LA GUERRIGLIA ANTICOMUNISTA IN CROAZIA E SLOVENIA 1945-1948
di Alberto Rosselli
Dopo
la fine della Seconda Guerra Mondiale, in Croazia, come in Slovenia, si
sviluppò un movimento di resistenza anticomunista che trovò in alcune
formazioni politiche e militari regionali, come quella dei Krizari
(Crociati) – composta per lo più da elementi ex-ustascia ed ex-domobrani della
Guardia Nazionale – il suo zoccolo più duro. Dopo le stragi del maggio-giugno
1945 perpetrate dai titini ai danni dell’esercito croato rifugiatosi in
Austria, alcune centinaia di ufficiali e soldati ex-ustascia sfuggiti alle
esecuzioni di massa decisero di proseguire la loro lotta contro il nuovo regime
instauratosi a Belgrado. Ma nonostante l’appoggio fornito loro dal SIS
britannico e, almeno così sembra, dal Vaticano e dal governo italiano, i loro
sforzi – come vedremo - non condurranno che a parziali o totali insuccessi.
Ma
a questo punto occorre però fare un passo indietro. Poco più di un mese dopo la
conclusione del conflitto, il 25 giugno 1945, alcuni esponenti ustascia
rifugiatisi a Salisburgo (nella parte di Austria controllata dagli alleati
occidentali) si misero in contatto con l’arcivescovo Andreas Rohracher, al
quale chiesero (almeno così sostengono due giornalisti, lo statunitense Mark Aarons e l’australiano John Loftus, autori
di Ratlines, un testo interessante ma
molto discusso sulle presunte collusioni post-belliche fra movimento ustascia e
Vaticano) se fosse stato possibile ottenere dalla Santa Sede un appoggio
politico per la creazione di uno nuovo stato croato-cattolico indipendente o,
in alternativa, per la realizzazione di una (non ben definita) “unione
adriatico-danubiana in cui il popolo croato potesse ritagliare un proprio
spazio”. Ciò che appare certo è che, nell’estate del 1945, esponenti ustascia,
che durante la guerra avevano fatto parte delle formazioni di Pavelic e che
successivamente erano fuggiti in Occidente, si siano effettivamente messi in
contatto con esponenti della Chiesa, ma soprattutto dei servizi segreti
britannici per cercare di “ricostruire” il movimento croato e per tentare colpi
di mano ai danni del nuovo regime iugoslavo. Nei primi mesi del 1946, a
Trieste, alcuni leader krizari in
esilio vennero infatti convocati nella sede del locale distaccamento del CIC
(Coordination Information Center) e tra le due parti vennero effettivamente
presi accordi in tal senso. Nella fattispecie, i britannici garantirono il
proprio sostegno al movimento krizaro
i cui volontari, presenti in Occidente e in Italia, sarebbero stati selezionati
da un’apposita commissione tecnica per poi essere sottoposti ad un ciclo di
addestramento militare. Lo scopo era infatti quello di creare un primo nucleo
di commando da inviare
successivamente in Iugoslavia con compiti di intelligence e sabotaggio. Nell’arco di alcuni mesi, presso un
campo militare britannico situato non lontano da Udine, vennero radunate alcune
decine di ustascia ai quali gli ufficiali del SIS insegnarono tutte le tecniche necessarie per
operare in territorio nemico (i volontari prescelti furono addestrati al lancio
con il paracadute, all’uso di armi e di apparecchiature radio). Alla fine del
corso, gli istruttori inglesi fornirono ai volontari krizari uniformi dell’esercito americano e una paga giornaliera di
700 lire. Dopodiché, a bordo di camion, trasferirono i commando (assieme ad un carico di armi e materiali di fabbricazione
anglo-americana) in Austria, nella zona di Klagenfurt, dove gli stessi servizi
britannici avevano installato un paio di piccoli campi base per le missioni da
effettuare in Iugoslavia. A sovrintendere l’attività del gruppo krizaro pare fosse un prelato destinato
a diventare famoso, almeno negli ambienti dell’intelligence internazionale, padre Krunoslav Draganovic che, tra il 1946 e il
1947, cioè durante il periodo di cooperazione anglo-ustascia, ebbe come
principale interlocutore il colonnello Lewis Perry facente parte dello staff
del CIC di Trieste. (1)
Stando
alle affermazioni di Aarons e Loftus (ma anche sulla base di alcuni carteggi
del CIC), pare che in questa fase il Vaticano abbia in qualche modo facilitato,
attraverso i suoi canali diplomatici e i suoi contatti con l’Austria e la
Croazia, l’attività dei krizari.
