Bambino armeno (1915) |
SE VUOLE ENTRARE IN EUROPA
LA TURCHIA DEVE RICONOSCERE IL GENOCIDIO ARMENO
di Alberto Rosselli
Il governo di Ankara, come è noto,
non sembra intenzionato - almeno allo stato attuale - ad ammettere che tra il
1915 e il 1918 circa 1.000.000/1.500.000 (a seconda delle fonti) cristiani armeni
furono massacrati dalle milizie turche: rifiuto che non è stato bene accolto da
diversi paesi membri dell’UE, prima fra tutti la Francia che, nel maggio del
1998, attraverso l’Assemblea Nazionale, riconobbe ufficialmente il genocidio
degli armeni del 1915, mandando su tutte le furie il governo di Ankara. Questo infatti
controbatté, seppure in maniera un po’ troppo ragionieristica, che il “genocidio
altro non fu che una farsa propagandistica, in quanto le vittime della
repressione del ‘15 non superarono le 300.000 unità”[1].
Sempre nell’estate del 1998, la
Lega Nord propose al parlamento italiano il riconoscimento
del genocidio armeno, ma soltanto 145 parlamentari decisero di sottoscrivere il
documento.
Per
chiarezza ricordiamo che con l’espressione “genocidio armeno” o “massacro
degli armeni” (in lingua armena Medz Yeghern, “grande male”) ci si
riferisce a due eventi distinti ma legati fra loro: il primo, relativo alla
campagna contro gli armeni condotta dal sultano ottomano Abdul Hamid II negli
anni 1894-1896; il secondo, collegato alla deportazione ed eliminazione degli
armeni progettata e portata a compimento dallo stato maggiore del Comitato di
Unione e Progresso nel periodo
compreso tra il 1915 e il 1918. Nel 1890, nell’impero ottomano si contavano circa
2,5 milioni di armeni, in maggioranza cristiani orientali o cattolici. Questa
minoranza era sostenuta dalla Russia zarista sia per la “vicinanza” religiosa
sia, e soprattutto, perché il governo di San Pietroburgo sperava, anche
mediante il concorso armeno, di indebolire ulteriormente l’impero ottomano per
annetterne territori ed appropriarsi, se possibile, dell’area nevralgica degli
Stretti. Con lo scopo di reprimere il movimento autonomista armeno, che nel
frattempo era sceso in campo con varie formazioni politiche, anche armate,
verso la fine del XIX secolo il governo della Sacra Porta ricorse alla forza
bruta, incoraggiando anche i curdi, con i quali gli armeni condividevano parte
dell’Armenia storica, a molestare e saccheggiare impunemente le comunità
cristiane. Questo stato di cose esasperò a tal punto gli armeni che, nel 1894,
essi tentarono di ribellarsi, venendo però schiacciati dalle milizie ottomane e
curde. Ma, come si è detto, fu tra il 1915 e il 1918 che la persecuzione contro
gli armeni raggiunse dimensioni tali da fare parlare di vero e proprio genocidio:
un massacro organizzato, condotto e gestito con agghiacciante zelo e rigore
scientifico.
All’inizio
del 1915, nel corso di una riunione segreta del Comitato di Unione e Progresso indetta
per pianificare lo sterminio degli armeni, il segretario esecutivo Nazim
concluse con queste parole i lavori dell’assemblea: “Siamo in guerra, e non potrebbe verificarsi un’occasione migliore per
eliminare tutta la popolazione armena. In un momento come questo è estremamente improbabile che vi siano interventi
da parte delle grandi potenze e proteste da parte della stampa”. Un
altro dei presenti, Hassan Fehmin, aggiunse poi. “Siamo nelle condizioni ideali per spedire sul fronte caucasico tutti gli
armeni in grado di imbracciare un fucile. Una volta dispiegati potremo
intrappolarli e annientarli con facilità, chiusi come saranno tra le forze
russe che si troveranno davanti e le forze speciali che piazzeremo alle loro
spalle”. Sempre nel corso della seduta il Comitato decise di affidare la
gestione della “questione armena” ad una speciale commissione formata dal
segretario esecutivo Nazim, da Behaettin Shakir e dal ministro della Pubblica
Istruzione, Shoukri, sotto il diretto controllo di Taalat Pascià. La commissione
istituì a sua volta la cosiddetta “Organizzazione Speciale” (la Teshkilate Makhsusa), una milizia formata in
buona misura da ex detenuti ai quali fu promessa la libertà in cambio di
criminali servigi. Da quella
data, fino alla resa dell’impero ottomano, l’esercito e le milizie turche e
curde si distinsero nel portare a compimento persecuzioni, deportazioni e
massacri così efferati da potere essere paragonati a quelli che in seguito
verranno organizzati dalle autorità naziste e sovietiche.
