mercoledì 26 dicembre 2018

La guerriglia anticomunista in Croazia e Slovenia (1945-1948), di Alberto Rosselli (Fonte: 'Storia Verità').




 

LA GUERRIGLIA ANTICOMUNISTA IN CROAZIA E SLOVENIA 1945-1948


di Alberto Rosselli


Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, in Croazia, come in Slovenia, si sviluppò un movimento di resistenza anticomunista che trovò in alcune formazioni politiche e militari regionali, come quella dei Krizari (Crociati) – composta per lo più da elementi ex-ustascia ed ex-domobrani della Guardia Nazionale – il suo zoccolo più duro. Dopo le stragi del maggio-giugno 1945 perpetrate dai titini ai danni dell’esercito croato rifugiatosi in Austria, alcune centinaia di ufficiali e soldati ex-ustascia sfuggiti alle esecuzioni di massa decisero di proseguire la loro lotta contro il nuovo regime instauratosi a Belgrado. Ma nonostante l’appoggio fornito loro dal SIS britannico e, almeno così sembra, dal Vaticano e dal governo italiano, i loro sforzi – come vedremo - non condurranno che a parziali o totali insuccessi.
Ma a questo punto occorre però fare un passo indietro. Poco più di un mese dopo la conclusione del conflitto, il 25 giugno 1945, alcuni esponenti ustascia rifugiatisi a Salisburgo (nella parte di Austria controllata dagli alleati occidentali) si misero in contatto con l’arcivescovo Andreas Rohracher, al quale chiesero (almeno così sostengono due giornalisti, lo statunitense Mark Aarons e l’australiano John Loftus, autori di Ratlines, un testo interessante ma molto discusso sulle presunte collusioni post-belliche fra movimento ustascia e Vaticano) se fosse stato possibile ottenere dalla Santa Sede un appoggio politico per la creazione di uno nuovo stato croato-cattolico indipendente o, in alternativa, per la realizzazione di una (non ben definita) “unione adriatico-danubiana in cui il popolo croato potesse ritagliare un proprio spazio”. Ciò che appare certo è che, nell’estate del 1945, esponenti ustascia, che durante la guerra avevano fatto parte delle formazioni di Pavelic e che successivamente erano fuggiti in Occidente, si siano effettivamente messi in contatto con esponenti della Chiesa, ma soprattutto dei servizi segreti britannici per cercare di “ricostruire” il movimento croato e per tentare colpi di mano ai danni del nuovo regime iugoslavo. Nei primi mesi del 1946, a Trieste, alcuni leader krizari in esilio vennero infatti convocati nella sede del locale distaccamento del CIC (Coordination Information Center) e tra le due parti vennero effettivamente presi accordi in tal senso. Nella fattispecie, i britannici garantirono il proprio sostegno al movimento krizaro i cui volontari, presenti in Occidente e in Italia, sarebbero stati selezionati da un’apposita commissione tecnica per poi essere sottoposti ad un ciclo di addestramento militare. Lo scopo era infatti quello di creare un primo nucleo di commando da inviare successivamente in Iugoslavia con compiti di intelligence e sabotaggio. Nell’arco di alcuni mesi, presso un campo militare britannico situato non lontano da Udine, vennero radunate alcune decine di ustascia ai quali gli ufficiali del SIS  insegnarono tutte le tecniche necessarie per operare in territorio nemico (i volontari prescelti furono addestrati al lancio con il paracadute, all’uso di armi e di apparecchiature radio). Alla fine del corso, gli istruttori inglesi fornirono ai volontari krizari uniformi dell’esercito americano e una paga giornaliera di 700 lire. Dopodiché, a bordo di