domenica 29 luglio 2012

IL MONACO TOBOR (Racconto tratto dalla raccolta 'L'Opportunità andalusa')


 IL MONACO TOBOR

(Racconto tratto dalla raccolta 'L'Opportunità andalusa')


(Alberto Rosselli)

Non si cela forse tra le pieghe di un grosso e tiepido fondoschiena l’ultima traccia d’una prodigiosa intuizione e di un eroico pensiero di lotta perduti? Non lievita forse in un deretano, pingue di noia e di volontà inespressa, il vero e chiaro sintomo dell’arrendevolezza umana, come sostenne un tempo ormai lontano il monaco Tobor, profeta fiammeggiante d’una teoria brillante ma per lui sventurata e tale da rivoltargli contro l’odio dei suoi simili?
Correva l’anno 1490, quando dalle piazze di Firenze s’alzò alto ed acuto un nuovo verbo di speranza.
Allora io vi dico, amati fratelli miei, che lo più mortale peccato sta nel far lievitare l’accidia al fondo de la schiena. Poiché la volontà, lo giusto ardimento ed ogni lecita passione germogliare debbono fora dalle membra umane e giammai depositarsi fra le basse carni, per la sola incapacità di realizzare ogni più nobile desìo. Diffidate, dunque, de li culi d’homini abbondanti e tiepidi che si scarrocciano, boriosi e supponenti, per gli antri del Potere e del Saper dotto. Essi, infatti, tra le loro pieghe celano incapacità d’agire e di pensare con coraggio, mollezza d’animo e malcelata inclinazione ad accettare sconfitte e a soggiacere passivi al vento della vita”.
Si trattava, come è facile intendere, di una vera e propria predica del demonio, che pioveva sulle masse disorientate e che turbava nobili e notabili di tonde ed agiate dimensioni. Queste parole, taglienti come lame, uscivano dalla sottile bocca di un uomo in verità onesto e pio, vestito dell’umile saio di frate pannone.
Durante la sua vita, Tobor aveva studiato e viaggiato molto, prendendo accuratamente nota di tutti gli innumerevoli vizi che affliggono i discendenti di Adamo. Aveva anche peccato, come d’altra parte ogni saggio o santo deve ben fare per meglio comprendere le debolezze dell’umana specie. Cresciuto nelle brumose lande magiare, Tobor aveva sempre desiderato, fin da novizio, di ridare la speranza ad ogni mortale animato da volontà e coraggio sinceri. Egli temeva Dio, ma non certo quegli uomini che, all’ombra di Dio, in virtù di fragili poteri o per codarda scelta, imponevano o subivano ogni sorta di pessimi costumi.
Tobor predicava ovunque, a dorso di mulo o dall’alto di pulpiti improvvisati. E le sue parole, chiare e sincere, avevano l’effetto di scudisciate. “Sia lapidato lo culone impaludato, sia esso villico, mercante o principe. Non fidatevi de li grossi e flaccidi sederi che vi impongono d’imitar lor stessi. Essi vi ingannano, per trasformavi in pecore atte solo al macello e non al giusto pascolo!”.
Ce n’era abbastanza per farsi impalare dai seguaci d’ogni fede.
Smascherate lo gran viso, posteriore e basso, de l’homo sanza ardore, e misurate in nodi lo suo sedentario vizio”, gridava Tobor slacciandosi la corda della tunica marrone e rincorrendo taluni passanti che egli afferrava e rivoltava come sacchi scoprendo e strizzando loro le terga con la cinta segmentata di nodi, onde valutare se queste ultime appartenessero o meno alla categoria ch’egli aborriva.
A poche settimane dalla sua prima apparizione a Firenze, il misterioso monaco venuto dall’Est era già diventato un pericoloso mito, temuto delle autorità civili ed ecclesiastiche locali. Tobor aveva iniziato, infatti, a fare proseliti e le sue prediche erano seguite da masse sempre più vaste ed assetate di nuova verità.
Invitato ad esporre le sue teorie in una disputa al cospetto del principe e del vescovo, il monaco Tobor non si sottrasse al periglioso dibattito.
Dopo ore ed ore di serrato e lucido monologo, ricco di dotte citazioni e di precisi riferimenti scientifici e filosofici, le teorie di Tobor vennero confutate dalle violente argomentazioni della commissione che, intravedendo in quel monaco ruggente una reale insidia al Potere, lo esortarono senza mezzi termini a rivedere le sue idee e soprattutto ad interrompere immediatamente le sue prediche in pubblico, minacciandolo di pena di morte.
Tobor cercò di difendersi strenuamente, assicurando circa le sue buone intenzioni. Sulle prime si rifiutò di abiurare, ma alla fine, Frà Gelasio Minniti, il superiore dell’Ordine al quale apparteneva Tobor - uomo che in cuor suo stimava il coraggioso monaco - riuscì a convincerlo ad accettare un solitario ma temporaneo esilio in Oriente, affinché questi potesse redimersi e mettere a frutto tutto il suo innegabile ingegno per una più giusta causa.
Va tra gli infedeli a predicare semplicemente fede e virtù, e dimentica le tue assurde e superbe teorie”, gli raccomandò l’alto prelato. E Tobor, dando prova di umiltà, si inchinò al suo superiore abbandonando Firenze; non prima però di aver abbracciato i suoi fedeli. “Li tempi, forse, non sono ancora maturi per lo nostro predicare. Obbedite alli Comandamenti e attendete fiduciosi il mio ritorno” si raccomandò ad essi in un breve ma commovente discorso di commiato.