“L’Unione Europea
– rammenta il giornalista Filippo Facci - ha posto il riconoscimento del
genocidio da parte della Turchia come prioritaria condizione perché quest’ultima
entri in Europa, ed è un fatto importante: anche se una mozione analoga fu
invero promossa dal Parlamento Europeo già nel 1987, ed una analoga fu
approvata dal Parlamento italiano nel 2001, anche se Russia, Argentina,
Bulgaria, Cipro, Grecia, Belgio e soprattutto Francia hanno da tempo
riconosciuto quella che non è una leggenda nera (…). Si parla del primo ed
acclarato genocidio del Novecento con un milione e mezzo di cristiani armeni
sterminati in quanto armeni, ciò che ispirò Adolf Hitler, quando in un celebre
discorso del 22
agosto 1939 disse che si poteva invadere la Polonia e massacrarne
il popolo senza preoccuparsi delle conseguenze: “Chi mai ricorda oggi - si chiese
- dei massacri degli Armeni?”. Ma a muoversi sulla pista francese è stato anche
il Vaticano. Il 9
novembre 2000, Giovanni
Paolo II ricevette il patriarca armeno Katholicos Karenin e sottoscrisse
un comunicato di denuncia delle persecuzioni subite dagli armeni a causa della
propria fede cristiana. In quell’occasione il papa disse che “fu proprio il
genocidio degli armeni a fare da prologo agli orrori che sarebbero seguiti”. E
nel corso della sua successiva visita in Armenia, nel settembre del 2001, il Giovanni Paolo II volle
rendere omaggio alle vittime del massacro sostando in preghiera nel mausoleo di
Tzitzernagaberd, ad Erevan, e domandandosi con sgomento “come il mondo abbia
potuto assistere ad aberrazioni tanto disumane”.
La reazione
della Turchia alle dichiarazioni del pontefice furono a dire poco sprezzanti ed
irriguardose. Il principale quotidiano turco, il Milliyet, scrisse che
il papa “non era più in grado di intendere e di volere”, mentre altri giornali
vicini all’organizzazione dei cosiddetti Lupi Grigi, lamentarono che Ali Agca
non fosse riuscito nel suo intento. Ciò non impedì tuttavia a Giovanni Paolo II di
visitare l’Armenia e di elevare all’onore degli altari l’arcivescovo Ignazio
Maloyan, vittima egli stesso del genocidio. (…) A ben vedere, lo sterminio
degli armeni resta un “olocausto dimenticato” e protervamente negato, e non
solo dai turchi. Ancora oggi gli Stati Uniti non ne vogliono sentire parlare. Una
decina di anni fa, un documento del Congresso che prevedeva il riconoscimento
del genocidio fu ritirato dietro pressioni dell’allora presidente democratico
Clinton. Per sconcertante che sia – osserva Facci - il genocidio non è solo
completamente assente dai libri di scuola turchi, ma anche da quelli tedeschi”.
Alcuni anni fa, il quotidiano tedesco Die Welt annunciò che il Brandeburgo aveva
deciso di eliminare ogni riferimento ai massacri ottomani, sicché l’ultimo
riferimento a un più marginale “genocidio degli Armeni in Anatolia” fu
cancellato. Il Brandeburgo era infatti rimasto l’ultimo stato tedesco a parlare
di questo ‘olocausto’ in un testo scolastico.
Ma quale è attualmente la situazione
del popolo armeno residente entro i confini dello stato turco? Nel 1991 in seguito della
dissoluzione dell’Unione Sovietica, sulle ceneri dell’ex Repubblica Sovietica
Armena fu fondata la Repubblica Armena.