camion, trasferirono i commando (assieme ad un carico di armi e materiali di fabbricazione anglo-americana) in Austria, nella zona di Klagenfurt, dove gli stessi servizi britannici avevano installato un paio di piccoli campi base per le missioni da effettuare in Iugoslavia. A sovrintendere l’attività del gruppo krizaro pare fosse un prelato destinato a diventare famoso, almeno negli ambienti dell’intelligence internazionale, padre Krunoslav Draganovic che, tra il 1946 e il 1947, cioè durante il periodo di cooperazione anglo-ustascia, ebbe come principale interlocutore il colonnello Lewis Perry facente parte dello staff del CIC di Trieste. (1)
Stando alle affermazioni di Aarons e Loftus (ma anche sulla base di alcuni carteggi del CIC), pare che in questa fase il Vaticano abbia in qualche modo facilitato, attraverso i suoi canali diplomatici e i suoi contatti con l’Austria e la Croazia, l’attività dei krizari. Sempre secondo le testimonianze dei due giornalisti, parte dei finanziamenti necessari per l’addestramento degli ustascia e per la realizzazione delle operazioni da effettuare in Iugoslavia, sembra provenisse da un misterioso tesoro accumulato durate la guerra dagli uomini di Pavelic: tesoro costituito da gioielli e denaro sottratti ad ebrei croati e serbi catturati ed eliminati dagli ustascia tra il 1943 e il 1945. Sembra, infine, che nel 1946 anche la Santa Sede abbia fornito ai krizari un certo quantitativo di denaro. A questo proposito, il responsabile dell’amministrazione di tali beni pare che fosse (ma su questo sussistono dubbi) il colonnello krizaro Drago Marinkovic e non un responsabile del SIS. Sempre secondo il resoconto di Aarons e Loftus, Marinkovic poteva disporre di un ampio potere decisionale e di una notevole libertà di movimento (egli infatti soggiornò parecchi mesi in Italia, tra Trieste, Venezia e Roma, facendo anche alcune visite in Vaticano). Ma non è tutto, i due cronisti arrivano poi a sostenere che parte del traffico - tra l’Italia e l’Austria - delle armi necessarie per equipaggiare i reparti krizari si svolse addirittura con la connivenza della Croce Rossa Italiana. Ipotesi avvalorata – secondo loro - dal fatto che, nel dicembre 1945, in Iugoslavia, padre Ivan Condric e altri quattro preti in contatto con la Croce Rossa vennero arrestati dalla polizia politica con l’accusa di sostenere l’organizzazione sovversiva krizara, venendo successivamente processati e condannati (2). Spiegazione che, tuttavia, non sembra risultare sufficiente a stabilire con certezza una diretta connessione tra Croce Rossa e movimento krizaro. Ciò che risulta vero ed accertato è che fino dall’inizio del 1946, i servizi segreti titini erano effettivamente al corrente delle iniziative britanniche e ustascia ed anche dei voli di ricognizione segreti effettuati periodicamente sul territorio iugoslavo (e albanese) da velivoli anglo-americani. Fonti iugoslave riferiscono, infatti, che nell’agosto del 1946 un paio di misteriosi bimotori da trasporto (decollati probabilmente da un aeroporto austriaco) lanciarono su alcune zone della Slovenia e della Croazia una considerevole quantità di opuscoli anticomunisti, firmati da Ante Pavelic, inneggianti alle gesta dei krizari. E che, tra il 1946 e nel 1947, alcuni reparti di commando krizari provenienti dall’Austria riuscirono ad infiltrarsi (come vedremo più avanti) in Croazia per unirsi a “bande ribelli” già in loco e per compiere con esse atti di sabotaggi o attacchi contro strutture militari titine.

