IL MONACO TOBOR
(Racconto tratto dalla raccolta 'L'Opportunità andalusa')
(Alberto Rosselli)
Non
si cela forse tra le pieghe di un grosso e tiepido fondoschiena l’ultima
traccia d’una prodigiosa intuizione e di un eroico pensiero di lotta perduti?
Non lievita forse in un deretano, pingue di noia e di volontà inespressa, il
vero e chiaro sintomo dell’arrendevolezza umana, come sostenne un tempo ormai
lontano il monaco Tobor, profeta fiammeggiante d’una teoria brillante ma per
lui sventurata e tale da rivoltargli contro l’odio dei suoi simili?
Correva
l’anno 1490, quando dalle piazze di Firenze s’alzò alto ed acuto un nuovo verbo
di speranza.
“Allora
io vi dico, amati fratelli miei, che lo più mortale peccato sta nel far
lievitare l’accidia al fondo de la schiena. Poiché la volontà, lo giusto
ardimento ed ogni lecita passione germogliare debbono fora dalle membra umane e
giammai depositarsi fra le basse carni, per la sola incapacità di realizzare
ogni più nobile desìo. Diffidate, dunque, de li culi d’homini abbondanti e
tiepidi che si scarrocciano, boriosi e supponenti, per gli antri del Potere e
del Saper dotto. Essi, infatti, tra le loro pieghe celano incapacità d’agire e
di pensare con coraggio, mollezza d’animo e malcelata inclinazione ad accettare
sconfitte e a soggiacere passivi al vento della vita”.
Si
trattava, come è facile intendere, di una vera e propria predica del demonio,
che pioveva sulle masse disorientate e che turbava nobili e notabili di tonde
ed agiate dimensioni. Queste parole, taglienti come lame, uscivano dalla
sottile bocca di un uomo in verità onesto e pio, vestito dell’umile saio di
frate pannone.
Durante
la sua vita, Tobor aveva studiato e viaggiato molto, prendendo accuratamente
nota di tutti gli innumerevoli vizi che affliggono i discendenti di Adamo.
Aveva anche peccato, come d’altra parte ogni saggio o santo deve ben fare per
meglio comprendere le debolezze dell’umana specie. Cresciuto nelle brumose
lande magiare, Tobor aveva sempre desiderato, fin da novizio, di ridare la
speranza ad ogni mortale animato da volontà e coraggio sinceri. Egli temeva
Dio, ma non certo quegli uomini che, all’ombra di Dio, in virtù di fragili
poteri o per codarda scelta, imponevano o subivano ogni sorta di pessimi
costumi.
Tobor
predicava ovunque, a dorso di mulo o dall’alto di pulpiti improvvisati. E le
sue parole, chiare e sincere, avevano l’effetto di scudisciate. “Sia
lapidato lo culone impaludato, sia esso villico, mercante o principe. Non
fidatevi de li grossi e flaccidi sederi che vi impongono d’imitar lor stessi.
Essi vi ingannano, per trasformavi in pecore atte solo al macello e non al
giusto pascolo!”.
Ce
n’era abbastanza per farsi impalare dai seguaci d’ogni fede.
“Smascherate
lo gran viso, posteriore e basso, de l’homo sanza ardore, e misurate in nodi lo
suo sedentario vizio”, gridava Tobor slacciandosi la corda della tunica
marrone e rincorrendo taluni passanti che egli afferrava e rivoltava come
sacchi scoprendo e strizzando loro le terga con la cinta segmentata di nodi,
onde valutare se queste ultime appartenessero o meno alla categoria ch’egli aborriva.
A
poche settimane dalla sua prima apparizione a Firenze, il misterioso monaco
venuto dall’Est era già diventato un pericoloso mito, temuto delle autorità
civili ed ecclesiastiche locali. Tobor aveva iniziato, infatti, a fare
proseliti e le sue prediche erano seguite da masse sempre più vaste ed assetate
di nuova verità.