Sempre secondo le testimonianze dei due giornalisti, parte dei finanziamenti
necessari per l’addestramento degli ustascia e per la realizzazione delle
operazioni da effettuare in Iugoslavia, sembra provenisse da un misterioso
tesoro accumulato durate la guerra dagli uomini di Pavelic: tesoro costituito
da gioielli e denaro sottratti ad ebrei croati e serbi catturati ed eliminati
dagli ustascia tra il 1943 e il 1945. Sembra, infine, che nel 1946 anche la
Santa Sede abbia fornito ai krizari un
certo quantitativo di denaro. A questo proposito, il responsabile
dell’amministrazione di tali beni pare che fosse (ma su questo sussistono
dubbi) il colonnello krizaro Drago
Marinkovic e non un responsabile del SIS. Sempre secondo il resoconto di Aarons
e Loftus, Marinkovic poteva disporre di un ampio potere decisionale e di una
notevole libertà di movimento (egli infatti soggiornò parecchi mesi in Italia,
tra Trieste, Venezia e Roma, facendo anche alcune visite in Vaticano). Ma non è
tutto, i due cronisti arrivano poi a sostenere che parte del traffico - tra
l’Italia e l’Austria - delle armi necessarie per equipaggiare i reparti krizari si svolse addirittura con la
connivenza della Croce Rossa Italiana. Ipotesi avvalorata – secondo loro - dal
fatto che, nel dicembre 1945, in Iugoslavia, padre Ivan Condric e altri quattro
preti in contatto con la Croce Rossa vennero arrestati dalla polizia politica
con l’accusa di sostenere l’organizzazione sovversiva krizara, venendo successivamente processati e condannati (2). Spiegazione che,
tuttavia, non sembra risultare sufficiente a stabilire con certezza una diretta
connessione tra Croce Rossa e movimento krizaro.
Ciò che risulta vero ed accertato è che fino dall’inizio del 1946, i servizi
segreti titini erano effettivamente al corrente delle iniziative britanniche e
ustascia ed anche dei voli di ricognizione segreti effettuati periodicamente
sul territorio iugoslavo (e albanese) da velivoli anglo-americani. Fonti
iugoslave riferiscono, infatti, che nell’agosto del 1946 un paio di misteriosi
bimotori da trasporto (decollati probabilmente da un aeroporto austriaco)
lanciarono su alcune zone della Slovenia e della Croazia una considerevole
quantità di opuscoli anticomunisti, firmati da Ante Pavelic, inneggianti alle
gesta dei krizari. E che, tra il 1946
e nel 1947, alcuni reparti di commando
krizari provenienti dall’Austria
riuscirono ad infiltrarsi (come vedremo più avanti) in Croazia per unirsi a
“bande ribelli” già in loco e per compiere con esse atti di sabotaggi o
attacchi contro strutture militari titine.