L’operazione Gvardijan

All’inizio del 1947, il Comitato Nazionale Croato, (formato nel 1946 per iniziativa degli ex-ufficiali ustascia Bozidar Kavran e Lovro Susic), si accordò con i britannici per fare passare dall’Austria in Iugoslavia un gruppo di ufficiali addestrati ed equipaggiati con armi leggere ed impianti radio, con lo scopo di stabilire un contatto diretto con i capi di alcune bande krizare che si supponeva fossero operative nelle zone montuose della Croazia settentrionale. Notizia, quest’ultima destinata a rivelarsi però falsa in quanto creata e diffusa ad arte dagli agenti del controspionaggio titino, fermamente decisi a catturare ed eliminare i commando ustascia addestrati in Italia e Austria dai britannici.
Nella fattispecie, questa trappola (chiamata in codice Operazione Gvardijan) venne ideata ed approntata da Ivan Krajacic, un ufficiale comunista croato che durante la Seconda Guerra Mondiale aveva avuto modo di distinguersi per coraggio ed intelligenza. Lo scopo dell’operazione era quello di attirare in Iugoslavia gli alti gradi del Comitato Nazionale Croato e catturarli. Abboccando all’inganno, nel luglio 1947, il maggiore ustascia Bojnik Milos e i sottufficiali Rojnik e Grgic rientrarono segretamente in Croazia attraversando il confine austriaco. Dopo essersi riunito ad un piccolo reparto ribelle realmente esistente ed operante sulle montagne Papuk (vicino a Slavonska Pozega) il gruppo avrebbe dovuto ricongiungersi con una seconda squadra krizara. Tuttavia, nella località prescelta per l’appuntamento il commando non incontrò alcun partigiano, bensì una robusta compagnia della UDB (Unutrasnja Drzavna Bezbednost, le unità della Sicurezza Interna iugoslave) già allertata dal controspionaggio di Belgrado. Milos e un compagno furono subito disarmati ed arrestati, mentre Grgic, che tentò di resistere, venne ucciso. In seguito, utilizzando l’apparecchiatura radio e i cifrari del commando, gli agenti della UDB contattarono la base austriaca dalla quale era partito il gruppo, dando assicurazioni circa la buona riuscita dell’operazione e chiedendo l’invio in Iugoslavia di altri guerriglieri. Alla fine di agosto del 1948, quando l’Operazione Gvardijan ebbe termine, la polizia segreta titina era riuscita ad arrestare ben 96 tra commando e basisti croati, tra cui Bozidar Kavran. Successivamente, tutti i prigionieri furono trasferiti a Zagabria, nel carcere di Savska Ulica, ed infine sottoposti ad un processo che venne celebrato nel 1948 nella stessa città e che si concluse con la condanna di 43 partigiani. Venti di essi (tra cui Ljubo Milos, Ante Vrban, Bozidar Kavran, Mime Rosandic) furono impiccati e altri 23 fucilati; due ebbero l’ergastolo e nove pene detentive dai 15 ai 20 anni.
Nel secondo dopoguerra anche un gruppo abbastanza folto di sloveni anticomunisti costituì all’estero un proprio movimento: iniziativa che venne promossa sotto la leadership militare di Franjo Lipovec  e quella spirituale del vescovo di Lubiana Gregory Rozman, rifugiatosi nel 1945 a Klagenfurt (3). Nel 1945, a Trieste, Lipovec era stato arrestato dagli agenti del SIS e, dopo lunghe trattative, convinto a collaborare con il servizio segreto britannico. Nell’agosto 1946, sembra che Lipovec abbia avuto un incontro con alcuni alti ufficiali del servizio segreto militare italiano (collegato al SIS) che gli proposero anch’essi una sorta di cooperazione. Lipovec accettò e, pare in cambio della consegna di un pacco di documenti riservati, ottenne la protezione e un finanziamento da parte dell’intelligence italiana. Successivamente, forte dell’appoggio britannico e italiano, Lipovec fu lasciato libero di contattare e cooptare diversi esuli sloveni presenti a Trieste, selezionandone alcuni che vennero poi tradotti in un campo militare britannico e sottoposti dagli esperti del SIS ad un ciclo di addestramento militare. Secondo alcune fonti sembra (ma la notizia non è stata mai confermata) che, tra il febbraio e il marzo del 1947, in una imprecisata località dell’Italia nord-orientale, Lipovec e i suoi uomini abbiamo ricevuto in consegna “otto ingombranti carichi, comprendenti 500 armi automatiche, circa 4.000 granate a mano, 100 pistole e più di 30 bombe a orologeria, forniti dai servizi segreti italiani”. E che tale ingente carico sia stato poi trasferito da Trieste in Austria con mezzi britannici. Secondo la documentazione raccolta da Aarons e Loftus, pare inoltre che a Trieste, il professor Ivan Protulipac (un uomo di padre Draganovic) fungesse da collegamento tra i partigiani sloveni e i gruppi sloveni krizari presenti in Italia (verso la fine del 1946, Protulipac verrà assassinato a Trieste da agenti titini).