Invitato
ad esporre le sue teorie in una disputa al cospetto del principe e del vescovo,
il monaco Tobor non si sottrasse al periglioso dibattito.
Dopo
ore ed ore di serrato e lucido monologo, ricco di dotte citazioni e di precisi
riferimenti scientifici e filosofici, le teorie di Tobor vennero confutate
dalle violente argomentazioni della commissione che, intravedendo in quel
monaco ruggente una reale insidia al Potere, lo esortarono senza mezzi termini
a rivedere le sue idee e soprattutto ad interrompere immediatamente le sue
prediche in pubblico, minacciandolo di pena di morte.
Tobor
cercò di difendersi strenuamente, assicurando circa le sue buone intenzioni.
Sulle prime si rifiutò di abiurare, ma alla fine, Frà Gelasio Minniti, il
superiore dell’Ordine al quale apparteneva Tobor - uomo che in cuor suo stimava
il coraggioso monaco - riuscì a convincerlo ad accettare un solitario ma
temporaneo esilio in Oriente, affinché questi potesse redimersi e mettere a
frutto tutto il suo innegabile ingegno per una più giusta causa.
“Va
tra gli infedeli a predicare semplicemente fede e virtù, e dimentica le tue
assurde e superbe teorie”, gli raccomandò l’alto prelato. E Tobor, dando
prova di umiltà, si inchinò al suo superiore abbandonando Firenze; non prima
però di aver abbracciato i suoi fedeli. “Li tempi, forse, non sono ancora
maturi per lo nostro predicare. Obbedite alli Comandamenti e attendete
fiduciosi il mio ritorno” si raccomandò ad essi in un breve ma commovente
discorso di commiato.
Da
quel momento, la vita e il destino del monaco pannone si fusero in una miriade
di strane leggende e frammentarie cronache.
Giunto,
dopo un lungo viaggio via mare e a dorso di quadrupede, a Tabriz, in Persia, il
monaco Tobor, assolse per qualche tempo e con zelo gli incarichi affidatigli,
utilizzando però parte del suo tempo per sviluppare ulteriormente e in modo
sistematico la teoria circa la possibilità di decifrare, attraverso le forme
del deretano, l’armonia o disarmonia dell’anima.
In
un suo scritto segreto, egli espose il concetto di “epifania dell’anima
incorporea nella materialità del deretano”, enunciando una grammatica utile
alla “lettura” dello stesso, servendosi di apposite tavole anatomiche disegnate
con scrupolo scientifico.
Il
deretano venne suddiviso da Tobor secondo una mappa le cui direttrici andavano
ad indicare sia i “vizi capitali” che le “virtù cardinali”. In questo modo, una
attaccatura ben alta del gluteo verso la regione lombare stava ad indicare la
forza interiore, mentre l’incavo, che forma il gluteo sul lato esterno del
deretano, segnalava un adesione concreta alla realtà. La mappa consentiva in
questo modo di evidenziare e diagnosticare gravi difetti dell’animo umano
attraverso la disposizione dell’adiposità. Il grasso accumulato poteva infatti
ragguagliare circa i più torbidi nascosti vizi “de lo peccatore”. Un
accumulo verso l’esterno della natica ne manifestava la superbia, mentre se il
lardo tendeva a cascare verso il basso lo studioso poteva dirsi certo di
trovarsi di fronte ad una spiccata tendenza alla viltà del soggetto analizzato.