Da quel momento, la vita e il destino del monaco pannone si fusero in una miriade di strane leggende e frammentarie cronache.
Giunto, dopo un lungo viaggio via mare e a dorso di quadrupede, a Tabriz, in Persia, il monaco Tobor, assolse per qualche tempo e con zelo gli incarichi affidatigli, utilizzando però parte del suo tempo per sviluppare ulteriormente e in modo sistematico la teoria circa la possibilità di decifrare, attraverso le forme del deretano, l’armonia o disarmonia dell’anima.
In un suo scritto segreto, egli espose il concetto di “epifania dell’anima incorporea nella materialità del deretano”, enunciando una grammatica utile alla “lettura” dello stesso, servendosi di apposite tavole anatomiche disegnate con scrupolo scientifico.
Il deretano venne suddiviso da Tobor secondo una mappa le cui direttrici andavano ad indicare sia i “vizi capitali” che le “virtù cardinali”. In questo modo, una attaccatura ben alta del gluteo verso la regione lombare stava ad indicare la forza interiore, mentre l’incavo, che forma il gluteo sul lato esterno del deretano, segnalava un adesione concreta alla realtà. La mappa consentiva in questo modo di evidenziare e diagnosticare gravi difetti dell’animo umano attraverso la disposizione dell’adiposità. Il grasso accumulato poteva infatti ragguagliare circa i più torbidi nascosti vizi “de lo peccatore”. Un accumulo verso l’esterno della natica ne manifestava la superbia, mentre se il lardo tendeva a cascare verso il basso lo studioso poteva dirsi certo di trovarsi di fronte ad una spiccata tendenza alla viltà del soggetto analizzato.
Il monaco pannone non si limitò, tuttavia, a stilare semplici, anche se precisi, appunti sui suoi studi, ma buttò giù un vero e proprio trattato sull’argomento: opera che si diffuse rapidamente giungendo per vie traverse perfino in Occidente dove produsse un vero e proprio sconquasso. Soprattutto perché lo scritto correva sul filo d’una logica ferrea e brillante, riflessa dalla tempra lucida e pura del religioso. I riferimenti scientifici in esso contenuti apparivano infatti inconfutabili perfino ai più scettici. Senza considerare che un numero troppo elevato di potenti si riconoscevano, loro malgrado, nelle tipologie viziose descritte dal monaco. Le femmine poi, nell’ombra discreta dei confessionali, iniziarono a giustificare con motivazioni etiche l’interesse estetico da esse sempre nascosto per le solide ed alte natiche del maschio.
Si cercò allora di correre ai ripari e a Pavia un selezionato Consiglio di Dottori, formato da ecclesiastici, sviscerò nel volgere di un mese tutta la materia dello scandaloso studio, elaborando anche un documento di confutazione dell’opera, privo però di reale efficacia. Il nocciolo della teoria toboriana risultava infatti troppo solido per essere subissato da una lunga sequenza di eruditi pretesti.
Ma non sarebbe stata certo una pretestuosa polemica ad incrinare un siffatto pensiero bensì, come spesso accade, soltanto il destino, che è un po’ l’intestino della Storia, a sancirne la fine e la messa in disgrazia.
Negli ultimi due capitoli dell’opera del Tobor si nascondeva infatti l’anello debole dell’intera teoria. Queste pagine, nate come semplice appendice, erano state in seguito trattate da sprovveduti copisti ed inglobati erroneamente nel corpo del trattato. In questa parte dello scritto, il monaco si interrogava per capire quali potessero essere i rimedi immediati per prevenire con purghe, salassi e clisteri adatti la sindrome culonica lieve e per debellare con la lama le forme più gravi o recidive. A questo proposito, il frate individuava senza indugi nella chirurgia la tecnica più efficace per ridurre o demolire i deretani più ingombranti.
Al fine di elaborare le giuste ricette e gli interventi più adatti, Tobor dovette compiere un’indagine empirica sugli alimenti e sulla loro influenza sul fisico e sul temperamento umano, non tralasciando analisi anatomiche dal vivo. E tutto ciò lo portò a curiosare non tanto nei borghi ma nelle campagne, nelle radure e nei boschi, dove venivano coltivati i prodotti della terra ed allevato il bestiame. L’ultimo capitolo del trattato conteneva però una riflessione, postuma alla prima stesura. Con essa, il pannone metteva in guardia i suoi lettori da facili e pericolosi fraintendimenti. Era vero, precisava quel saggio, che un deretano ben formato e asciutto, come quello di un atletico fanciullo, andava studiato in quanto poteva rivelarsi il riflesso di un’anima armonica e linda, ma era anche altrettanto vero quanto queste delicate analisi potessero accendere in taluni scellerati un certo appetito sessuale, fuoco che nel monaco si era ormai spento da molto tempo.