Secondo i due autori di Ratlines, fu proprio grazie a questa organizzazione che nel 1946 i commando sloveni riuscirono ad effettuare alcune missioni segrete in Slovenia per unirsi con i locali (ma in realtà inesistenti) gruppi partigiani anticomunisti. Ma a questo riguardo, stando ai documenti del SIS, la verità sembra però un’altra. Soprattutto per quanto concerne l’esistenza o meno di gruppi partigiani sloveni attivi in territorio iugoslavo. Fonti britanniche riportano, infatti, con dovizia di particolari che a partire dal luglio del 1945, in alcune zone montuose della Slovenia, si formarono effettivamente diverse bande di combattenti, composte soprattutto da ex-ufficiali e soldati delle formazioni “bianche” scampati ai massacri perpetrati nel maggio-giugno 1945 dalle milizie comuniste titine. Si trattava, in verità, di piccoli manipoli composti ciascuno da non più di una quindicina di uomini, per una forza complessiva di circa 650 elementi.
Il primo inverno di lotta, quello tra il 1945 e il 1946, vide questi nuclei, abbastanza male organizzati ed equipaggiati, compiere alcuni, riusciti colpi di mano contro piccoli presidi della polizia politica iugoslava: gesta queste che fruttarono comunque ai partigiani sloveni una certa notorietà tra la popolazione locale, suscitando anche molta apprensione nel controspionaggio di Belgrado. La segreta speranza che animava questi uomini era che i governi di Londra e di Washington entrassero, prima o poi, in rotta di collisione con il governo comunista di Belgrado: ipotesi che, nell’estate del 1946, venne avvalorata da alcune iniziative segrete condotte dall’aviazione anglo-americana nei Balcani.
Nella primavera del 1946, un paio di squadriglie speciali dell’USAF e della RAF, di base in Austria, Germania Occidentale e - forse - Italia, effettuarono una missione sui cieli della Slovenia (oltre che della Croazia e della Bosnia), paracadutando anche alcuni agenti aventi il preciso compito di contattare i locali gruppi ribelli sloveni (ma anche cetnici) e di valutarne la reale consistenza e le capacità combattive. Poco si sa circa gli effettivi risultati di queste operazioni di intruding. Anche se, nell’agosto del 1946, fu la stessa stampa iugoslava a darne notizia, citando il presunto abbattimento nel cielo di Bosnia da parte della caccia di Belgrado di un bimotore da trasporto Douglas C47 Dakota privo di insegne. Secondo forti inglesi e iugoslave, sembra che nel settembre del 1946, unità di fuoriusciti sloveni rientrarono clandestinamente in Iugoslavia per unirsi alle bande anticomuniste operanti nella regione di Gorenjska, nel nord-ovest del paese, proprio dove nel 1942 la Gestapo aveva creato un reparto (l’Oberkrainer Selbstschutz) composto da elementi locali e adibito alla difesa territoriale. Nel luglio 1946 alcuni ex-appartenenti (circa un centinaio) a questa formazione collaborazionista sarebbero risultati ancora attivi attorno alla città di Kranj; mentre un altro contingente di 200 uomini, al comando dell’ex-ufficiale delle SS Andrei Noc, avrebbe agito nelle foreste della zona montagnosa della Mezakla, proprio a ridosso del confine austriaco. Fonti serbe posteriori al 1995 riferiscono che più a sud, lungo la catena Pokluka, un reparto di circa 60 ex-membri della Guardia Nazionale Slovena (un’altra nota compagine collaborazionista) abbia effettuato alcuni attacchi contro isolate caserme iugoslave, costringendo la polizia e le forze speciali titine ad intervenire. Stando alle informazioni raccolte nell’autunno 1946 dallo spionaggio statunitense e britannico, pare inoltre che un altro gruppo di circa 40 ribelli sloveni sia rimasto per molte settimane annidato lungo il confine austriaco con il compito di mantenere legami con i fuoriusciti intenzionati a rientrare in patria per combattere il nuovo regime. Questo raggruppamento operò nei pressi del fiume Sava, attorno alla città di Radovljica, in sintonia con un secondo contingente di 50 uomini accampato nei boschi che circondano la città di Kranj. A dimostrazione della determinazione che animava questi nuclei combattenti della Iugoslavia del nord, basti pensare che nell’agosto del ‘46, nei pressi di Trzic, località a nord di Kranj, un contingente di 70-80 partigiani armati di fucili, mitragliatori e bombe a mano diede battaglia ad un reparto di 80 soldati regolari iugoslavi appartenenti alle Forze di Sicurezza, costringendolo alla fuga.
Nonostante i (limitati) successi riportati, a partire dal settembre 1946 i ribelli sloveni subirono una serie di duri colpi da parte delle forze speciali e dell’esercito iugoslavi che, verso la fine dell’estate avevano dispiegato non meno di 50.000 tra soldati e agenti di polizia per venire a capo della questione. Secondo rapporti ufficiali dell’Armata iugoslava, tra l’agosto del 1945 e il settembre del 1946, vennero catturati o eliminati circa 2.900 sloveni, più alcune altre migliaia di guerriglieri cetnici e appartenenti ad altre minoranze (4). Pressati dalle forze governative, nel dicembre 1946 gli ultimi gruppi di ribelli sloveni (ridotti a poche centinaia di uomini in tutto) dovettero arrendersi, venendo poi processati ed in gran parte condannati alla pena capitale.

