islamico è di fatto una realtà statale fortemente accentrata e sovranazionale, il cui ordinamento giuridico si rifà in parte ai dettami della tradizione coranica). Una bussola che segue un’interpretazione radicale, anti-occidentale, ma per alcuni versi ortodossa, del Corano (Al-Qur'ān), con lo scopo ultimo di fondare uno superstato salafita, annullando le realtà statuali musulmane ed inglobando perfino aree geografiche, religiose e culturali esterne, non ultima l’Europa.
Entità politicamente ed etnicamente variegata, l’Isis appare come un organismo operativo tendenzialmente statuale, rigorosamente religioso, molto efficiente nell’organizzazione militare e soprattutto alimentato da notevoli risorse finanziarie, derivanti in parte dalla vendita di contrabbando del petrolio – tutta la sua strategia militare applicata in Iraq e Siria ha sempre mirato al possesso dei locali giacimenti che, a seconda delle fonti, garantirebbero una produzione fra 1,5 e 3 milioni di dollari al giorno - e in parte dal sostegno di taluni stati come l’Arabia Saudita wahabita e il Qatar.
Pur differenziandosi sotto il profilo organizzativo e operativo da Al Qaeda (con la quale mantiene tuttavia uno stretto legame derivante da comuni interessi), l’Isis - come molti altri gruppi jihadisti e come la stessa Al Qaeda - è un prodotto dell’ideologia dei Fratelli Musulmani (Jamaʿat al-Iwān al-muslimīn), organizzazione islamista fondata al Cairo, nel 1928, da al-Hasan al-Bannā, anche se quest’ultima non afferma una stretta cogenza del jihad, avendo da tempo optato per una strategia legale o semi-legale per tentare la conquista del potere politico. Lo Stato Islamico, al contrario, segue un’interpretazione radicale, antioccidentale, antisecolarizzatrice e antimodernista dell’islam, sostenendo di rifarsi al credo delle origini e – soprattutto in Siria e Iraq - ad una pratica assolutista, persecutoria e sanguinaria nei confronti di quegli elementi considerati allogeni o estranei alla “purezza” religiosa e iconoclasta salafita, ossia cristiani caldei, sciiti, sette sufi, yazidi, curdi e peshmerga (le forze armate curde della regione autonoma del Kurdistan iracheno). L’aspetto teoretico di maggior rilievo del salafismo di cui è imbevuto l’Isis, è, pertanto, quello di un ritorno drastico e violento alle fonti, dando avvio al contempo ad una nuova interpretazione autentica (ijtihād) dei dati coranici e della tradizione etico-giuridica (sunna). E sotto questo aspetto, possiamo dire che il movimento, dietro una veste apparentemente tradizionalista, è in realtà e paradossalmente un soggetto teso ad una sorta di “modernizzazione dell’islam”, dal momento che esso stesso non disdegna lo strumento esegetico dell’ijtihād e  la tecnologia più avanzata (media, internet, canali youtube), per affrontare le nuove fattispecie giuridiche che si accompagnano ai processi di globalizzazione economico-culturale dell’era contemporanea. Altro elemento innovativo sotto il profilo propagandistico di questo movimento apparentemente “selvaggio” è l’indottrinamento e la cooptazione sistematica di elementi combattenti musulmani non soltanto mediorientali o africani e asiatici (egiziani, libici, nigeriani, somali, kenyoti, sudanesi e filippini dell’isola di Mindanao), ma anche europei, cioè residenti nel Vecchio Continente, e caucasici (azeri e ceceni). Riguardo all’Europa, ricordiamo che in questi ultimi anni l’Isis è riuscita nell’intento di convertire e arruolare centinaia di volontari, soprattutto belgi, britannici, francesi, olandesi e tedeschi: operazione facilitata dalla ormai palese resa culturale di un’Unione Europea sempre più finanziaria, laicista e politicamente nulla, al punto di rinunciare alle proprie radici greco-romane ed ebraico-cristiane in nome del multiculturalismo esasperato e di un “anonimato” identitario tinteggiato da una sorta di nichilismo autodistruttivo. Ed è proprio qui che sta il problema. l’Isis combatte infatti una guerra religiosa prima ancora che politica; un tipo di conflitto che l’ormai secolarizzato Occidente forse non riesce a comprendere fino in fondo, e tutto ciò rappresenta un altro rilevante problema. La non comprensione è infatti dovuta ad una sostanziale differenza di mentalità e di linguaggio. Una diversità che dovrebbe essere meglio studiata ed elaborata prima di giungere ad iniziative di carattere bellico, talvolta necessarie e utili, ma non certo risolutive per abbattere l’estremismo islamico in generale e quello dell’Isis in particolare. Studi più accurati circa i multiformi aspetti dello jihadismo, una maggiore ma più mirata attività militare di contrasto sul campo, superiori norme di sicurezza alle nostre frontiere, contenimento dell’immigrazione dall’area mediorientale e nordafricana e, soprattutto, minore dipendenza dell’Occidente dal fattore petrolio, potrebbero rivelarsi armi risolutive. E al tempo stesso, proprio perché quella scatenata del califfato di Abu Bakr è soprattutto una guerra di religione, anche l’agire su un piano altrettanto religioso, cioè attraverso una rivalutazione della fede cristiana - intesa come salda e coraggiosa filosofia di pace e di giustizia (il cristianesimo rappresenta per l’Isis un nemico mortale, in quanto impalcatura dell’unico Occidente civile) potrebbe coronare l’intera opera. Come ha sottolineato l’esperta di questioni slamiche, Souad Sbai: “La popolazione europea mostra il fianco, indebolendosi sempre più sotto la lenta ma inesorabile morsa del multiculturalismo criminogeno degli anni Duemila”. Una deriva che, di fatto, ha favorito l’espandersi del fenomeno della cooptazione da parte dell’Isis di soggetti culturalmente smarriti e psicologicamente fragili, da utilizzare - anche attraverso un auto-annientamento tanatofilo di matrice nichilista - per la realizzazione di un luciferino progetto egemonico.
Certo è che senza l’appoggio di Stati islamici inequivocabilmente favorevoli ad un logico dialogo con l’Occidente e concretamente impegnati contro ogni fenomeno di radicalismo – intenzione che fino ad oggi non si è mai manifestata chiaramente – il fenomeno Isis non potrà mai essere sconfitto, ma anzi potrà riproporsi in altre forme. Trattasi – lo sappiamo - di una grave, pesante assunzione di responsabilità della quale gli Stati musulmani devono farsi carico nell’immediato. Il tempo delle paure, dell’ambiguità e dell’inganno mirati a mantenere o sostenere inconfessabili posizioni di predominio economico e religioso oltranzista è ormai finito.



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