Il
monaco pannone non si limitò, tuttavia, a stilare semplici, anche se precisi,
appunti sui suoi studi, ma buttò giù un vero e proprio trattato sull’argomento:
opera che si diffuse rapidamente giungendo per vie traverse perfino in
Occidente dove produsse un vero e proprio sconquasso. Soprattutto perché lo
scritto correva sul filo d’una logica ferrea e brillante, riflessa dalla tempra
lucida e pura del religioso. I riferimenti scientifici in esso contenuti
apparivano infatti inconfutabili perfino ai più scettici. Senza considerare che
un numero troppo elevato di potenti si riconoscevano, loro malgrado, nelle
tipologie viziose descritte dal monaco. Le femmine poi, nell’ombra discreta dei
confessionali, iniziarono a giustificare con motivazioni etiche l’interesse
estetico da esse sempre nascosto per le solide ed alte natiche del maschio.
Si
cercò allora di correre ai ripari e a Pavia un selezionato Consiglio di
Dottori, formato da ecclesiastici, sviscerò nel volgere di un mese tutta la
materia dello scandaloso studio, elaborando anche un documento di confutazione
dell’opera, privo però di reale efficacia. Il nocciolo della teoria toboriana
risultava infatti troppo solido per essere subissato da una lunga sequenza di
eruditi pretesti.
Ma
non sarebbe stata certo una pretestuosa polemica ad incrinare un siffatto
pensiero bensì, come spesso accade, soltanto il destino, che è un po’
l’intestino della Storia, a sancirne la fine e la messa in disgrazia.
Negli
ultimi due capitoli dell’opera del Tobor si nascondeva infatti l’anello debole
dell’intera teoria. Queste pagine, nate come semplice appendice, erano state in
seguito trattate da sprovveduti copisti ed inglobati erroneamente nel corpo del
trattato. In questa parte dello scritto, il monaco si interrogava per capire
quali potessero essere i rimedi immediati per prevenire con purghe, salassi e
clisteri adatti la sindrome culonica lieve e per debellare con la lama le forme
più gravi o recidive. A questo proposito, il frate individuava senza indugi
nella chirurgia la tecnica più efficace per ridurre o demolire i deretani più
ingombranti.
Al
fine di elaborare le giuste ricette e gli interventi più adatti, Tobor dovette
compiere un’indagine empirica sugli alimenti e sulla loro influenza sul fisico
e sul temperamento umano, non tralasciando analisi anatomiche dal vivo. E tutto
ciò lo portò a curiosare non tanto nei borghi ma nelle campagne, nelle radure e
nei boschi, dove venivano coltivati i prodotti della terra ed allevato il
bestiame. L’ultimo capitolo del trattato conteneva però una riflessione,
postuma alla prima stesura. Con essa, il pannone metteva in guardia i suoi
lettori da facili e pericolosi fraintendimenti. Era vero, precisava quel
saggio, che un deretano ben formato e asciutto, come quello di un atletico
fanciullo, andava studiato in quanto poteva rivelarsi il riflesso di un’anima
armonica e linda, ma era anche altrettanto vero quanto queste delicate analisi potessero
accendere in taluni scellerati un certo appetito sessuale, fuoco che nel monaco
si era ormai spento da molto tempo.
Ciononostante
fu proprio in quest’ultimo capitolo dell’opera che i potenti detrattori di
Tobor trovarono gli appigli necessari per accusare il monaco del più orrendo
dei delitti. Volle infatti il caso che, dovendo frequentare per motivi di
ricerca l’ambiente dei cacciatori di frodo, Tobor narrasse di avere incontrato
sul suo cammino uno di essi: un giovane, forte e coraggioso, dotato di un
deretano di tali perfette dimensioni da influenzare in seguito il genio del
Buonarroti.
Dando
prova di indubbia sincerità, ma anche di notevole imprudenza, l’incauto Tobor
riferì di essersi sentito inevitabilmente attratto dalle sembianze posteriori
di quel giovinetto che meglio di ogni altra cosa rappresentavano la
dimostrazione vivente e palese del suo ardito teorema.