Ciononostante fu proprio in quest’ultimo capitolo dell’opera che i potenti detrattori di Tobor trovarono gli appigli necessari per accusare il monaco del più orrendo dei delitti. Volle infatti il caso che, dovendo frequentare per motivi di ricerca l’ambiente dei cacciatori di frodo, Tobor narrasse di avere incontrato sul suo cammino uno di essi: un giovane, forte e coraggioso, dotato di un deretano di tali perfette dimensioni da influenzare in seguito il genio del Buonarroti.
Dando prova di indubbia sincerità, ma anche di notevole imprudenza, l’incauto Tobor riferì di essersi sentito inevitabilmente attratto dalle sembianze posteriori di quel giovinetto che meglio di ogni altra cosa rappresentavano la dimostrazione vivente e palese del suo ardito teorema.
Poco tempo dopo, a quasi duemila leghe di distanza, il tonfo sordo e profondo di un volume chiuso di colpo rimbombò nella sala del magistero di Pavia. E Joaquim del Tortellada, il padre inquisitore incaricato dallo stesso Papa di indagare sull’operato del monaco pannone, non ebbe più dubbi circa la colpevolezza dell’inquisito. “Il nostro povero fratello Tobor ha imboccato la via senza ritorno della perdizione. Egli non solo ha peccato d’orgoglio e di superbia, ma si è pure macchiato di evidenti quanto innominabili crimini sessuali. Che sia egli ricercato e condotto davanti al cospetto del Tribunale ecclesiastico”.
Questo è quanto accadde in Italia e a completa insaputa del monaco che, nel frattempo, aveva ripreso a predicare con successo in terra d’Oriente. Tobor era infatti un uomo che sapeva farsi apprezzare anche all’estero. Accattivatosi le simpatie di Mohamed Becciahz, il Pascià di Tabriz, egli venne ben presto nominato medico di corte. Ma poco dopo la malasorte cominciò a perseguitarlo. Somministrata ad un notabile una banale pozione contro la gotta, il paziente presto peggiorò, rischiando la morte. Del fatto ne approfittò subito un perfido medico siriaco che accusò il monaco cristiano di veneficio. Il Pascià, sebbene incerto circa la colpevolezza di Tobor, si fece condizionare, condannando il taumaturgo alla dolorosissima pena della bastonatura delle piante dei piedi.
Rimessosi dall’ingiusta punizione, Tobor viene esiliato per un anno. Costretto a  riparare a Barzhani, nella montuosa regione del Droghestan, dove trovò ospitalità nel remoto monastero ortodosso di Melchiorre Cerotti, un abile speziale che nutriva molta stima nei confronti del perseguitato monaco pannone, Tobor passò molti mesi in meditazione ed in attesa della sua riabilitazione. Egli voleva infatti rientrare a Tabriz e proseguire nei suoi studi. Ricevette infine il perdono dal Pascià, ma quando il monaco fece rientro in città venne a sapere che questi era nel frattempo deceduto per aver ingerito una pozione al mercurio preparata dall’incompetente medico siriaco. Tuttavia, Tobor venne accolto con tutti gli onori dal successore di Becciazh, che si chiamava Gennaro. Il nuovo sovrano si rivelò essere un uomo saggio, ospitale e di larghe vedute. Aveva provveduto egli stesso a fare avvelenare il suo predecessore dal medico orientale, decapitando poi anche quest’ultimo.
Gennaro si affidò a Tobor, ma il monaco, per prudenza, si limitò a curargli soltanto lievi malesseri. Il Pascià gli concesse la cattedra di chirurgia della locale scuola di medicina, e gli consentì perfino di approfondire e predicare - entro certi limiti - la sua dottrina e le sue teorie. Tobor ottenne infatti una scorta armata, un assistente e una tunica con un cordone nodato per effettuare, su tutto il territorio posto sotto la giurisdizione di Gennaro, misurazioni dei fondoschiena degli appartenenti alla comunità ebraica.
Ma la gloria durò poco. Un crudele quanto ostinato destino attendeva al varco il monaco pannone.
Il Patriarca d’Oriente, cui erano giunte le conclusioni dei dottori cattolici, con i quali non intendeva entrare in rotta di collisione, aiutò il prelato francese Henri-Marie Pollion - braccio destro di Tortellada - a mettersi sulle tracce di Tobor per ricondurre questi in Occidente. Il Pollion - che nel frattempo era riuscito a corrompere con una forte somma di denaro il Pascià Gennaro - si presentò al cospetto del monaco pannone. Lo scontro tra i due fu inevitabile. Con la complicità di alcuni notabili orientali, invidiosi del frate magiaro, il Pollion, dopo avere accusato Tobor di sodomia, gli ingiunse di rientrare in Europa. Con uno stratagemma e con il segreto aiuto del suo fedele assistente, Tobor riuscì però a fuggire.

