domenica 29 luglio 2012

UN MARE DI GUAI





UN MARE DI GUAI

di Alberto Rosselli

Fino dall’antichità i naviganti hanno sempre cercato di ingraziarsi il mare. Il mare, infatti, è sempre stato considerato da molti popoli una capricciosa e talvolta crudele divinità che andava placata e blandita con doni e gesti, molti dei quali sono sopravvissuti nella memoria collettiva. I marinai egizi e greci usavano decorare le prore delle loro navi con il vello di un’animale sacrificale, dopo averle asperse di sangue: ritualità dalla quale è in seguito derivata l’usanza di collocare a prua delle navi una meno cruenta scultura in legno (la polena) raffigurante fanciulle o figure sacre o mitologiche. Anche se ancora oggi in alcuni porti italiani è possibile intravedere inchiodati agli alberi dei pescherecci corna di capra o di toro e perfino pelli di capra. A Torre del Greco, patria degli ultimi grandi maestri d’ascia, è possibile scovare imbarcazioni sulle cui prore viene collocata una croce con affisso il nome del santo o della santa prediletta dall’armatore. In Sicilia, presso alcuni cantieri navali, sussiste ancora l’usanza di inserire una medaglietta dorata con l’effigie di un santo nella struttura della barca, ponendola in uno spazio ricavato apposta nell’incastro tra la chiglia e il dritto di prora. Stesso discorso vale per i retaggi degli occhi benefici dipinti in epoca egiziana (e poi ellenica) sulle prore. Si trattava di simboli apotropaici molto antichi capaci di scongiurare disgrazie e tenere lontano il malocchio. Bene, ancora oggi, in molte parti del globo, questa usanza continua a mantenersi in voga: segno indelebile dello spirito scaramantico che ha sempre accomunato le genti di mare. Ma non è tutto, in antichità, come si è detto, si usava decorare le prore delle navi con il sangue dell’animale offerto in sacrificio: pratica dalla quale è derivata l’abitudine di dipingere di rosso (ma con comune pittura sintetica  antivegetativa “sangue di bue”) l’opera viva delle imbarcazioni. E dal sangue passiamo al vino. Forse in epoca romana venne abbandonata la tradizionale aspersione di sangue sulle prore delle navi al varo, sostituendola con del vino rosso: pratica che in epoca contemporanea iniziò ad essere compiuta tramite il lancio della tradizionale bottiglia di champagne.  Anche se gli avvenimenti degli ultimi anni vedono quasi completamente smentita la diceria che le donne a bordo portino sfortuna, nella tradizione marinara di molti popoli questo pregiudizio continua a rivelarsi profondamente radicato. Secondo antiche leggende risalenti all’epoca greco-romana, supportate da una successiva e vasta letteratura popolare, il gentil sesso a bordo menerebbe infatti gramo in quanto presenza naturalmente avversa alla barca, intesa come entità dotata di una propria anima e coniugata per fato all’uomo. Sembra però che le origini di questa misoginia in salsa marinara siano da collegare al fatto che la donna essendo soggetta al ciclo mestruale potesse macchiare e rendere impuro il “legno”. Anche per questa ragione, l’unica figura femminile a potere prendere posto sulle navi fu per molti secoli la madonna in effige lignea. L’immagine della vergine, densa di significati sacrali, avrebbe avuto infatti il compito di allontanare sciagure e jella. Anche se ancora oggi, in alcuni paesini della costa greca e calabrese, i pescatori inducono le vergini ad andare sulla riva del mare e a cercare di placare la furia delle trombe marine o il mare grosso mostrando a Poseidone il proprio sesso. Non a caso, una leggenda narra che il dio del mare, in un accesso d’ira, scatenò una violenta tempesta, minacciando la distruzione di una città calabra che venne salvata grazie allo strip-tease di un gruppo di avvenenti fanciulle. Terrorizzato (chissà poi perché) da quella visione sembra che Poseidone se la sia data a gambe. Questa singolare ritualità è peraltro testimoniata dal ritrovamento di una statuetta in bronzo del V secolo, conservata al museo di Gela, che rappresenta una donna nell’atto di mostrare la propria intimità alle onde. Questo spiegherebbe anche perché le polene rappresentino spesso figure femminili. Come è noto, cambiare il nome a una barca è considerato dai marinai di tutto il mondo un atto da evitare, in quanto ogni imbarcazione possiederebbe un’anima. E privare un “legno” del suo nome originale significherebbe quindi sottrargli lo spirito. Comunque sia, l’antica sapienza marinara ha escogitato alcuni rimedi atti a rendere possibile il cambio di nome senza incorrere in peccato e quindi in sfortune di varia natura. Prima di procedere al nuovo battesimo, è necessario fare sturare una bottiglia di vino rosso da una donna vergine e farne aspergere il contenuto sulla prora e poi fare riposare a terra l’imbarcazione per la stagione invernale, sfruttando magari il rimessaggio: espediente utilizzato nella speranza che la barca dimentichi il vecchio nome e non si accorga che qualcuno a sua insaputa glie ne ha affibbiato uno nuovo. Rimesso in mare, il “legno” viene portato a fare rotta di scongiuro in modo tale da tagliarla per sette volte. Prima di tutto ciò i marinai debbono però avere provveduto ad altre procedure collaterali quali il dipingere il vecchio nome sottocoperta, sostituire un chiodo alla chiglia e collocare una moneta sotto l’albero maestro come facevano i romani. Ma attenzione però. Se l’albero è in alluminio, la moneta dovrà essere isolata magneticamente. Pena un mare di guai.

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