L’operazione Gvardijan
All’inizio
del 1947, il Comitato Nazionale
Croato, (formato nel 1946 per iniziativa degli ex-ufficiali ustascia
Bozidar Kavran e Lovro Susic), si accordò con i britannici per fare passare
dall’Austria in Iugoslavia un gruppo di ufficiali addestrati ed equipaggiati
con armi leggere ed impianti radio, con lo scopo di stabilire un contatto diretto
con i capi di alcune bande krizare che si supponeva fossero operative nelle zone montuose della Croazia
settentrionale. Notizia, quest’ultima destinata a rivelarsi però falsa
in quanto creata e diffusa ad arte dagli agenti del controspionaggio titino,
fermamente decisi a catturare ed eliminare i commando ustascia addestrati in Italia e Austria dai britannici.
Nella
fattispecie, questa trappola (chiamata in codice Operazione Gvardijan)
venne ideata ed approntata da Ivan Krajacic, un ufficiale comunista croato che
durante la Seconda Guerra Mondiale aveva avuto modo di distinguersi per
coraggio ed intelligenza. Lo scopo dell’operazione era quello di attirare in
Iugoslavia gli alti gradi del Comitato Nazionale Croato e catturarli. Abboccando
all’inganno, nel luglio 1947, il maggiore ustascia Bojnik Milos e i
sottufficiali Rojnik e Grgic rientrarono segretamente in Croazia attraversando
il confine austriaco. Dopo essersi riunito ad un piccolo reparto ribelle
realmente esistente ed operante sulle montagne Papuk (vicino a Slavonska
Pozega) il gruppo avrebbe dovuto ricongiungersi con una seconda squadra krizara. Tuttavia, nella località
prescelta per l’appuntamento il commando
non incontrò alcun partigiano, bensì una robusta compagnia della UDB (Unutrasnja
Drzavna Bezbednost, le unità della Sicurezza Interna iugoslave) già
allertata dal controspionaggio di Belgrado. Milos e un compagno furono subito
disarmati ed arrestati, mentre Grgic, che tentò di resistere, venne ucciso. In
seguito, utilizzando l’apparecchiatura radio e i cifrari del commando, gli agenti della UDB
contattarono la base austriaca dalla quale era partito il gruppo, dando
assicurazioni circa la buona riuscita dell’operazione e chiedendo l’invio in
Iugoslavia di altri guerriglieri. Alla fine di agosto del 1948, quando l’Operazione
Gvardijan ebbe termine, la polizia segreta titina era riuscita ad arrestare
ben 96 tra commando e basisti croati,
tra cui Bozidar Kavran. Successivamente, tutti i prigionieri furono trasferiti
a Zagabria, nel carcere di Savska Ulica, ed infine sottoposti ad un processo
che venne celebrato nel 1948 nella stessa città e che si concluse con la
condanna di 43 partigiani. Venti di essi (tra cui Ljubo Milos, Ante Vrban,
Bozidar Kavran, Mime Rosandic) furono impiccati e altri 23 fucilati; due ebbero
l’ergastolo e nove pene detentive dai 15 ai 20 anni.
Nel
secondo dopoguerra anche un gruppo abbastanza folto di sloveni anticomunisti
costituì all’estero un proprio movimento: iniziativa che venne promossa sotto
la leadership militare di Franjo Lipovec
e quella spirituale del vescovo di Lubiana Gregory Rozman, rifugiatosi
nel 1945 a Klagenfurt (3). Nel
1945, a Trieste, Lipovec era stato arrestato dagli agenti del SIS e, dopo
lunghe trattative, convinto a collaborare con il servizio segreto britannico.