Dopo avere trascorso un altro anno in meditazione in una grotta del Droghestan, il monaco, ormai stanco delle continue persecuzioni, decise di far fronte al proprio destino e di fare ritorno in Europa per liberarsi da quelle assurde calunnie. Scrisse quindi a Budapest e a Pavia chiedendo ai suoi superiori e alle più alte cariche ecclesiastiche di potersi discolpare davanti ad uno speciale tribunale della fede.
Si imbarcò a Sindone per Venezia, ma giunto nella città lagunare venne a sapere che il suo Ordine, pressato dal Tribunale dell’Inquisizione, lo aveva abbandonato e che de Tortellada e Pollion stavano organizzando per lui una trappola senza scampo. Infuriato, il monaco ritrovò allora l’ardore che sembrava averlo abbandonato. Sorretto da una rinnovata, ferrea volontà e dai discreti aiuti di frate Girolamo Stoppani - un pio ed illuminato predicatore che egli aveva conosciuto e curato per una dolora fistola anale durante il suo travagliato soggiorno in Oriente - Tobor decise di raggiungere egualmente Budapest, travestito da mercante veneto. Dopo mille peripezie, il monaco riuscì a farsi ricevere da Frà Sebastiano Molnar, un colonnello del suo Ordine che un tempo gli era amico e, dopo un drammatico colloquio, ottenne da questi la promessa del perdono, in cambio della sua rinuncia definitiva ad ogni ulteriore ricerca o predica non conformi all’ortodossia.
Il monaco accettò pure di essere assegnato alla biblioteca del convento di Budapest, situato a pochi passi dal Danubio.
Per i primi tempi Tobor si mantenne quieto. Poi, un giorno, fece domanda per essere secolarizzato e per intraprendere la professione di chirurgo. La richiesta viene respinta dal Molnar. Il monaco chiese allora di essere inquadrato nel laboratorio degli speziali dell’Ordine, ma anche questo suo desiderio non venne esaudito. Gli concessero tuttavia di trasferirsi da Budapest a Gulash, per mettersi a disposizione di frate Antonello da Garza, noto taumaturgo ligio all’ortodossia. A fianco di questi, Tobor lavorò alacremente alla stesura di un brillante trattato di foruncolosi gluteale, non ottenendo però alcun riconoscimento da parte dei superiori e della locale Facoltà di Medicina. Il mondo dei dotti lo aveva completamente isolato. Avvilito, il monaco chiese nuovamente ai suoi superiori di Budapest, e persino a Roma, di essere sciolto dai voti, ma ovviamente la sua richiesta venne respinta. In preda ad una violenta crisi depressiva, Tobor compì infine il folle gesto atteso da tutti i suoi nemici. In una fredda notte di inverno fuggì dal convento travestito da suora. E sotto queste mentite spoglie compì un lungo viaggio. Toccò Vienna Basilea, Lione, Livorno Napoli dove, tra l’altro, fece amicizia con i Voiello ai quali consegnò una sua nuova formula per la fabbricazione della pasta integrale anticellulitica. Poi si imbarcò su una caracca di contrabbandieri amalfitani alla volta di Trebisonda, sul Mar Nero.
Qui, l’ex monaco pannone si trasformò in profeta mago. Indossato uno strano abito di foggia turca, strabiliò le masse anatoliche maneggiando tizzoni e monete ardenti e cavando chiodi aguzzi dalle orecchie e dai nasi di notabili e pirati. Frantumò macigni con la sola forza del pensiero, disegnò e confezionò indumenti intimi maschili in legno atti al contenimento forzato delle adiposità del fondoschiena, e divulgò per una seconda volta il poderoso trattato “Lo Vizio Posteriore”, ormai introvabile.
Sebbene perseguitato, il monaco ottenne vasti consensi da parte delle masse affamate e degli asceti.
E radunata una minuta ma fidata schiera di seguaci appartenenti a tutte le razze e religioni, Tobor organizzò una pazzesca spedizione per liberare il mondo occidentale dall’“accidia culonica”.
Questa Specie di crociata, ignorata da quasi tutti i testi, non ricevette ovviamente alcun appoggio o finanziamento da parte di alcun potente.
La piccola, pacifica ma compatta schiera lasciò Sinope a bordo di un malandato veliero genovese preso in nolo e fece rotta verso l’Italia.
Sbarcato a Follonica, tra le ali di una folla di pescatori curiosi, Tobor riordinò i suoi ranghi e si mise in marcia verso Firenze seguito - secondo le cronache dello Scortecci - da “novanta ardimentosi e folli morituri con in pugno stendardi inneggianti all’homo novo e numerosi cordoni annodati atti alla misurazione delli deretani”.
Lungo la via del Chianti, il monaco fiammeggiante cercò inutilmente di far proseliti, poiché il popolo, già sobillato dai nobili e dai vescovi, lo prese subito per folle, apostrofandolo con calunniosi insulti, il più frequente dei quali fu “bucaiolo!”. Giunse infine alle porte di Firenze, ormai mobilitata per respingere e la pericolosa eresia.
Sceso di groppa dal suo mulo, Tobor lesse un proclama alla cittadinanza. Era solo sotto le alte mura, poiché aveva dato ordine ai suoi fedeli di stare indietro, in duplice fila longobarda, per non allarmare i fratelli toscani.
Il monaco pronunciò un nobile discorso all’insegna dell’amore. Spiegò le ragioni della sua lotta, perdonò i suoi persecutori e chiese alle autorità che gli venisse concesso di fondare il pacifico “Ordine della Corda”. Ma i nobili e gli ecclesiastici respinsero sprezzanti ogni tentativo di conciliazione, dando mano libera alle loro truppe.

