UN MARE DI GUAI
di Alberto Rosselli
Fino dall’antichità i naviganti hanno sempre cercato di ingraziarsi
il mare. Il mare, infatti, è sempre stato considerato da molti popoli una
capricciosa e talvolta crudele divinità che andava placata e blandita con doni
e gesti, molti dei quali sono sopravvissuti nella memoria collettiva. I marinai
egizi e greci usavano decorare le prore delle loro navi con il vello di un’animale
sacrificale, dopo averle asperse di sangue: ritualità dalla quale è in seguito
derivata l’usanza di collocare a prua delle navi una meno cruenta scultura in
legno (la polena) raffigurante fanciulle o figure sacre o mitologiche. Anche se
ancora oggi in alcuni porti italiani è possibile intravedere inchiodati agli
alberi dei pescherecci corna di capra o di toro e perfino pelli di capra. A
Torre del Greco, patria degli ultimi grandi maestri d’ascia, è possibile
scovare imbarcazioni sulle cui prore viene collocata una croce con affisso il
nome del santo o della santa prediletta dall’armatore. In Sicilia, presso
alcuni cantieri navali, sussiste ancora l’usanza di inserire una medaglietta
dorata con l’effigie di un santo nella struttura della barca, ponendola in uno
spazio ricavato apposta nell’incastro tra la chiglia e il dritto di prora. Stesso
discorso vale per i retaggi degli occhi benefici dipinti in epoca egiziana (e
poi ellenica) sulle prore. Si trattava di simboli apotropaici molto antichi
capaci di scongiurare disgrazie e tenere lontano il malocchio. Bene, ancora
oggi, in molte parti del globo, questa usanza continua a mantenersi in voga:
segno indelebile dello spirito scaramantico che ha sempre accomunato le genti
di mare. Ma non è tutto, in antichità, come si è detto, si usava decorare le
prore delle navi con il sangue dell’animale offerto in sacrificio: pratica
dalla quale è derivata l’abitudine di dipingere di rosso (ma con comune pittura
sintetica antivegetativa “sangue di bue”)
l’opera viva delle imbarcazioni. E dal sangue passiamo al vino. Forse in epoca
romana venne abbandonata la tradizionale aspersione di sangue sulle prore delle
navi al varo, sostituendola con del vino rosso: pratica che in epoca
contemporanea iniziò ad essere compiuta tramite il lancio della tradizionale
bottiglia di champagne. Anche se gli
avvenimenti degli ultimi anni vedono quasi completamente smentita la diceria
che le donne a bordo portino sfortuna, nella tradizione marinara di molti
popoli questo pregiudizio continua a rivelarsi profondamente radicato. Secondo antiche
leggende risalenti all’epoca greco-romana, supportate da una successiva e vasta
letteratura popolare, il gentil sesso a bordo menerebbe infatti gramo in quanto
presenza naturalmente avversa alla barca, intesa come entità dotata di una
propria anima e coniugata per fato all’uomo. Sembra però che le origini di questa
misoginia in salsa marinara siano da collegare al fatto che la donna essendo
soggetta al ciclo mestruale potesse macchiare e rendere impuro il “legno”. Anche
per questa ragione, l’unica figura femminile a potere prendere posto sulle navi
fu per molti secoli la madonna in effige lignea. L’immagine della vergine, densa
di significati sacrali, avrebbe avuto infatti il compito di allontanare
sciagure e jella. Anche se ancora oggi, in alcuni paesini della costa greca e
calabrese, i pescatori inducono le vergini ad andare sulla riva del mare e a
cercare di placare la furia delle trombe marine o il mare grosso mostrando a
Poseidone il proprio sesso. Non a caso, una leggenda narra che il dio del mare,
in un accesso d’ira, scatenò una violenta tempesta, minacciando la distruzione
di una città calabra che venne salvata grazie allo strip-tease di un gruppo di
avvenenti fanciulle. Terrorizzato (chissà poi perché) da quella visione sembra
che Poseidone se la sia data a gambe. Questa singolare ritualità è peraltro
testimoniata dal ritrovamento di una statuetta in bronzo del V secolo,
conservata al museo di Gela, che rappresenta una donna nell’atto di mostrare la
propria intimità alle onde. Questo spiegherebbe anche perché le polene
rappresentino spesso figure femminili. Come è noto, cambiare il nome a una
barca è considerato dai marinai di tutto il mondo un atto da evitare, in quanto
ogni imbarcazione possiederebbe un’anima. E privare un “legno” del suo nome
originale significherebbe quindi sottrargli lo spirito. Comunque sia, l’antica
sapienza marinara ha escogitato alcuni rimedi atti a rendere possibile il
cambio di nome senza incorrere in peccato e quindi in sfortune di varia natura.
Prima di procedere al nuovo battesimo, è necessario fare sturare una bottiglia
di vino rosso da una donna vergine e farne aspergere il contenuto sulla prora e
poi fare riposare a terra l’imbarcazione per la stagione invernale, sfruttando
magari il rimessaggio: espediente utilizzato nella speranza che la barca
dimentichi il vecchio nome e non si accorga che qualcuno a sua insaputa glie ne
ha affibbiato uno nuovo. Rimesso in mare, il “legno” viene portato a fare rotta
di scongiuro in modo tale da tagliarla per sette volte. Prima di tutto ciò i
marinai debbono però avere provveduto ad altre procedure collaterali quali il
dipingere il vecchio nome sottocoperta, sostituire un chiodo alla chiglia e
collocare una moneta sotto l’albero maestro come facevano i romani. Ma attenzione
però. Se l’albero è in alluminio, la moneta dovrà essere isolata magneticamente.
Pena un mare di guai.
Nessun commento:
Posta un commento