Nell’agosto 1946, sembra che Lipovec abbia avuto un incontro con alcuni alti
ufficiali del servizio segreto militare italiano (collegato al SIS) che gli
proposero anch’essi una sorta di cooperazione. Lipovec accettò e, pare in
cambio della consegna di un pacco di documenti riservati, ottenne la protezione
e un finanziamento da parte dell’intelligence
italiana. Successivamente, forte dell’appoggio britannico e italiano, Lipovec
fu lasciato libero di contattare e cooptare diversi esuli sloveni presenti a
Trieste, selezionandone alcuni che vennero poi tradotti in un campo militare
britannico e sottoposti dagli esperti del SIS ad un ciclo di addestramento
militare. Secondo alcune fonti sembra (ma la notizia non è stata mai
confermata) che, tra il febbraio e il marzo del 1947, in una imprecisata
località dell’Italia nord-orientale, Lipovec e i suoi uomini abbiamo ricevuto
in consegna “otto ingombranti carichi, comprendenti 500 armi automatiche, circa
4.000 granate a mano, 100 pistole e più di 30 bombe a orologeria, forniti dai
servizi segreti italiani”. E che tale ingente carico sia stato poi trasferito
da Trieste in Austria con mezzi britannici. Secondo la documentazione raccolta
da Aarons e Loftus, pare inoltre che a Trieste, il professor Ivan Protulipac
(un uomo di padre Draganovic) fungesse da collegamento tra i partigiani sloveni
e i gruppi sloveni krizari presenti
in Italia (verso la fine del 1946, Protulipac verrà assassinato a Trieste da
agenti titini).
Secondo
i due autori di Ratlines, fu proprio
grazie a questa organizzazione che nel 1946 i commando sloveni riuscirono ad effettuare alcune missioni segrete
in Slovenia per unirsi con i locali (ma in realtà inesistenti) gruppi
partigiani anticomunisti. Ma a questo riguardo, stando ai documenti del SIS, la
verità sembra però un’altra. Soprattutto per quanto concerne l’esistenza o meno
di gruppi partigiani sloveni attivi in territorio iugoslavo. Fonti britanniche
riportano, infatti, con dovizia di particolari che a partire dal luglio del
1945, in alcune zone montuose della Slovenia, si formarono effettivamente
diverse bande di combattenti, composte soprattutto da ex-ufficiali e soldati
delle formazioni “bianche” scampati ai massacri perpetrati nel maggio-giugno
1945 dalle milizie comuniste titine. Si trattava, in verità, di piccoli
manipoli composti ciascuno da non più di una quindicina di uomini, per una
forza complessiva di circa 650 elementi.
Il
primo inverno di lotta, quello tra il 1945 e il 1946, vide questi nuclei,
abbastanza male organizzati ed equipaggiati, compiere alcuni, riusciti colpi di
mano contro piccoli presidi della polizia politica iugoslava: gesta queste che
fruttarono comunque ai partigiani sloveni una certa notorietà tra la
popolazione locale, suscitando anche molta apprensione nel controspionaggio di
Belgrado. La segreta speranza che animava questi uomini era che i governi di
Londra e di Washington entrassero, prima o poi, in rotta di collisione con il
governo comunista di Belgrado: ipotesi che, nell’estate del 1946, venne avvalorata
da alcune iniziative segrete condotte dall’aviazione anglo-americana nei
Balcani.
Nella
primavera del 1946, un paio di squadriglie speciali dell’USAF e della RAF, di
base in Austria, Germania Occidentale e - forse - Italia, effettuarono una
missione sui cieli della Slovenia (oltre che della Croazia e della Bosnia),
paracadutando anche alcuni agenti aventi il preciso compito di contattare i
locali gruppi ribelli sloveni (ma anche cetnici) e di valutarne la reale
consistenza e le capacità combattive. Poco si sa circa gli effettivi risultati
di queste operazioni di intruding.
Anche se, nell’agosto del 1946, fu la stessa stampa iugoslava a darne notizia,
citando il presunto abbattimento nel cielo di Bosnia da parte della caccia di
Belgrado di un bimotore da trasporto Douglas
C47 Dakota privo di insegne. Secondo forti inglesi e iugoslave, sembra che
nel settembre del 1946, unità di fuoriusciti sloveni rientrarono
clandestinamente in Iugoslavia per unirsi alle bande anticomuniste operanti
nella regione di Gorenjska, nel nord-ovest del paese, proprio dove nel 1942 la
Gestapo aveva creato un reparto (l’Oberkrainer Selbstschutz) composto da elementi locali e adibito alla
difesa territoriale. Nel luglio 1946 alcuni ex-appartenenti (circa un
centinaio) a questa formazione collaborazionista sarebbero risultati ancora
attivi attorno alla città di Kranj; mentre un altro contingente di 200 uomini,
al comando dell’ex-ufficiale delle SS Andrei Noc, avrebbe agito nelle foreste
della zona montagnosa della Mezakla, proprio a ridosso del confine austriaco.