Il 90% della regione storica è comunque rimasto sotto il
controllo della Turchia che, oltre a non voler ammettere alcuna responsabilità
riguardo al genocidio, rifiuta categoricamente la restituzione anche parziale
dei territori da essa occupati. Nel 1989, ebbe inizio la sanguinosa guerra con
il vicino Azerbaigian per il controllo dell’Artzak (Nagorno-Karabach), enclave
armena in territorio azero, conflitto che si è concluso con l’acquisizione dell’indipendenza
della provincia cristiana. Recentemente, anche i rapporti tra curdi ed armeni
sembrano essere migliorati, in buona misura perché entrambe le minoranze si
sentono a tutt’oggi minacciate o discriminate da Ankara. Un discorso a parte
meritano i rapporti tra l’Armenia e l’Azerbaigian turcofono che risultano
sempre molto tesi a causa delle rivendicazioni azere sul territorio del neonato
stato di Artzak e per le rivendicazioni armene sul Nakitcevan provincia
affidata all’Azerbajan dal trattato russo-turco del 1921.
Lasciamo ora la parola a chi
sostiene – contrariamente a quanto detto dai commentatori “colpevolisti” - che la
Turchia sia invece pronta, o quasi, a farsi carico spontaneamente le sue colpe “storiche”,
andando così incontro alle esplicite richieste formulate dalla Unione Europea
circa il riconoscimento del “genocidio armeno”.
“Sarebbe fuorviante – sostiene Fabio Salomoni - trarre la
conclusione che la Turchia si rifiuti di mettere in discussione il proprio
passato. Da alcuni anni, in realtà, la società turca è impegnata nel difficile
compito di “confrontarsi con la propria storia”, con i tabù e le reticenze dell’ideologia
ufficiale non solo rispetto alla storia repubblicana, lontana e recente, ma
anche a quella ottomana. La questione armena rappresenta indubbiamente uno dei
nodi più resistenti e dolorosi da sciogliere: essa rappresenta “il buco nero
dell’identità repubblicana”, come ha scritto lo storico Taner Akcam. La messa
in discussione di questo tabù è già stata però avviata, seppure timidamente,
all’inizio del 2005, con una mostra ad Istanbul di 600 cartoline d’epoca:
esposizione che nelle intenzioni degli organizzatori aveva come obbiettivo quello
di “fare prendere gradualmente coscienza ai cittadini turchi di quanto vasta e
radicata fosse stata la presenza armena sul territorio ottomano”. Successivamente,
ad Istanbul, il primo ministro Erdoğan ha inaugurato un museo armeno. E da quel
momento il processo di “revisione storica” ha subito una notevole accelerazione.
In più occasioni, i canali televisivi del paese, compresa la tradizionalmente
ingessata tv di stato, hanno proposto trasmissioni dedicate alla questione
armena nella quale storici, giornalisti, opinion makers, intellettuali delle
più diverse posizioni ed orientamenti hanno avuto modo di confrontarsi e
scontrarsi in dibattiti interminabili. Una fibrillazione generalizzata – spiega
Salomoni - che non ha risparmiato nemmeno gli scaffali delle librerie. Accanto
agli inserti speciali di alcune riviste dedicati alla “tragedia armena”, tre
sono le iniziative editoriali che meritano di essere segnalate. La prima è rappresentata
dal volume “1915, che cosa è successo?”, libro che raccoglie le interviste
pubblicate sull’argomento dal popolare quotidiano di centro-destra Hurriyet.
Tra esse trovano posto quelle di intellettuali turchi e di esponenti della
comunità armena. Abbiamo avuto poi – prosegue Salomoni - un vero caso
editoriale rappresentato dal libro Anneannem (“Mia nonna”) che,
nonostante la scarsa pubblicità, ha raggiunto inattesi picchi di vendite. Si tratta
di un racconto autobiografico in cui Ferhiye Cetin affronta un aspetto fino ad
oggi poco noto della tragedia del 1915: il caso di decine di migliaia di
bambini armeni adottati da famiglie mussulmane e scampati al massacro. Da
segnalare, infine, M.K. Memorie della
deportazione un libro-intervista curato dal professor Baskin Oran, uno
degli intellettuali più esposti sul fronte della difesa delle minoranze. Tutte
queste riscoperte altro non sono che il prodotto della convergenza di elementi
diversi: il pluralismo prodotto dal processo di democratizzazione, le pressioni
dei paesi UE che si sono intensificate con il progredire del percorso europeo
della Turchia ed infine la ricorrenza, il 24 aprile, del 90° anniversario dei
fatti del 1915 e la conseguente rinnovata mobilitazione della diaspora armena
nel mondo. Un dibattito che ha però causato, nel passato ma anche nel presente, pesanti contraccolpi e
violente proteste da parte di una porzione consistente dell’opinione pubblica e
di non pochi uomini di cultura e politici, tra cui il Ministro della Giustizia
Cicek che accusò di “revisionismo” gli intellettuali e i giornalisti
impegnati nella riscoperta del genocidio dimenticato”.
