lunedì 30 luglio 2012

SE VUOLE ENTRARE IN EUROPA LA TURCHIA DEVE RICONOSCERE IL GENOCIDIO ARMENO


Bambino armeno (1915)
 
 
SE VUOLE ENTRARE IN EUROPA
LA TURCHIA DEVE RICONOSCERE IL GENOCIDIO ARMENO

di Alberto Rosselli

Il governo di Ankara, come è noto, non sembra intenzionato - almeno allo stato attuale - ad ammettere che tra il 1915 e il 1918 circa 1.000.000/1.500.000 (a seconda delle fonti) cristiani armeni furono massacrati dalle milizie turche: rifiuto che non è stato bene accolto da diversi paesi membri dell’UE, prima fra tutti la Francia che, nel maggio del 1998, attraverso l’Assemblea Nazionale, riconobbe ufficialmente il genocidio degli armeni del 1915, mandando su tutte le furie il governo di Ankara. Questo infatti controbatté, seppure in maniera un po’ troppo ragionieristica, che il “genocidio altro non fu che una farsa propagandistica, in quanto le vittime della repressione del ‘15 non superarono le 300.000 unità”[1]. Sempre nell’estate del 1998, la Lega Nord propose al parlamento italiano il riconoscimento del genocidio armeno, ma soltanto 145 parlamentari decisero di sottoscrivere il documento.
Per chiarezza ricordiamo che con l’espressione “genocidio armeno” o “massacro degli armeni” (in lingua armena Medz Yeghern, “grande male”) ci si riferisce a due eventi distinti ma legati fra loro: il primo, relativo alla campagna contro gli armeni condotta dal sultano ottomano Abdul Hamid II negli anni 1894-1896; il secondo, collegato alla deportazione ed eliminazione degli armeni progettata e portata a compimento dallo stato maggiore del Comitato di Unione e Progresso nel periodo compreso tra il 1915 e il 1918. Nel 1890, nell’impero ottomano si contavano circa 2,5 milioni di armeni, in maggioranza cristiani orientali o cattolici. Questa minoranza era sostenuta dalla Russia zarista sia per la “vicinanza” religiosa sia, e soprattutto, perché il governo di San Pietroburgo sperava, anche mediante il concorso armeno, di indebolire ulteriormente l’impero ottomano per annetterne territori ed appropriarsi, se possibile, dell’area nevralgica degli Stretti. Con lo scopo di reprimere il movimento autonomista armeno, che nel frattempo era sceso in campo con varie formazioni politiche, anche armate, verso la fine del XIX secolo il governo della Sacra Porta ricorse alla forza bruta, incoraggiando anche i curdi, con i quali gli armeni condividevano parte dell’Armenia storica, a molestare e saccheggiare impunemente le comunità cristiane. Questo stato di cose esasperò a tal punto gli armeni che, nel 1894, essi tentarono di ribellarsi, venendo però schiacciati dalle milizie ottomane e curde. Ma, come si è detto, fu tra il 1915 e il 1918 che la persecuzione contro gli armeni raggiunse dimensioni tali da fare parlare di vero e proprio genocidio: un massacro organizzato, condotto e gestito con agghiacciante zelo e rigore scientifico.
All’inizio del 1915, nel corso di una riunione segreta del Comitato di Unione e Progresso indetta per pianificare lo sterminio degli armeni, il segretario esecutivo Nazim concluse con queste parole i lavori dell’assemblea: “Siamo in guerra, e non potrebbe verificarsi un’occasione migliore per eliminare tutta la popolazione armena. In un momento come questo è estremamente improbabile che vi siano interventi da parte delle grandi potenze e proteste da parte della stampa”. Un altro dei presenti, Hassan Fehmin, aggiunse poi. “Siamo nelle condizioni ideali per spedire sul fronte caucasico tutti gli armeni in grado di imbracciare un fucile. Una volta dispiegati potremo intrappolarli e annientarli con facilità, chiusi come saranno tra le forze russe che si troveranno davanti e le forze speciali che piazzeremo alle loro spalle”. Sempre nel corso della seduta il Comitato decise di affidare la gestione della “questione armena” ad una speciale commissione formata dal segretario esecutivo Nazim, da Behaettin Shakir e dal ministro della Pubblica Istruzione, Shoukri, sotto il diretto controllo di Taalat Pascià. La commissione istituì a sua volta la cosiddetta “Organizzazione Speciale” (la Teshkilate Makhsusa), una milizia formata in buona misura da ex detenuti ai quali fu promessa la libertà in cambio di criminali servigi. Da quella data, fino alla resa dell’impero ottomano, l’esercito e le milizie turche e curde si distinsero nel portare a compimento persecuzioni, deportazioni e massacri così efferati da potere essere paragonati a quelli che in seguito verranno organizzati dalle autorità naziste e sovietiche.
“L’Unione Europea – rammenta il giornalista Filippo Facci - ha posto il riconoscimento del genocidio da parte della Turchia come prioritaria condizione perché quest’ultima entri in Europa, ed è un fatto importante: anche se una mozione analoga fu invero promossa dal Parlamento Europeo già nel 1987, ed una analoga fu approvata dal Parlamento italiano nel 2001, anche se Russia, Argentina, Bulgaria, Cipro, Grecia, Belgio e soprattutto Francia hanno da tempo riconosciuto quella che non è una leggenda nera (…). Si parla del primo ed acclarato genocidio del Novecento con un milione e mezzo di cristiani armeni sterminati in quanto armeni, ciò che ispirò Adolf Hitler, quando in un celebre discorso del 22 agosto 1939 disse che si poteva invadere la Polonia e massacrarne il popolo senza preoccuparsi delle conseguenze: “Chi mai ricorda oggi - si chiese - dei massacri degli Armeni?”. Ma a muoversi sulla pista francese è stato anche il Vaticano. Il 9 novembre 2000, Giovanni Paolo II ricevette il patriarca armeno Katholicos Karenin e sottoscrisse un comunicato di denuncia delle persecuzioni subite dagli armeni a causa della propria fede cristiana. In quell’occasione il papa disse che “fu proprio il genocidio degli armeni a fare da prologo agli orrori che sarebbero seguiti”. E nel corso della sua successiva visita in Armenia, nel settembre del 2001, il Giovanni Paolo II volle rendere omaggio alle vittime del massacro sostando in preghiera nel mausoleo di Tzitzernagaberd, ad Erevan, e domandandosi con sgomento “come il mondo abbia potuto assistere ad aberrazioni tanto disumane”.
La reazione della Turchia alle dichiarazioni del pontefice furono a dire poco sprezzanti ed irriguardose. Il principale quotidiano turco, il Milliyet, scrisse che il papa “non era più in grado di intendere e di volere”, mentre altri giornali vicini all’organizzazione dei cosiddetti Lupi Grigi, lamentarono che Ali Agca non fosse riuscito nel suo intento. Ciò non impedì tuttavia a Giovanni Paolo II di visitare l’Armenia e di elevare all’onore degli altari l’arcivescovo Ignazio Maloyan, vittima egli stesso del genocidio. (…) A ben vedere, lo sterminio degli armeni resta un “olocausto dimenticato” e protervamente negato, e non solo dai turchi. Ancora oggi gli Stati Uniti non ne vogliono sentire parlare. Una decina di anni fa, un documento del Congresso che prevedeva il riconoscimento del genocidio fu ritirato dietro pressioni dell’allora presidente democratico Clinton. Per sconcertante che sia – osserva Facci - il genocidio non è solo completamente assente dai libri di scuola turchi, ma anche da quelli tedeschi”.
Alcuni anni fa, il quotidiano tedesco Die Welt annunciò che il Brandeburgo aveva deciso di eliminare ogni riferimento ai massacri ottomani, sicché l’ultimo riferimento a un più marginale “genocidio degli Armeni in Anatolia” fu cancellato. Il Brandeburgo era infatti rimasto l’ultimo stato tedesco a parlare di questo ‘olocausto’ in un testo scolastico.