Poco
tempo dopo, a quasi duemila leghe di distanza, il tonfo sordo e profondo di un
volume chiuso di colpo rimbombò nella sala del magistero di Pavia. E Joaquim
del Tortellada, il padre inquisitore incaricato dallo stesso Papa di indagare
sull’operato del monaco pannone, non ebbe più dubbi circa la colpevolezza
dell’inquisito. “Il nostro povero fratello Tobor ha imboccato la via senza
ritorno della perdizione. Egli non solo ha peccato d’orgoglio e di superbia, ma
si è pure macchiato di evidenti quanto innominabili crimini sessuali. Che sia
egli ricercato e condotto davanti al cospetto del Tribunale ecclesiastico”.
Questo
è quanto accadde in Italia e a completa insaputa del monaco che, nel frattempo,
aveva ripreso a predicare con successo in terra d’Oriente. Tobor era infatti un
uomo che sapeva farsi apprezzare anche all’estero. Accattivatosi le simpatie di
Mohamed Becciahz, il Pascià di Tabriz, egli venne ben presto nominato medico di
corte. Ma poco dopo la malasorte cominciò a perseguitarlo. Somministrata ad un
notabile una banale pozione contro la gotta, il paziente presto peggiorò,
rischiando la morte. Del fatto ne approfittò subito un perfido medico siriaco
che accusò il monaco cristiano di veneficio. Il Pascià, sebbene incerto circa
la colpevolezza di Tobor, si fece condizionare, condannando il taumaturgo alla
dolorosissima pena della bastonatura delle piante dei piedi.
Rimessosi
dall’ingiusta punizione, Tobor viene esiliato per un anno. Costretto a riparare a Barzhani, nella montuosa regione
del Droghestan, dove trovò ospitalità nel remoto monastero ortodosso di
Melchiorre Cerotti, un abile speziale che nutriva molta stima nei confronti del
perseguitato monaco pannone, Tobor passò molti mesi in meditazione ed in attesa
della sua riabilitazione. Egli voleva infatti rientrare a Tabriz e proseguire
nei suoi studi. Ricevette infine il perdono dal Pascià, ma quando il monaco
fece rientro in città venne a sapere che questi era nel frattempo deceduto per
aver ingerito una pozione al mercurio preparata dall’incompetente medico
siriaco. Tuttavia, Tobor venne accolto con tutti gli onori dal successore di
Becciazh, che si chiamava Gennaro. Il nuovo sovrano si rivelò essere un uomo
saggio, ospitale e di larghe vedute. Aveva provveduto egli stesso a fare
avvelenare il suo predecessore dal medico orientale, decapitando poi anche
quest’ultimo.
Gennaro
si affidò a Tobor, ma il monaco, per prudenza, si limitò a curargli soltanto
lievi malesseri. Il Pascià gli concesse la cattedra di chirurgia della locale
scuola di medicina, e gli consentì perfino di approfondire e predicare - entro
certi limiti - la sua dottrina e le sue teorie. Tobor ottenne infatti una
scorta armata, un assistente e una tunica con un cordone nodato per effettuare,
su tutto il territorio posto sotto la giurisdizione di Gennaro, misurazioni dei
fondoschiena degli appartenenti alla comunità ebraica.
Ma
la gloria durò poco. Un crudele quanto ostinato destino attendeva al varco il
monaco pannone.
Il
Patriarca d’Oriente, cui erano giunte le conclusioni dei dottori cattolici, con
i quali non intendeva entrare in rotta di collisione, aiutò il prelato francese
Henri-Marie Pollion - braccio destro di Tortellada - a mettersi sulle tracce di
Tobor per ricondurre questi in Occidente. Il Pollion - che nel frattempo era
riuscito a corrompere con una forte somma di denaro il Pascià Gennaro - si
presentò al cospetto del monaco pannone. Lo scontro tra i due fu inevitabile.
Con la complicità di alcuni notabili orientali, invidiosi del frate magiaro, il
Pollion, dopo avere accusato Tobor di sodomia, gli ingiunse di rientrare in
Europa. Con uno stratagemma e con il segreto aiuto del suo fedele assistente, Tobor
riuscì però a fuggire.