Le potenti schiere della città compirono una sortita e travolsero con estrema facilità l’esigua e disarmata schiera toboriana, annientandola e non facendo prigionieri. Nessuno rimase in vita. E soltanto il monaco ribelle venne risparmiato e catturato. Incatenato come un animale feroce, Tobor fu condotto nelle orribili segrete di una prigione e costretto con atroci torture ad abiurare. Il monaco, seppure stremato, rifiutò di abdicare alla sua coscienza, preferendo salire sul patibolo. L’eroico pannone morì così sul rogo il primo febbraio del 1510. E le sue ceneri, raccolte in un sacco di iuta, vennero sparse nelle acque dell’Arno.
All’indomani dell’esecuzione, le autorità civili ed ecclesiastiche emanarono un editto con il quale veniva inflitta la ruota e poi il rogo a chiunque fosse stato trovato in possesso del trattato del monaco. E quindi nel volgere di pochi anni non si trovò più traccia dell’importante manoscritto.

Oggi, a distanza di secoli, nulla infatti è rimasto della geniale intuizione del martire. Lo scintillìo di quel cristallo puro di rocca che doveva sciogliere nodi filosofici e morali sui quali molti scienziati continuano ad interrogarsi venne distrutto precocemente perché smettesse di brillare e fare luce sulla verità. Ma forse fu un bene perché già dai primi anni della predicazione del monaco stava purtroppo diffondendosi, come spesso accade, da parte di praticoni e maghi, una bieca contraffazione di quella giusta dottrina, dando l’opportunità ai disonesti e ai lussuriosi di farsi promotori di analoghe ricerche e sperimentazioni sulle terga umane: giammai in buona fede e meno che mai per scelta etica.




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