Fonti serbe posteriori al 1995 riferiscono che più a sud, lungo la catena
Pokluka, un reparto di circa 60 ex-membri della Guardia Nazionale Slovena (un’altra nota compagine
collaborazionista) abbia effettuato alcuni attacchi contro isolate caserme
iugoslave, costringendo la polizia e le forze speciali titine ad intervenire.
Stando alle informazioni raccolte nell’autunno 1946 dallo spionaggio
statunitense e britannico, pare inoltre che un altro gruppo di circa 40 ribelli
sloveni sia rimasto per molte settimane annidato lungo il confine austriaco con
il compito di mantenere legami con i fuoriusciti intenzionati a rientrare in
patria per combattere il nuovo regime. Questo raggruppamento operò nei pressi
del fiume Sava, attorno alla città di Radovljica, in sintonia con un secondo
contingente di 50 uomini accampato nei boschi che circondano la città di Kranj.
A dimostrazione della determinazione che animava questi nuclei combattenti
della Iugoslavia del nord, basti pensare che nell’agosto del ‘46, nei pressi di
Trzic, località a nord di Kranj, un contingente di 70-80 partigiani armati di
fucili, mitragliatori e bombe a mano diede battaglia ad un reparto di 80
soldati regolari iugoslavi appartenenti alle Forze di Sicurezza, costringendolo
alla fuga.
Nonostante
i (limitati) successi riportati, a partire dal settembre 1946 i ribelli sloveni
subirono una serie di duri colpi da parte delle forze speciali e dell’esercito
iugoslavi che, verso la fine dell’estate avevano dispiegato non meno di 50.000
tra soldati e agenti di polizia per venire a capo della questione. Secondo
rapporti ufficiali dell’Armata iugoslava, tra l’agosto del 1945 e il settembre
del 1946, vennero catturati o eliminati circa 2.900 sloveni, più alcune altre
migliaia di guerriglieri cetnici e appartenenti ad altre minoranze (4). Pressati dalle forze
governative, nel dicembre 1946 gli ultimi gruppi di ribelli sloveni (ridotti a
poche centinaia di uomini in tutto) dovettero arrendersi, venendo poi
processati ed in gran parte condannati alla pena capitale.
Note a Croazia e Slovenia:
(1) Tra il 1941 e il 1945, padre Draganovic
parteggiò per il governo di Ante Pavelic. Nel dopoguerra questo discusso
prelato si adoperò sia per favorire la fuga all’estero di molti ustascia sia
per appoggiare il movimento dei krizari.
(2) Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, le autorità di
Belgrado condannarono a morte 255 preti cattolici accusati di avere collaborato
con gli ustascia. Queste sentenze furono pubblicamente denunciate (assieme ad
altre nefandezze compiute dal regime titino, come la chiusura di molte chiese e
l’abolizione di qualsiasi libertà individuale) dall’arcivescovo di Zagabria
Luigi Stepinac che in passato non aveva avuto problemi nel criticare aspramente
l’operato delle forze di occupazione naziste, fasciste e quelle del leader
croato Ante Pavelic. Il 18 settembre 1946, Stepinac fu incarcerato e sottoposto
ad un processo scandaloso al termine del quale, l’11 ottobre 1946, venne
condannato a 16 anni di prigione. Stepinac fu spedito al carcere di Lepoglava
dove, fino al 1951, rimase segregato in una cella di quattro metri quadrati. In
seguito alle ripetute proteste del Vaticano e di alcuni leader del mondo
occidentale, Tito si venne a trovare in serio imbarazzo, decidendo infine di
offrire al prelato la libertà in cambio del riconoscimento delle sue presunte
colpe. Ma Stepinac rifiutò, preferendo rimanere in carcere. Il 12 gennaio 1953,
Pio XII lo nominò cardinale, ma poco tempo dopo Stepinac si ammalò gravemente.