Dopo
avere trascorso un altro anno in meditazione in una grotta del Droghestan, il
monaco, ormai stanco delle continue persecuzioni, decise di far fronte al
proprio destino e di fare ritorno in Europa per liberarsi da quelle assurde
calunnie. Scrisse quindi a Budapest e a Pavia chiedendo ai suoi superiori e
alle più alte cariche ecclesiastiche di potersi discolpare davanti ad uno
speciale tribunale della fede.
Si
imbarcò a Sindone per Venezia, ma giunto nella città lagunare venne a sapere
che il suo Ordine, pressato dal Tribunale dell’Inquisizione, lo aveva
abbandonato e che de Tortellada e Pollion stavano organizzando per lui una
trappola senza scampo. Infuriato, il monaco ritrovò allora l’ardore che
sembrava averlo abbandonato. Sorretto da una rinnovata, ferrea volontà e dai
discreti aiuti di frate Girolamo Stoppani - un pio ed illuminato predicatore
che egli aveva conosciuto e curato per una dolora fistola anale durante il suo
travagliato soggiorno in Oriente - Tobor decise di raggiungere egualmente
Budapest, travestito da mercante veneto. Dopo mille peripezie, il monaco riuscì
a farsi ricevere da Frà Sebastiano Molnar, un colonnello del suo Ordine che un
tempo gli era amico e, dopo un drammatico colloquio, ottenne da questi la promessa
del perdono, in cambio della sua rinuncia definitiva ad ogni ulteriore ricerca
o predica non conformi all’ortodossia.
Il
monaco accettò pure di essere assegnato alla biblioteca del convento di
Budapest, situato a pochi passi dal Danubio.
Per
i primi tempi Tobor si mantenne quieto. Poi, un giorno, fece domanda per essere
secolarizzato e per intraprendere la professione di chirurgo. La richiesta
viene respinta dal Molnar. Il monaco chiese allora di essere inquadrato nel
laboratorio degli speziali dell’Ordine, ma anche questo suo desiderio non venne
esaudito. Gli concessero tuttavia di trasferirsi da Budapest a Gulash, per
mettersi a disposizione di frate Antonello da Garza, noto taumaturgo ligio
all’ortodossia. A fianco di questi, Tobor lavorò alacremente alla stesura di un
brillante trattato di foruncolosi gluteale, non ottenendo però alcun
riconoscimento da parte dei superiori e della locale Facoltà di Medicina. Il
mondo dei dotti lo aveva completamente isolato. Avvilito, il monaco chiese
nuovamente ai suoi superiori di Budapest, e persino a Roma, di essere sciolto
dai voti, ma ovviamente la sua richiesta venne respinta. In preda ad una
violenta crisi depressiva, Tobor compì infine il folle gesto atteso da tutti i
suoi nemici. In una fredda notte di inverno fuggì dal convento travestito da
suora. E sotto queste mentite spoglie compì un lungo viaggio. Toccò Vienna
Basilea, Lione, Livorno Napoli dove, tra l’altro, fece amicizia con i Voiello
ai quali consegnò una sua nuova formula per la fabbricazione della pasta
integrale anticellulitica. Poi si imbarcò su una caracca di
contrabbandieri amalfitani alla volta di Trebisonda, sul Mar Nero.
Qui, l’ex monaco pannone si trasformò in profeta mago. Indossato uno
strano abito di foggia turca, strabiliò le masse anatoliche maneggiando tizzoni
e monete ardenti e cavando chiodi aguzzi dalle orecchie e dai nasi di notabili
e pirati. Frantumò macigni con la sola forza del pensiero, disegnò e confezionò
indumenti intimi maschili in legno atti al contenimento forzato delle adiposità
del fondoschiena, e divulgò per una seconda volta il poderoso trattato “Lo
Vizio Posteriore”, ormai introvabile.