Ma quale è attualmente la situazione del popolo armeno residente entro i confini dello stato turco? Nel 1991 in seguito della dissoluzione dell’Unione Sovietica, sulle ceneri dell’ex Repubblica Sovietica Armena fu fondata la Repubblica Armena. Il 90% della regione storica è comunque rimasto sotto il controllo della Turchia che, oltre a non voler ammettere alcuna responsabilità riguardo al genocidio, rifiuta categoricamente la restituzione anche parziale dei territori da essa occupati. Nel 1989, ebbe inizio la sanguinosa guerra con il vicino Azerbaigian per il controllo dell’Artzak (Nagorno-Karabach), enclave armena in territorio azero, conflitto che si è concluso con l’acquisizione dell’indipendenza della provincia cristiana. Recentemente, anche i rapporti tra curdi ed armeni sembrano essere migliorati, in buona misura perché entrambe le minoranze si sentono a tutt’oggi minacciate o discriminate da Ankara. Un discorso a parte meritano i rapporti tra l’Armenia e l’Azerbaigian turcofono che risultano sempre molto tesi a causa delle rivendicazioni azere sul territorio del neonato stato di Artzak e per le rivendicazioni armene sul Nakitcevan provincia affidata all’Azerbajan dal trattato russo-turco del 1921.