[1] Dal 1894 al 1915 in Turchia si perpetuò
il “genocidio degli armeni”, la prima “pulizia etnica” del secolo, che causò la
morte di quasi due milioni di persone. Gli Armeni vivevano da millenni in un
territorio situato fra l’Eufrate e il Caucaso e, nonostante lunghi periodi di
sottomissione e divisione, costituivano un popolo molto compatto grazie alla
lingua comune (un ceppo indoeuropeo isolato), alla religione (un ramo del
cristianesimo, autocefalo dal VI secolo), alle antichissime tradizioni
culturali. Dall’inizio del XIX secolo furono divisi fra la Russia, l’impero ottomano e
l’Iran. La maggioranza si trovava sotto il dominio turco, dove, grazie ad una
tolleranza abbastanza diffusa verso le minoranze, visse un fiorente risveglio
culturale e avanzò alcune richieste di uguaglianza e maggiore libertà. Nel 1876
salì al trono il sultano Abdul Hamid, reduce da una grave sconfitta contro la Russia, profondamente
ostile alla minoranza armena. Fra il 1894 e il 1896 ebbe luogo il primo
massacro pianificato, che diede il via al progetto di eliminazione totale degli
Armeni dall’impero ottomano. In quegli anni si giunse dalle due alle
trecentomila vittime, alle quali si aggiunsero le numerose conversioni forzate
all’Islam e le centinaia di migliaia di esuli. Intanto il sultano Abdul Hamid
iniziò a perdere potere e essere criticato per le sue incapacità nel gestire
l’impero. In questo contesto si sviluppò il movimento del “panturanismo”, che,
ritenendo i Turchi superiori a tutti gli altri popoli, mirava alla loro unione
dal Bosforo alla Cina e all’eliminazione di tutti i popoli che fossero di
ostacolo a tale progetto. Nel 1908 scoppiò all’interno dell’impero la rivoluzione
guidata dal Comitato Unione e Progresso (Ittihad), ostile verso
il sultano, ma sulle sue stesse posizioni per quanto riguardava la questione
armena. Nell’aprile del 1909
in Cilicia due ondate
successive di massacri provocarono la morte di circa 30.000 persone. Nel 1913 i
Giovani Turchi a capo dell’Ittihad stabilirono una dittatura militare
diretta da Jemal, Enver e Talaat. Nel 1914 Enver sostenne l’entrata in guerra a
fianco delle Potenze Centrali contro Francia, Inghilterra e Russia. Nel 1915 il
disarmo dei soldati armeni dell’esercito ottomano fu un primo preoccupante
segnale. All’alba di sabato 24 aprile 1915 iniziò a Costantinopoli una
massiccia deportazione dei maggiori intellettuali armeni, che si concluse con
la loro uccisione nelle strade dell’Anatolia. Presto i massacri coinvolsero
l’intera popolazione armena su tutto il territorio dell’impero. Nel 1917 la Turchia lanciò un attacco
contro l’Armenia orientale, ma fu fermata da un’eccezionale mobilitazione
popolare. Nell’ottobre del 1918 qui venne fondata la prima “Repubblica
d’Armenia”. Intanto la fine della Prima Guerra Mondiale aveva sancito anche la
fine dell’impero ottomano. Il trattato di Sèvres dichiarò l’istituzione di uno
stato armeno indipendente e di un Kurdistan autonomo. Nonostante le premesse
favorevoli, il genocidio degli Armeni proseguì anche sotto la dirigenza di
Mustafa Kemal, che si concluse nel 1922 con l’incendio di Smirne, ultima tappa
di un massacro premeditato ed eseguito meticolosamente. Nel 1923 la Conferenza di Losanna annullò
gli accordi firmati a Sèvres: le parole “armeno” e “Armenia” furono cancellate,
come se non fossero mai esistite.
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