Sebbene
perseguitato, il monaco ottenne vasti consensi da parte delle masse affamate e
degli asceti.
E
radunata una minuta ma fidata schiera di seguaci appartenenti a tutte le razze
e religioni, Tobor organizzò una pazzesca spedizione per liberare il mondo
occidentale dall’“accidia culonica”.
Questa
Specie di crociata, ignorata da quasi tutti i testi, non ricevette ovviamente
alcun appoggio o finanziamento da parte di alcun potente.
La
piccola, pacifica ma compatta schiera lasciò Sinope a bordo di un malandato
veliero genovese preso in nolo e fece rotta verso l’Italia.
Sbarcato
a Follonica, tra le ali di una folla di pescatori curiosi, Tobor riordinò i
suoi ranghi e si mise in marcia verso Firenze seguito - secondo le cronache
dello Scortecci - da “novanta ardimentosi e folli morituri con in pugno
stendardi inneggianti all’homo novo e numerosi cordoni annodati atti alla
misurazione delli deretani”.
Lungo
la via del Chianti, il monaco fiammeggiante cercò inutilmente di far proseliti,
poiché il popolo, già sobillato dai nobili e dai vescovi, lo prese subito per
folle, apostrofandolo con calunniosi insulti, il più frequente dei quali fu “bucaiolo!”.
Giunse infine alle porte di Firenze, ormai mobilitata per respingere e la
pericolosa eresia.
Sceso
di groppa dal suo mulo, Tobor lesse un proclama alla cittadinanza. Era solo
sotto le alte mura, poiché aveva dato ordine ai suoi fedeli di stare indietro,
in duplice fila longobarda, per non allarmare i fratelli toscani.
Il
monaco pronunciò un nobile discorso all’insegna dell’amore. Spiegò le ragioni
della sua lotta, perdonò i suoi persecutori e chiese alle autorità che gli
venisse concesso di fondare il pacifico “Ordine della Corda”. Ma i
nobili e gli ecclesiastici respinsero sprezzanti ogni tentativo di
conciliazione, dando mano libera alle loro truppe.
Le
potenti schiere della città compirono una sortita e travolsero con estrema
facilità l’esigua e disarmata schiera toboriana, annientandola e non facendo
prigionieri. Nessuno rimase in vita. E soltanto il monaco ribelle venne
risparmiato e catturato. Incatenato come un animale feroce, Tobor fu condotto
nelle orribili segrete di una prigione e costretto con atroci torture ad
abiurare. Il monaco, seppure stremato, rifiutò di abdicare alla sua coscienza,
preferendo salire sul patibolo. L’eroico pannone morì così sul rogo il primo
febbraio del 1510. E le sue ceneri, raccolte in un sacco di iuta, vennero sparse
nelle acque dell’Arno.
All’indomani
dell’esecuzione, le autorità civili ed ecclesiastiche emanarono un editto con
il quale veniva inflitta la ruota e poi il rogo a chiunque fosse stato trovato
in possesso del trattato del monaco. E quindi nel volgere di pochi anni non si
trovò più traccia dell’importante manoscritto.
Oggi,
a distanza di secoli, nulla infatti è rimasto della geniale intuizione del
martire. Lo scintillìo di quel cristallo puro di rocca che doveva sciogliere
nodi filosofici e morali sui quali molti scienziati continuano ad interrogarsi
venne distrutto precocemente perché smettesse di brillare e fare luce sulla
verità. Ma forse fu un bene perché già dai primi anni della predicazione del
monaco stava purtroppo diffondendosi, come spesso accade, da parte di praticoni
e maghi, una bieca contraffazione di quella giusta dottrina, dando
l’opportunità ai disonesti e ai lussuriosi di farsi promotori di analoghe
ricerche e sperimentazioni sulle terga umane: giammai in buona fede e meno che
mai per scelta etica.
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