Lasciamo ora la parola a chi sostiene – contrariamente a quanto detto dai commentatori “colpevolisti” - che la Turchia sia invece pronta, o quasi, a farsi carico spontaneamente le sue colpe “storiche”, andando così incontro alle esplicite richieste formulate dalla Unione Europea circa il riconoscimento del “genocidio armeno”.
“Sarebbe fuorviante – sostiene Fabio Salomoni - trarre la conclusione che la Turchia si rifiuti di mettere in discussione il proprio passato. Da alcuni anni, in realtà, la società turca è impegnata nel difficile compito di “confrontarsi con la propria storia”, con i tabù e le reticenze dell’ideologia ufficiale non solo rispetto alla storia repubblicana, lontana e recente, ma anche a quella ottomana. La questione armena rappresenta indubbiamente uno dei nodi più resistenti e dolorosi da sciogliere: essa rappresenta “il buco nero dell’identità repubblicana”, come ha scritto lo storico Taner Akcam. La messa in discussione di questo tabù è già stata però avviata, seppure timidamente, all’inizio del 2005, con una mostra ad Istanbul di 600 cartoline d’epoca: esposizione che nelle intenzioni degli organizzatori aveva come obbiettivo quello di “fare prendere gradualmente coscienza ai cittadini turchi di quanto vasta e radicata fosse stata la presenza armena sul territorio ottomano”. Successivamente, ad Istanbul, il primo ministro Erdoğan ha inaugurato un museo armeno. E da quel momento il processo di “revisione storica” ha subito una notevole accelerazione. In più occasioni, i canali televisivi del paese, compresa la tradizionalmente ingessata tv di stato, hanno proposto trasmissioni dedicate alla questione armena nella quale storici, giornalisti, opinion makers, intellettuali delle più diverse posizioni ed orientamenti hanno avuto modo di confrontarsi e scontrarsi in dibattiti interminabili. Una fibrillazione generalizzata – spiega Salomoni - che non ha risparmiato nemmeno gli scaffali delle librerie. Accanto agli inserti speciali di alcune riviste dedicati alla “tragedia armena”, tre sono le iniziative editoriali che meritano di essere segnalate. La prima è rappresentata dal volume “1915, che cosa è successo?”, libro che raccoglie le interviste pubblicate sull’argomento dal popolare quotidiano di centro-destra Hurriyet. Tra esse trovano posto quelle di intellettuali turchi e di esponenti della comunità armena. Abbiamo avuto poi – prosegue Salomoni - un vero caso editoriale rappresentato dal libro Anneannem (“Mia nonna”) che, nonostante la scarsa pubblicità, ha raggiunto inattesi picchi di vendite. Si tratta di un racconto autobiografico in cui Ferhiye Cetin affronta un aspetto fino ad oggi poco noto della tragedia del 1915: il caso di decine di migliaia di bambini armeni adottati da famiglie mussulmane e scampati al massacro. Da segnalare, infine, M.K. Memorie della deportazione un libro-intervista curato dal professor Baskin Oran, uno degli intellettuali più esposti sul fronte della difesa delle minoranze. Tutte queste riscoperte altro non sono che il prodotto della convergenza di elementi diversi: il pluralismo prodotto dal processo di democratizzazione, le pressioni dei paesi UE che si sono intensificate con il progredire del percorso europeo della Turchia ed infine la ricorrenza, il 24 aprile, del 90° anniversario dei fatti del 1915 e la conseguente rinnovata mobilitazione della diaspora armena nel mondo. Un dibattito che ha però causato, nel passato ma anche nel presente, pesanti contraccolpi e violente proteste da parte di una porzione consistente dell’opinione pubblica e di non pochi uomini di cultura e politici, tra cui il Ministro della Giustizia Cicek che accusò di “revisionismo” gli intellettuali e i giornalisti impegnati nella riscoperta del genocidio dimenticato”.