Note a Croazia e Slovenia:

(1) Tra il 1941 e il 1945, padre Draganovic parteggiò per il governo di Ante Pavelic. Nel dopoguerra questo discusso prelato si adoperò sia per favorire la fuga all’estero di molti ustascia sia per appoggiare il movimento dei krizari.

(2)     Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, le autorità di Belgrado condannarono a morte 255 preti cattolici accusati di avere collaborato con gli ustascia. Queste sentenze furono pubblicamente denunciate (assieme ad altre nefandezze compiute dal regime titino, come la chiusura di molte chiese e l’abolizione di qualsiasi libertà individuale) dall’arcivescovo di Zagabria Luigi Stepinac che in passato non aveva avuto problemi nel criticare aspramente l’operato delle forze di occupazione naziste, fasciste e quelle del leader croato Ante Pavelic. Il 18 settembre 1946, Stepinac fu incarcerato e sottoposto ad un processo scandaloso al termine del quale, l’11 ottobre 1946, venne condannato a 16 anni di prigione. Stepinac fu spedito al carcere di Lepoglava dove, fino al 1951, rimase segregato in una cella di quattro metri quadrati. In seguito alle ripetute proteste del Vaticano e di alcuni leader del mondo occidentale, Tito si venne a trovare in serio imbarazzo, decidendo infine di offrire al prelato la libertà in cambio del riconoscimento delle sue presunte colpe. Ma Stepinac rifiutò, preferendo rimanere in carcere. Il 12 gennaio 1953, Pio XII lo nominò cardinale, ma poco tempo dopo Stepinac si ammalò gravemente. Dopo lunghe sofferenze fisiche e morali (durante il carcere la famiglia di Stepinac fu perseguitata e isolata) il 10 febbraio 1960 il cardinale si spense. E nonostante i mille ostacoli posti dal regime comunista, al suo funerale, svoltosi a Zagabria, parteciparono migliaia di persone.

(3)     Durante la seconda guerra mondiale, in assenza del vescovo di Lubiana Miha Krek, Gregory Rozman si era assunto la responsabilità del Partito Clericale Sloveno, stabilendo contatti sia con i fascisti italiani sia con le forze naziste.

(4)     Fino alla fine di aprile del 1945, le forze cetniche agli ordini del generale Draza Mihailovic continuarono la loro lotta. Ma in seguito alla resa tedesca (8 maggio 1945), il leader fu costretto a ritirarsi con i suoi ultimi reparti nelle zone più montagnose del paese per tentare un’ultima disperata resistenza che si protrasse ancora per diversi mesi. Secondo fonti di Belgrado, nell’ottobre 1945, circa 12.000 “ribelli” anticomunisti (tra cui sloveni, croati, ballisti albanesi, cetnici ed appartenenti ad altre minoranze), risultavano ancora operativi in diverse zone del paese. Nel marzo 1946, grazie ad uno stratagemma, le forze speciali dell’OZNA (il servizio di controspionaggio creato da Tito nell’aprile 1943) riuscirono a catturare il capo cetnico che nel luglio dello stesso anno fu condannato a morte: evento che tuttavia non impedì ai ribelli di continuare la guerriglia contro il regime di Tito.
Nel 1946, il maggiore Racic liberò da elementi comunisti la regione di Ljubovoja, sottoponendola al suo controllo fino al 1947, mentre nell’area di Banja Luka altri gruppi cetnici combatterono per tutto il 1947 (il leader Lazar Tesanovic venne ucciso proprio in questa zona). In Erzegovina, un altro nucleo armato rimase attivo fino al 1948. E sulle montagne Velebit, sul confine fra Lika e Dalmazia, il comandante Odbrad Bijanko resistette con il suo gruppo fino al 1950, anno in cui scoppiò in Macedonia una rivolta cetnica che ingenti forze titine dovettero soffocare nel sangue onde evitare che essa si propagasse ad altre regioni.

Bibliografia Croazia e Slovenia:

-       Mark Aarons e John Loftus, Ratlines, Newton Compton, 1993
-       La Campagna di Iugoslavia - Aprile 1941-Settembre 1943. Collana Immagini di Storia. Testo di Francesco Fatutta, Italia Editrice, 1996
-       CIA File: Organization of the Ustase Abroad October 1946: Krunoslav Draganovic mentioned as one of the chief Ustase operatives in post-war Europe
-       US Army File: CIC Memorandum from Agent Gowen, January 22, 1947: Investigation of Ante Pavelic’s Vatican Sanctuary; First Appearance of Draganovic by name in the Army dossier
-       US Army File: Rome Area Allied Command to CIC
-       US Army File August 8, 1945: Mention of “San Gerolamo” as a Haven for Ustase in Rome Just a Few Months After VE-Day.
-       Robert M. Kennedy, German Anti-Guerrilla Operations in the Balkans, Washington DC, 1954
-       David Martin: Patriot or Traitor: The Case of General Mihailovich, Stanford, CA, 1978
-       Mark Aarons, Sanctuary: Nazi Fugitives in Austria, Melbourne, 1989


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