Dopo lunghe sofferenze fisiche e morali (durante il carcere la famiglia di
Stepinac fu perseguitata e isolata) il 10 febbraio 1960 il cardinale si spense.
E nonostante i mille ostacoli posti dal regime comunista, al suo funerale,
svoltosi a Zagabria, parteciparono migliaia di persone.
(3) Durante la seconda guerra mondiale, in
assenza del vescovo di Lubiana Miha Krek, Gregory Rozman si era assunto la responsabilità
del Partito Clericale Sloveno, stabilendo contatti sia con i fascisti italiani
sia con le forze naziste.
(4) Fino alla fine di
aprile del 1945, le forze cetniche agli ordini del generale Draza Mihailovic
continuarono la loro lotta. Ma in seguito alla resa tedesca (8 maggio 1945), il
leader fu costretto a ritirarsi con i suoi ultimi reparti nelle zone più
montagnose del paese per tentare un’ultima disperata resistenza che si
protrasse ancora per diversi mesi. Secondo fonti di Belgrado, nell’ottobre
1945, circa 12.000 “ribelli” anticomunisti (tra cui sloveni, croati, ballisti
albanesi, cetnici ed appartenenti ad altre minoranze), risultavano ancora
operativi in diverse zone del paese. Nel marzo 1946, grazie ad uno stratagemma,
le forze speciali dell’OZNA (il servizio di controspionaggio creato da Tito
nell’aprile 1943) riuscirono a catturare il capo cetnico che nel luglio dello
stesso anno fu condannato a morte: evento che tuttavia non impedì ai ribelli di
continuare la guerriglia contro il regime di Tito.
Nel 1946, il maggiore Racic liberò da elementi
comunisti la regione di Ljubovoja, sottoponendola al suo controllo fino al
1947, mentre nell’area di Banja Luka altri gruppi cetnici combatterono per
tutto il 1947 (il leader Lazar Tesanovic venne ucciso proprio in questa zona).
In Erzegovina, un altro nucleo armato rimase attivo fino al 1948. E sulle
montagne Velebit, sul confine fra Lika e Dalmazia, il comandante Odbrad Bijanko
resistette con il suo gruppo fino al 1950, anno in cui scoppiò in Macedonia una
rivolta cetnica che ingenti forze titine dovettero soffocare nel sangue onde
evitare che essa si propagasse ad altre regioni.
Bibliografia Croazia e Slovenia:
-
Mark Aarons e John Loftus, Ratlines, Newton Compton, 1993
- La Campagna di Iugoslavia - Aprile 1941-Settembre 1943. Collana Immagini di Storia. Testo di Francesco Fatutta, Italia
Editrice, 1996
-
CIA File:
Organization of the Ustase Abroad October 1946: Krunoslav Draganovic mentioned
as one of the chief Ustase operatives in post-war Europe
-
US Army File: CIC Memorandum from Agent Gowen, January 22, 1947: Investigation of Ante
Pavelic’s Vatican Sanctuary; First Appearance
of Draganovic by name in the Army dossier
-
US Army File: Rome
Area Allied Command to CIC
-
US Army File August 8, 1945:
Mention of “San Gerolamo” as a Haven for Ustase in Rome Just a Few Months After VE-Day.
-
Robert M. Kennedy, German Anti-Guerrilla Operations in the Balkans,
Washington DC, 1954
-
David Martin: Patriot or Traitor: The Case of General Mihailovich,
Stanford, CA,
1978
-
Mark Aarons, Sanctuary: Nazi Fugitives in Austria, Melbourne,
1989
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