[1] Dal 1894 al 1915 in Turchia si perpetuò il “genocidio degli armeni”, la prima “pulizia etnica” del secolo, che causò la morte di quasi due milioni di persone. Gli Armeni vivevano da millenni in un territorio situato fra l’Eufrate e il Caucaso e, nonostante lunghi periodi di sottomissione e divisione, costituivano un popolo molto compatto grazie alla lingua comune (un ceppo indoeuropeo isolato), alla religione (un ramo del cristianesimo, autocefalo dal VI secolo), alle antichissime tradizioni culturali. Dall’inizio del XIX secolo furono divisi fra la Russia, l’impero ottomano e l’Iran. La maggioranza si trovava sotto il dominio turco, dove, grazie ad una tolleranza abbastanza diffusa verso le minoranze, visse un fiorente risveglio culturale e avanzò alcune richieste di uguaglianza e maggiore libertà. Nel 1876 salì al trono il sultano Abdul Hamid, reduce da una grave sconfitta contro la Russia, profondamente ostile alla minoranza armena. Fra il 1894 e il 1896 ebbe luogo il primo massacro pianificato, che diede il via al progetto di eliminazione totale degli Armeni dall’impero ottomano. In quegli anni si giunse dalle due alle trecentomila vittime, alle quali si aggiunsero le numerose conversioni forzate all’Islam e le centinaia di migliaia di esuli. Intanto il sultano Abdul Hamid iniziò a perdere potere e essere criticato per le sue incapacità nel gestire l’impero. In questo contesto si sviluppò il movimento del “panturanismo”, che, ritenendo i Turchi superiori a tutti gli altri popoli, mirava alla loro unione dal Bosforo alla Cina e all’eliminazione di tutti i popoli che fossero di ostacolo a tale progetto. Nel 1908 scoppiò all’interno dell’impero la rivoluzione guidata dal Comitato Unione e Progresso (Ittihad), ostile verso il sultano, ma sulle sue stesse posizioni per quanto riguardava la questione armena. Nell’aprile del 1909 in Cilicia due ondate successive di massacri provocarono la morte di circa 30.000 persone. Nel 1913 i Giovani Turchi a capo dell’Ittihad stabilirono una dittatura militare diretta da Jemal, Enver e Talaat. Nel 1914 Enver sostenne l’entrata in guerra a fianco delle Potenze Centrali contro Francia, Inghilterra e Russia. Nel 1915 il disarmo dei soldati armeni dell’esercito ottomano fu un primo preoccupante segnale. All’alba di sabato 24 aprile 1915 iniziò a Costantinopoli una massiccia deportazione dei maggiori intellettuali armeni, che si concluse con la loro uccisione nelle strade dell’Anatolia. Presto i massacri coinvolsero l’intera popolazione armena su tutto il territorio dell’impero. Nel 1917 la Turchia lanciò un attacco contro l’Armenia orientale, ma fu fermata da un’eccezionale mobilitazione popolare. Nell’ottobre del 1918 qui venne fondata la prima “Repubblica d’Armenia”. Intanto la fine della Prima Guerra Mondiale aveva sancito anche la fine dell’impero ottomano. Il trattato di Sèvres dichiarò l’istituzione di uno stato armeno indipendente e di un Kurdistan autonomo. Nonostante le premesse favorevoli, il genocidio degli Armeni proseguì anche sotto la dirigenza di Mustafa Kemal, che si concluse nel 1922 con l’incendio di Smirne, ultima tappa di un massacro premeditato ed eseguito meticolosamente. Nel 1923 la Conferenza di Losanna annullò gli accordi firmati a Sèvres: le parole “armeno” e “Armenia” furono cancellate, come se non fossero mai esistite.

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