IL DRAMMATICO ENIGMA SIRIANO
di
Alberto Rosselli
La Siria è in
fiamme e dal Paese mediorientale sconvolto dalla ribellione antigovernativa, è
iniziato da tempo l’esodo dei profughi verso la Turchia. Sono già oltre 2.900,
secondo i resoconti dell’Alto Commissariato per i Rifugiati dell’ONU, i
profughi siriani espatriati in Anatolia meridionale e fatti accampare in buona
percentuale nella tendopoli di Yayladagi (a circa 10 chilometri dal
confine). Molti dei profughi erano in fuga da Jirs al-Shughour (cittadina
siriana ubicata nella zona nord-occidentale), dove nelle settimane scorse si sono
verificati violenti scontri nel corso dei quali hanno perso la vita 125 soldati
dei reparti di sicurezza impegnati contro i ribelli nel tentativo di riprendere
il controllo del centro. Elevate, ma non esattamente quantificabili, sono state
le perdite tra la popolazione civile e i manifestanti. L’accoglienza offerta da
Ankara agli scampati ha provocato un inevitabile raffreddamento diplomatico tra
Turchia e Siria, Paesi tra i quali, almeno fino a poco tempo fa, intercorrevano
buoni rapporti, derivanti soprattutto dall’inasprimento delle relazioni tra lo
Stato anatolico e Israele, nemico storico della Siria, anche per l’irrisolta
questione del Golan. L’8 giugno scorso, il Primo ministro turco Recep Tayyp
Erdogan ha dichiarato a chiare lettere che la Turchia “non chiuderà mai le sue
porte” davanti ai fuggitivi, e ha esortato il presidente Bashar al-Assad a
“cambiare la sua attitudine nei confronti dei civili”. Nel campo di Yayladagi
squadre di soccorso della mezzaluna hanno fornito assistenza ai fuggitivi,
trasferendo i molti feriti da arma da fuoco presso l’ospedale di Antakya. A
Jirs al-Shughour, teatro di violenti scontri tra ribelli e polizia siriana, sembra
che una parte delle forze di sicurezza si sarebbe rifiutata di aprire il fuoco
sui civili, mentre l’esercito avrebbe invece sparato su di loro: ma si tratta
di sole voci, in quanto il regime di Assad non ha consentito ai giornalisti
stranieri di sbarcare in Siria. La permanente e sostanziale scarsità di notizie
circa la rivolta siriana è stata resa ancora più acuta dalle iniziative prese
da Ankara. A Yayladagi, la polizia turca di confine continua ad impedire ai
reporter provenienti dalla capitale di entrare nel campo profughi e di
intervistare gli scampati. In questi ultimi giorni - stando alle notizie
governative e a quelle diramate da ‘Mezzaluna Rossa’ - “il flusso degli
sfollati siriani sembra avere assunto le sembianze di un esodo di massa, sia in
direzione della Turchia che del Libano, dove si sono già rifugiati 6.000
profughi”, mettendo in crisi la struttura di Yayladagi, che non è in grado di
accogliere più di 5.000 persone. Da parte sua, alcune settimane fa, il
presidente siriano Assad – preoccupato per l’andamento della sommossa popolare
che ha coinvolto oltre Jirs al-Shughour anche le località di Deraa, Rastan e
Talbisa - avrebbe offerto l’amnistia a membri della setta dei Fratelli
Musulmani (organizzazione considerata fuorilegge), e alcune concessioni circa
la libertà di espressione e contestazione pacifica che, tuttavia, l’opposizione
al regime (la quale ha denunciato l’uccisione, nell’arco di un mese e mezzo, di
oltre 15.000 manifestanti, e l’arresto arbitrario di altri 13.000) avrebbe
giudicato come del tutto insufficienti e tardive. Come ha affermato Abdel Razak
Eid, attivista del gruppo della “Dichiarazione di Damasco”, “la mossa del
leader Assad starebbe a dimostrare tutta la debolezza di un regime prossimo al crollo
ed ormai isolato, sia da molti Paesi musulmani che dall’Occidente e dagli Stati
Uniti”. Come sta accadendo in Libia e nello Yemen, Paesi anch’essi in stato di
collasso o fibrillazione, il futuro della Siria rimane un enigma oscuro. Ci si
domanda, infatti, quali forze politiche – in caso di caduta di questi regimi –
prenderanno le redini dei governi ed in quale modo intenderanno’riformare’ i
Paesi di riferimento. Si può azzardare e temere, a questo proposito e sulla
scorta delle varie ribellioni che hanno sconvolto diversi stati musulmani nel
secondo dopoguerra (come Egitto, Libia, Irak, Iran e Sudan), che la ‘medicina’
possa rivelarsi alla fine peggiore della ‘malattia’. Staremo a vedere.
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